Racconto di Elsa Morante

 

 

Sebbene io non abbia ancora vissuto un numero d’anni sufficiente per poterlo credere, sono quasi certa di essere stata io, quella ragazzina. Vedo con chiarezza la via, angusta, sudicia, su cui le screpolature del vecchio intonaco disegnavano figure e macchie. La casa di cinque piani (la mia famiglia occupava l’ultimo) era la più alta della via. Nel fondo era il Tempio.

Io non avevo più di sei anni. Dalle finestre vedevo passare gli uomini pallidi, le donne    brune dall’espressione quasi sempre volgare o torva, i ragazzi seminudi, grigi di polvere.            Vedevo anche, di fronte, una casa giallastra, con stuoini alle finestre, e, sul lato, un ampio  cortile senz’erba.

Spesso una fila d’uomini, per lo più militari, aspettava in questo cortile. A turno entravano per pochi minuti e poi si allontanavano, scambiandosi frizzi e chiacchiere. Alle finestre del  primo piano si affacciavano sempre donne misteriose, ridenti, con le facce paonazze, gli occhi bistrati, e la voce forte e decisa. Udivo, specie la notte, i bassi richiami di queste loro voci; quando mio padre tornava dal caffè, sebbene egli non fosse che un vecchio gobbo, esse lo invitavano: – Vuoi salire, bel moretto? Vuoi?

Mia madre, ancora giovane, esile, aveva un volto grazioso, sciupato dal rancore. Ad ogni    occasione, si batteva rabbiosamente la fronte con i pugni e, per le mie mancanze, aveva l’abitudine di maledirmi, in un ebraico solenne, volgendo verso il Tempio quella faccia disfatta. E io sbigottivo, sapendo che le maledizioni dei padri e delle madri, ripercosse        dagli echi, arrivano sempre a Dio.

Appena faceva notte, mentre mio padre si avviava al suo caffè, essa andava a passeggio sulle mura, insieme alla mia sorella maggiore, la bella, la sprezzante. Io restavo in casa, per   non lasciar sola la vecchia.

Questa nonna era sorda, e pareva di legno. Un seguito d’anni innumerevole l’aveva succhiata lentamente, fino a ridurