Racconto (favola) di Charles Perrault

 

A tempo delle prime crociate, un re di non so che regno di Europa deliberò di andarsene in Palestina per far la guerra agli infedeli. Prima di avventurarsi al lungo viaggio, aggiustò così bene le cose del regno e ne affidò la reggenza a un così bravo ministro, che da questo lato stava tranquillo. Più d’ogni cosa, la famiglia lo teneva in pensiero. Da poco tempo gli era morta la moglie, senza lasciargli che tre giovani principesse da marito. Come si chiamassero, non so; ma secondo la semplicità dei tempi che dava dei soprannomi a tutte le persone eminenti in armonia delle virtù loro o dei difetti, la prima era detta la Sciattona, la seconda la Ciarliera e la terza Finetta.

Di sciattone come Sciattona non ce n’era un’altra. Tutti i giorni, al tocco, non era ancora sveglia; la trascinavano in chiesa così come usciva dal letto, arruffata, discinta, senza cintura, e spesso con una pantofola diversa dall’altra. Si rimediava a ciò durante la giornata; ma non si riusciva mai a farle smettere le pantofole, visto che gli stivalini le parevano insopportabili. Dopo desinare, Sciattona si dava ad acconciarsi fino alla sera; poi, fino a mezzanotte, giocava e cenava; poi ancora ci voleva tanto a spogliarla quanto s’era messo a vestirla; e finalmente entrava in letto che già faceva giorno.

Altra vita menava la Ciarliera. Era una principessa vivace, che poco tempo dedicava a sé stessa; ma tanta e tanta voglia avea di discorrere, che da mattina a sera non chiudeva bocca. Sapeva la storia delle famiglie male organizzate, degli amoretti, delle galanterie, non solo della corte ma di ogni infimo borghese. Tenea registro di tutte le donne leste di mano pur di sfoggiare un bel vestito, ed era informata a puntino di quanto guadagnava la cameriera della contessa Tale e il maestro di casa del marchese Talaltro. Per appurare tante inezie, se ne stava a sentire la nutrice o la sarta più volentieri che non avrebbe ascoltato un ambasciatore; e poi intronava con le sue storielle dal re fino all’ultimo staffiere, perché chiunque fosse l’ascoltatore, bastava a lei di ciarlare.

Il prurito della chiacchiera fu anche motivo di un altro guaio. A dispetto del grado, quel fare troppo confidenziale, troppo alla carlona in una principessa, dettero animo a più d’un bellimbusto di spifferarle delle galanterie. La principessa dava retta, tanto per avere il gusto di rispondere. Naturalmente, a somiglianza della Sciattona, la Ciarliera non si dava mai pensiero di pensare, di riflettere, di leggere, di badare alle faccende di casa, di svagarsi con l’ago o col fuso. Insomma le due sorelle, eternamente in ozio, non facevano mai agire né il cervello né le mani.

Ben diversa era la sorella minore. Sempre vigile e pronta di mente e di persona, mirabilmente vivace, badava a far buon uso di ogni sua dote. Ballava, cantava, suonava stupendamente; era maestra in tutti quei lavoretti che tanto son cari alle donne; metteva l’ordine in casa e impediva i furti della gente di servizio, ai quali fin da quei tempi i principi erano esposti.

E non basta. Aveva giudizio da vendere, e tanta prontezza che subito trovava i mezzi per cavarsi da un qualunque impaccio. Aveva scoperto, con la sua scaltrezza, un pericoloso trabocchetto teso da un ambasciatore al re suo padre in un trattato che questi stava per firmare. Per punire la perfidia dell’ambasciatore e di chi l’aveva mandato, il re mutò l’articolo del trattato, sostituendolo con le parole suggeritegli dalla figlia, e così ingannò a sua volta l’ingannatore. Un altro giorno, la giovane principessa scoprì un certo tiro che un ministro voleva giocare al re, e fece in modo, con un suo consiglio, che la perfidia macchinata venisse a colpire lo stesso ministro. Più e più volte, la principessa diè prova di sagacia e finezza di spirito, tanto che per consenso di tutto il popolo, fu chiamata Finetta. Il re le voleva un gran bene, e tanto la stimava giudiziosa che se avesse avuto quell’unica figlia sarebbe partito senza un pensiero al mondo. Ma le altre due, pur troppo, lo tenevano sulle spine. Sicché, per esser sicuro della propria famiglia come credeva esser sicuro dei sudditi, adottò le misure seguenti.

Se n’andò a trovare una Fata, della quale era amico intrinseco, e le espose schietto tutta la pena che lo tormentava.

— Non già, disse, che le due figliuole più grandi abbiano mai mancato al loro dovere; ma son così grulle, imprudenti, disoccupate, da farmi temere che, durante la mia assenza, non s’abbiano a cacciare in qualche ginepraio col pretesto di svagarsi. Quanto a Finetta, non ci penso nemmeno; ma, per non far parzialità, la tratterò come le altre. Epperò, mia buona Fata, io vi prego di farmi per queste ragazze tre conocchie di vetro, così congegnate che si rompano di botto non appena chi le possiede abbia commesso qualche cosa di men che onorevole.

La Fata che era abilissima diè al principe tre conocchie incantate e lavorate con ogni cura per il disegno da lui ideato. Ma di ciò non contento, egli menò le tre principesse in un’alta torre, fabbricata in un posto deserto. In quella torre dovevano rimanere tutto il tempo della sua assenza, con assoluto divieto di ricevere chiunque si fosse. Tolse loro ogni sorta di servi dell’uno e dell’altro sesso; e dopo averle fornite delle conocchie incantate di cui spiegò loro le qualità, abbracciò le figlie, chiuse le porte della torre, ne prese con sé le chiavi e partì.

Si penserà forse che le principesse corressero pericolo di morir di fame. Niente affatto. A una finestra della torre una carrucola era stata attaccata con una corda cui le prigioniere sospendevano un cestino. Nel cestino mettevasi la provvista del giorno, e dopo tiratolo su anche la corda era deposta in camera.

La Sciattona e la Ciarliera menavano nella torre una vita disperata; si annoiavano a morte; ma bisognava aver pazienza, per dato e fatto della conocchia che alla minima mancanza sarebbe andata in frantumi.

Quanto a Finetta non si annoiava: il fuso, l’ago, gli strumenti, bastavano a svagarla; senza dire che, per ordine del ministro che governava lo Stato, si metteva ogni giorno nel cestino delle principesse una lettera che le informava di quanto accadeva fuori e dentro del regno. Così il re aveva voluto, e il ministro eseguiva gli ordini appuntino. Finetta leggeva con avidità tutte quelle notizie e ci trovava gusto. Non così le sorelle, tanto erano afflitte da non potersi divertire a codeste inezie; avessero almeno avuto delle carte per ammazzare il tempo durante l’assenza del padre!

Passavano così tristamente i giorni, mormorando contro il destino; e forse ebbero anche a dire che meglio è nascer felici che figlio di re. Spesso si mettevano alla finestra della torre, per vedere almeno quel che accadeva in campagna. Un giorno, mentre Finetta era occupata in camera a qualche bel lavoro, le sorelle videro a piè della torre una povera donna cenciosa, che si lamentava della sua miseria e le pregava a mani giunte di lasciarla entrare. Era, diceva, una infelice forestiera che sapeva mille e mille cose e che avrebbe loro reso ogni sorta di servigio. Sulle prime, pensarono le principesse all’ordine dato dal re di non lasciare entrare anima viva nella torre; ma la Sciattona era così stanca di servirsi da sé, e la Ciarliera così annoiata di poter solo discorrere con le sorelle, che l’una per farsi pettinare, l’altra per chiacchierare, si decisero entrambe a far entrare la vecchia.

— Credi tu, disse la Ciarliera alla sorella, che il divieto del re comprenda anche una infelice come questa? Per me, mi pare che nulla ci sia di male a riceverla.

— Fa come vuoi, rispose la Sciattona.

La Ciarliera non se lo fece dir due volte, calò il cestino, fece cenno alla vecchia di entrarvi, e le due sorelle la tirarono su con la carrucola.

Quando la videro da vicino, furono disgustate dalla sudiceria dei suoi vestiti, e volleano subito dargliene degli altri; ma la vecchia rispose che se ne sarebbe parlato il giorno appresso, e che pel momento non voleva che servirle. Mentre così parlava, apparve Finetta e molto stupì di veder quella intrusa; le sorelle le spiegarono perché l’avevano fatta entrare; e Finetta, visto che non c’era più rimedio, dissimulò il dispiacere che quella imprudenza le cagionava.

La nuova cameriera girava intanto e rigirava per la torre, col pretesto di voler servire le principesse, ma in realtà per osservare la disposizione delle camere; poiché la pretesa mendicante era altrettanto pericolosa nel castello quanto il conte Ory nel convento dove s’insinuò travestito da badessa fuggitiva. In due parole, la vecchia cenciosa era il figlio di un gran re, vicino del padre delle principesse. Questo principe, malizioso quanto mai, governava a suo talento il re suo padre, il quale aveva un carattere così dolce ed agevole, che lo si chiamava per soprannome Molto-Benigno. Il principe invece che agiva sempre per artifizi e stratagemmi, era detto dal popolo il Furbo.

Aveva egli un fratello minore così ricco di virtù per quanto egli era ricco di vizi, eppure, a malgrado dell’indole diversa, regnava tra i due fratelli un così perfetto accordo che tutti ne stupivano. Oltre le doti dell’anima, il principe più giovane aveva un così bello aspetto che gli si era dato il nome di Belvedere. Era il principe Furbo che aveva inspirato all’ambasciatore del re suo padre quel tiro di malafede che poi l’accortezza di Finetta aveva ritorto a loro danno. Da ciò era cresciuto l’odio che Furbo già nutriva per il padre delle principesse. Epperò, quando a lui giunse notizia delle precauzioni prese a riguardo delle tre ragazze, una voglia maligna lo prese d’ingannar la prudenza d’un padre così sospettoso. Trovato un qualunque pretesto, Furbo ottenne il permesso di mettersi in viaggio, ed escogitò i mezzi per insinuarsi nella torre.

Esaminando il castello, vide il principe che era facile alle principesse farsi udire da chi passava di fuori, e ne concluse che gli conveniva conservare il travestimento durante tutto il giorno, per evitare che quelle chiamassero gente e lo facessero punire per la temeraria impresa. Seguitò dunque a fingersi mendicante; ma la sera, dopo che le tre sorelle ebbero cenato, gettò via i cenci e si mostrò in tutto lo splendore degli abiti di cavaliere, ricamati d’oro e di gemme. Le povere principesse, atterrite a quella vista, scapparono più che di corsa. Finetta e la Ciarliera, più svelte, ripararono subito alle camere loro; ma la Sciattona, che a fatica metteva il passo, fu subito raggiunta dal principe.

Gettatosi ai piedi di lei, questi le dichiarò l’esser suo, dicendole che la fama di bellezza da lei goduta e i ritratti l’avevano spinto a lasciare una corte deliziosa per offrirle i suoi voti e la sua fede. Smarrita sulle prime, la Sciattona non trovò parole da rispondere al principe genuflesso: ma noi. incalzata dalle calde proteste e dalla preghiera di divenir subito sua sposa, né avendo la voglia o la forza di discutere, disse senza pensarci sopra che credeva alla sincerità di quelle dichiarazioni e le accettava. Queste, e non altre furono le formalità da lei osservate per conchiudere le nozze; ma, in compenso, la conocchia fu perduta e si ruppe in mille frantumi.

Finetta intanto e la Ciarliera, chiuse ciascuna in camera sua, stavano sulle spine. Le due camere erano lontane l’una dall’altra; epperò, ignorando la sorte delle sorelle, le povere principesse passarono la notte senza chiuder occhio. Il giorno appresso, il maligno principe menò la Sciattona in un appartamento a terreno in fondo al giardino. La principessa non celò a Furbo di essere molto inquieta per le sorelle, benché non osasse mostrarsi a loro per paura di esserne rimproverata. Il principe la rassicurò, dicendole che avrebbe ottenuto il loro consenso alle nozze; e dopo pochi altri discorsi, uscì, chiuse a chiave la Sciattona, senza ch’ella se n’avvedesse, e se n’andò alla ricerca delle altre due sorelle.

Stette un bel pezzo prima di trovar le camere dove stavano rinchiuse. Ma poiché la Ciarliera, sempre smaniosa di parlare, si lamentava da sola a sola della sorta toccatale, il principe si accostò all’uscio della camera e la vide dal buco della serratura. Come già aveva fatto con la sorella, Furbo le disse attraverso la porta di essersi insinuato nella torre per offrir proprio a lei il cuore e la fede di sposo.

Esaltò la bellezza e lo spirito della Ciarliera; e costei, che era persuasissima dei propri meriti, ebbe la balordaggine di aggiustar fede alle parole del principe e rispose di dentro con un torrente di amabili parole. E dire che era abbattuta e che non aveva nemmeno preso un boccone! In camera non aveva provviste, tanto le pesava perfino il pensarvi; se di qualche cosa abbisognava, ricorreva a Finetta; e questa cara principessa, sempre laboriosa e preveggente, aveva sempre in camera un’infinità di paste, marzapani, confetture secche e liquide fatte con le proprie mani. La Ciarliera dunque, stretta dalla fame e dalle tenere proteste del principe, aprì la porta al seduttore, il quale seguitò abilmente a recitar la sua parte.

Usciti insieme dalla camera, se n’andarono in cucina, dove trovarono ogni sorta di rinfreschi; perché la cesta ne forniva sempre con anticipazione. Sulle prime, la Ciarliera era in pensiero per le sorelle; ma poi si figurò, chi sa come e perché, che fossero tutt’e due nella camera di Finetta, dove di nulla mancavano. Furbo si sforzò, di confermarla in questa idea, assicurandola che la sera stessa sarebbero andati a trovarle. La Ciarliera non fu dello stesso parere, e rispose che bisognava cercarle subito dopo aver mangiato.

Finalmente, il principe e la principessa mangiarono insieme e d’accordo. Dopo di che, Furbo domandò di visitare il bell’appartamento del castello, e data la mano alla sua compagna, vi fu da lei condotto. Riprese qui a parlarle del suo amore e della felicità delle nozze. Le disse, come già alla Sciattona, che bisognava sposar subito, per evitare che le sorelle vi si opponessero, allegando che un così gran principe era miglior partito per la sorella maggiore. La Ciarliera, dopo molti discorsi che non avena senso, fu così stravagante come la sorella era stata: accettò il principe in sposo, e della conocchia non si ricordò che dopo averla vista rotta in cento pezzi.

Verso sera, la Ciarliera tornò in camera sua col principe, e fu allora che, per prima cosa, vide la conocchia di vetro in frantumi. Si turbò a quella vista, e il principe le domandò che cosa avesse. Incapace di tacere, smaniosa di chiacchierare, la Ciarliera svelò a Furbo il mistero delle conocchie; e il principe malvagio gongolò di gioia, pensando che il padre della principessa avrebbe avuto la prova della mala condotta delle figlie.

La Ciarliera intanto non aveva più voglia di cercar le sorelle; temeva i loro rimproveri; ma il principe si offrì di andar lui invece e di persuaderle ad approvar le nozze. Dopo questa assicurazione, la principessa, che tutta notte non aveva chiuso occhio, si addormentò; e Furbo profittando di quel sonno, la chiuse a chiave come aveva fatto con la Sciattona.

Chiusa che l’ebbe, andò per tutte le camere del castello, e trovandole tutte aperte, ne arguì che l’unica chiusa era quella dove Finetta erasi ritirata. Avendo preparata una arringa circolare, se n’andò a spifferare davanti alla camera di Finetta le stesse fandonie dette alle sorelle. Ma la principessa, più giudiziosa delle altre due, lo ascoltò a lungo senza rispondere. Finalmente, vistasi scoperta, gli disse che se davvero nutriva per lei tanto calore di affetto, scendesse in giardino, e che ella gli avrebbe parlato dalla finestra.

Furbo non accettò la proposta; e poiché la principessa si ostinava a non aprire, egli, preso un tronco nocchieruto, sfondò la porta. Trovò Finetta armata d’un grosso martello che per caso era stato lasciato in una guardaroba attigua alla camera. L’emozione la faceva divampare; e per furibondi che fossero gli occhi, le conferivano una straordinaria bellezza. Furbo tentò di gettarsi ai suoi piedi, ma ella, tirandosi indietro, gli disse altera:

— Se vi accostate, principe, vi spacco la testa con questo martello.

— Come, bella principessa! esclamò Furbo ipocritamente, l’amore che vi si porta è meritevole di tanta vendetta?

Tornò a protestarle, trascinandosi per la camera, l’amore ardente inspiratogli dalla fama di tanta bellezza e di tanto spirito. Soggiunse di essersi travestito proprio per venirle ad offrire il cuore e la mano, e domandò perdono, in grazia della passione, di averle sfondato la porta. Conchiuse che, nell’interesse di lei, bisognava sposar subito. Disse ancora di non sapere dove le sorelle eransi ritirate, non avendole nemmeno cercate, tanto di lei era infatuato. L’accorta principessa, fingendo di rabbonirsi, gli disse che bisognava cercar le sorelle, e che poi tutti insieme si sarebbe preso un partito; ma Furbo allegò di non poter cercare le principesse, finché ella non avesse consentito alle nozze, poiché certo le sorelle vi si sarebbero opposte, accampando la primogenitura.

Finetta, già sospettosa delle proteste del principe, pensò tremando alla sorte delle sorelle, e risolvette vendicarle con lo stesso colpo che le farebbe evitare una disgrazia simile a quella che aveva colpito loro. Disse dunque a Furbo che consentiva a sposarlo, ma che era persuasa esser sempre infelici i matrimoni fatti di sera. Rimandasse dunque la cerimonia nuziale al giorno appresso; assicurò che non avrebbe avvertito le principesse, e pregò di rimaner sola un momento per pensare al cielo; che lo menerebbe poi in una camera dove troverebbe un letto eccellente, e che poi, fino al mattino, sarebbe tornata a chiudersi in camera propria.

Furbo, che non era mica un prode e che vedeva Finetta scherzar col martello come avrebbe fatto d’una penna, consentì alla proposta e si ritirò. Vistolo partito, Finetta corse a far un letto sulla buca d’una fogna che era in una camera del castello. La camera era pulita come le altre; ma nella buca si soleva gettare tutte le spazzature del castello. Due bastoni incrociati pose Finetta sulla buca, ma molto deboli, poi vi fece sopra un letto, e se ne tornò in camera.

Il principe, senza spogliarsi, si gettò sul letto. Il peso del corpo fece spezzare i bastoni, ed egli precipitò in fondo alla fogna, senza poter afferrarsi, facendosi venti bolle alla testa e fracassandosi le costole. La caduta fece un fracasso del diavolo, e poiché non era lontano dalla camera di Finetta, questa capì subito che lo stratagemma era riuscito e ne risentì una gioia che le fu di vero sollievo. Impossibile dire il piacere da lei provato a sentirlo sguazzar nella fogna. Il castigo era meritato, e la principessa aveva ragione di rallegrarsene. Ma non per questo dimenticava le sorelle. Prima sua cura fu di cercarle. Le fu agevole trovar la Ciarliera. La chiave era di fuori nella serratura. Finetta aprì, entrò di furia, svegliò la sorella, la quale restò confusa e smarrita. Finetta le narrò il come erasi sbarazzata del principe Furbo, venuto per oltraggiarle. La Ciarliera sbigottì, come colpita dalla folgore. Per ciarliera che fosse, aveva bonariamente creduto a tutte le fandonie spifferatele dal principe. Ce n’è sempre al mondo di queste balorde.

Soffocando il dolore, la Ciarliera se n’andò con Finetta a cercar la Sciattona. Gira di qua, gira di là, la scovarono finalmente nel quartierino a terreno. Era più morta che viva dal dispiacere e dalla fiacchezza, perché da ventiquattr’ore non prendeva cibo. Le sorelle le apprestarono ogni soccorso; dopo di che, entrarono in certe spiegazioni che straziarono a morte la Sciattona e la Ciarliera; poi tutte e tre se n’andarono a letto.

Furbo intanto passò assai male la notte, né si trovò meglio a giorno chiaro. Era precipitato in certe caverne orrende, dove la luce non penetrava mai. Pure, dalli e dalli, trovò l’uscita della fogna che dava sopra un fiume assai lontano dal castello. Riuscì a farsi udire da certi pescatori, e da costoro fu tratto fuori in uno stato compassionevole. Si fece trasportare in corte del padre, per curarsi a comodo; e la disgrazia toccatagli gli mise addosso tant’odio contro Finetta, che pensò meno a guarire che a vendicarsi.

Finetta passava delle ore assai tristi; più della vita le stava a cuore la gloria, e la vergognosa debolezza delle sorelle la metteva in una disperazione invincibile. Pure la cattiva salute delle due sorelle, effetto dell’indegno matrimonio, mise ancora alla prova la costanza di Finetta. Furbo, dopo il guaio capitatogli, divenne più furbo che mai. La fogna e le ammaccature non gli davano tanto cruccio quanto l’aver trovato chi era più astuto di lui. Presentì le conseguenze dei due matrimoni; e per tentare le due principesse inferme, fece portare sotto le loro finestre certi cassoni con entro tanti alberi carichi di frutti. La Sciattona e la Ciarliera, sempre spenzolate alle finestre, li videro; e tanta voglia ebbero di assaggiarli, che costrinsero Finetta a scendere nella cesta per coglierli. Finetta, sempre compiacente, si lasciò calare, portò i frutti e le sorelle se li mangiarono con avidità.

Il giorno appresso, altri frutti apparvero. Da capo la voglia, da capo la compiacenza di Finetta; ma gli sgherri di Furbo nascosti, cui la prima volta era fallito il colpo, si scagliarono su Finetta e la portarono via sotto gli occhi delle sorelle che si strappavano disperate i capelli.

Fu trasportata Finetta in una casa di campagna, dov’era il principe convalescente. Furibondo contro la principessa, questi la caricò d’ingiurie, cui ella rispose con una fermezza e una magnanimità da quella eroina che era. Finalmente, dopo tenutala prigione alquanti giorni, ei la fece trascinare in cima a un’alta montagna, dove egli stesso arrivò poco dopo, e le annunziò che una morte terribile l’aspettava perché scontasse i brutti tiri che gli aveva giocato. Così dicendo, mostrò a Finetta una botte irta all’interno di temperini, rasoi, uncini, e le dichiarò che per punirla come si meritava l’avrebbero prima ficcata in quella botte e poi rotolata dall’alto al basso della montagna.

Benché non Romana, Finetta non fu atterrita dal supplizio imminente, più che Regolo non fosse stato. Serbò tutta la sua fermezza e la presenza di spirito. Furbo, invece di ammirare l’eroismo di lei, ne fu più che mai inviperito e pensò ad affrettare il supplizio. Si chinò verso l’orifizio della botte, per assicurarsi se questa fosse ben fornita delle armi omicide. Finetta, vistolo così intento a guardare, non perdette tempo; con un urto lo spinse dentro, e fece subito rotolar la botte giù per la montagna, senza dar tempo al principe di fiatare. Fatto il colpo, fuggì; e gli ufficiali del principe, che avevano visto con gran dolore con quanta crudeltà voleva egli trattare la bella principessa, non si curarono di correrle dietro. D’altra parte, erano così spaventati dell’accaduto, che solo pensarono ad arrestar la botte; ma ogni sforzo fu inutile: la botte rotolò fino in fondo, e il principe ne fu tirato fuori tutto coperto di piaghe.

L’accidente di Furbo fu un colpo terribile per il re Molto-Benigno e per il principe Belvedere. In quanto al popolo, nessuno se ne curò. Furbo ne era odiato, anzi la gente stupiva che il principe più giovane, così nobile e generoso, potesse tanto amare l’indegno fratello. Ma Belvedere era di così buon’indole da volere un gran bene a tutti della famiglia; e Furbo aveva sempre avuto l’arte di mostrargli tanta affezione, che il principe generoso non si sarebbe mai perdonato di non corrispondergli allo stesso modo.

Belvedere ebbe dunque gran cordoglio delle ferite del fratello, e tutto mise in opera per vederlo subito guarito. Ma, checché si facesse, nulla giovava. Le piaghe di Furbo s’inasprivano sempre più e lo facevano soffrire orribilmente.

Scampato il gran pericolo della botte, Finetta era tornata alla torre. Ma non a lungo vi stette, che nuove sventure le piombarono addosso. Le due principesse dettero alla luce un bimbo ciascuna. Finetta ne fu imbarazzatissima, ma non si smarrì; il desiderio di nascondere la vergogna delle sorelle la spinse ad affrontare altri rischi. Per riuscire nel piano escogitato, prese tutte le misure che la prudenza può suggerire; si travestì da uomo, chiuse i bimbi in due scatole, facendo a queste tanti buchi perché quelli respirassero, prese un cavallo, vi caricò quelle ed altre scatole, e con questo bagaglio arrivò alla capitale del re Molto-Benigno.

Seppe di primo acchito che la larghezza del principe Belvedere nel compensare i rimedi apprestati al fratello, aveva attirato alla corte tutti i ciarlatani di Europa; poiché in quei tempi, c’erano molti avventurieri senza impiego, senza ingegno, che si spacciavano per portenti dotati di facoltà soprannaturali per guarire ogni sorta di mali. Costoro, unica scienza dei quali era l’impostura più sfrontata, trovavano sempre molti credenzoni. Un po’ con l’aspetto, un po’ coi nomi bizzarri che assumevano. gettavano la polvere negli occhi. Cosiffatti medici non restano mai dove son nati; e la qualità di stranieri è per loro altrettanto merito agli occhi del volgo.

L’ingegnosa principessa, bene informata di tutto ciò, assunse un nome forestiero e si chiamò Sanatio; poi fece annunziare da ogni parte che il cavalier Sanatio era arrivato con mirabili segreti per guarire ogni sorta di ferite per gravi e maligne che fossero. Subito Belvedere mandò a chiamare il preteso dottore. Finetta arrivò, fece a perfezione il medico empirico, spifferò cinque o sei parole d’arte: niente ci mancava. Il bello aspetto e i modi amabili di Belvedere la colpirono; e dopo aver con lui ragionato delle ferite del principe Furbo, disse di voler portare una bottiglia di acqua miracolosa, e che intanto lasciava lì due scatole, che contenevano unguenti di prima qualità adatti al principe ferito.

Ciò detto, il preteso dottore uscì; ma non tornava più, e molto s’impazientivano di non vederlo tornare. Finalmente, quando si stava già per mandarlo a premurare, si udirono delle grida infantili in camera di Furbo. Grande fu lo stupore in tutti, perché di bambini non se ne vedevano. Qualcuno prestò ascolto, e così scoprirono che le grida venivano dalle scatole dell’empirico.

Erano infatti i nipotini di Finetta. La principessa gli aveva fatti ben nutrire prima di portarli a palazzo; ma poiché parecchio tempo era passato, i piccini volevano altro nutrimento, epperò si dolevano. Aperte le scatole vi si trovarono con sorpresa due marmocchi bellissimi. Furbo indovinò all’istante essere questo un altro tiro di Finetta; e tanta rabbia ne prese, che le ferite s’inacerbirono e lo ridussero per davvero agli estremi.

Belvedere ne fu addoloratissimo; e Furbo, perfido fino all’ultimo, volle abusare dello affetto del fratello.

— Tu sempre m’amasti, disse, e piangi ora la mia perdita. Non ho più bisogno di altre prove di devozione, visto che muoio. Ma se davvero ti fui caro, promettimi di accordarmi il favore che ti chiederò.

Belvedere, incapace di negargli alcunché in momenti come quelli, promise coi più terribili giuramenti che tutto avrebbe fatto.

— Ebbene, esclamò Furbo abbracciandolo; io muoio contento, poiché sarò vendicato. Unica mia preghiera è questa che tu, appena morto io, domandi la mano di Finetta. Senza dubbio, ti sarà concessa; e non sì tosto la avrai in tuo potere, conficcale un pugnale nel cuore.

A tali parole Belvedere ebbe un tremito di orrore; si pentì delle imprudenti promesse, ma non era più tempo di disdirsi, né egli dei a vedere il suo pentimento al fratello, che poco dopo morì. Il re Molto-Benigno ne provò un vivo dolore. Quanto al popolo, tutti si rallegrarono che la morte di Furbo assicurasse la successione del regno a Belvedere, il cui merito era riconosciuto e universalmente stimato.

Finetta, tornata ancora una volta dalle sorelle, fu informata della morte di Furbo, e poco dopo ebbe l’avviso del ritorno del padre. Arrivò questi nella torre, e suo primo pensiero furono le conocchie. La Sciattona corse a prendere la conocchia di Finetta, e la mostrò al re; poi, fatta una profonda riverenza, la riportò a posto. La Ciarliera fece lo stesso; e finalmente Finetta portò la sua. Ma il re, che era sospettoso, volle veder le tre conocchie in una volta. Solo Finetta poté rispondere all’invito; e il re montò in tanta furia contro le figlie maggiori, che subito le mandò dalla Fata che gli aveva fornito le conocchie, pregandola di tenerle sempre con sé e di castigarle come si meritavano.

Per cominciare, la Fata le menò in una galleria del suo castello incantato, dov’era dipinta la storia di moltissime donne, illustri per virtù e per vita laboriosa. Per mirabile fatagione, tutte le figure avevano movimento ed erano in azione da mane a sera. Si vedevano in ogni parte trofei e motti in onore di codeste donne virtuose; ne fu poca mortificazione per le due sorelle paragonare il trionfo di quelle eroine con la situazione abbietta in cui l’imprudenza aveale ridotte. Per colmo di dolore, disse gravemente la Fata che se si fossero occupate come quelle di cui vedevano i ritratti, non sarebbero piombate negli indegni traviamenti che le avean perdute; ma che l’ozio era il padre d’ogni vizio e la sorgente di tutte le loro sventure.

Soggiunse la Fata che per evitare una ricaduta e per riparare al tempo perso, bisognava occuparsi. Obbligò dunque le principesse alle fatiche più grossolane e vili; e senza riguardo per la loro carnagione, le mandò a cogliere ceci e a strappar le male erbe nei suoi giardini. La Sciattona non resse a lungo, e morì di dolore e di stanchezza. La Ciarliera, che trovò mezzo di scappar nottetempo dal castello della Fata, si ruppe la testa contro un albero e morì dalla ferita fra le mani dei contadini.

Buona com’era, Finetta si afflisse della sorte misera delle sorelle. Seppe intanto che il principe Belvedere l’aveva fatta domandare in sposa e che il re suo padre aveva consentito senza avvertirla: poiché fin da quel tempo l’inclinazione era l’ultima cosa che si consultasse nei matrimoni. Alla notizia, Finetta si atterrì; temeva, con ragione, che l’odio di Furbo non fosse passato nel cuore del fratello, il quale forse e senza forse meditava la vendetta. Piena di questa inquietudine, la principessa corse dalla Fata, la quale tanto stimava lei per quanto disprezzava la Ciarliera e la Sciattona.

La Fata nulla volle svelare a Finetta. Disse solo:

— Principessa, voi siete giudiziosa e prudente; le misure adottate finora son figlie di questa verità che prudenza è madre di sicurezza. Non dimenticate l’importanza di questa massima, e riuscirete ad esser felice senza il soccorso dell’arte mia.

Non avendo potuto cavare altri chiarimenti, Finetta se ne tornò a palazzo estremamente conturbata.

Pochi giorni dopo, un ambasciatore la sposò in nome di Belvedere e la menò dallo sposo in un magnifico equipaggio. Fu accolta in gran pompa alle prime due città di frontiera, e nella terza trovò il principe Belvedere, venutole incontro per ordine del padre. Tutti stupivano in veder la tristezza del principe alla vigilia di un matrimonio tanto sospirato; il re stesso ne lo sgridava e lo aveva mandato, mal suo grado, a ricever la principessa.

Vistala appena, Belvedere fu abbagliato da tanta bellezza, e gliene fece i suoi complimenti, ma con tanta confusione da far temere alle due corti che il grande amore gli avesse fatto perdere il cervello. Tutta la città rintronava di grida gioconde, di concerti, di fuochi. Finalmente, dopo una magnifica cena, gli sposi si ritirarono.

Finetta, ricordando sempre le massime della Fata, aveva fatto il suo progetto. Comprata una delle donne che aveva la chiave dell’appartamento destinatole, le aveva ordinato di portar là una vescica, della paglia, del sangue di montone, e le interiora di vari animali mangiati a cena. Entrata con un pretesto nel gabinetto, la principessa fece una figura di paglia e vi ficcò dentro le interiora e la vescica di sangue. Aggiustò poi in capo a quella figura una bella cuffia. Ciò fatto, raggiunse la brigata, e poco dopo principe e principessa furono condotti in camera loro. Fatti i dovuti preparativi di toletta, la dama d’onore prese i candelabri e si ritirò. Subito Finetta gettò sul letto la donna di paglia e si ritirò in un angolo.

Dopo aver sospirato due o tre volte il principe afferrò la spada e passò da parte a parte il corpo della pretesa Finetta. Sentì subito scorrere il sangue da tutte le parti e trovò la donna di paglia senza movimento.

— Che feci? esclamò Belvedere — Come! dopo tante crudeli agitazioni, dopo aver tanto esitato a serbare il giuramento a costo d’un delitto, ho tolto la vita a un’amabile principessa che ero nato per adorare! Le sue grazie mi rapirono dal primo istante che la vidi; ma non ebbi la forza di tradire un giuramento strappatomi da un fratello furibondo, avido di vendetta! Oh cielo! ed è mai possibile che si voglia punire una donna, sol perché virtuosa? Ebbene! ecco compiuta, o fratello, la tua vendetta; ma ora mi tocca vendicar Finetta con la mia morte. Sì, bella principessa, la stessa spada…

Capì Finetta che il principe, cui la spada era sfuggita di mano, la cercava ora per trafiggersi; e subito gli gridò:

— Principe, io non son morta. Il vostro buon cuore m’ha fatto indovinare il vostro pentimento; e con un’astuzia innocente vi ho risparmiato un delitto.

E qui Finetta narrò al principe lo stratagemma della donna di paglia. Il principe, fuor di sé dalla gioia, ammirò la prudenza di lei, e le fu gratissimo di avergli impedito di commettere un orrendo misfatto. Non capiva ora come mai avesse avuto la debolezza di non vedere la nullità dei giuramenti strappatigli con un perfido artifizio.

Eppure se non fosse stata ben persuasa che prudenza è madre di sicurezza, Finetta sarebbe stata uccisa, e la sua morte avrebbe portato per conseguenza quella di Belvedere; e poi ogni sorta di ragionamenti si sarebbero fatti sulla bizzarria dei sentimenti di cotesto principe. Evviva la prudenza con la presenza di spirito! I due sposi ne furono preservati dalla sventura e consacrati alla sorte più dolce. Si amarono sempre con grande affetto, e trascorsero molti e molti giorni in una gloria e una felicità che sarebbe difficile descrivere.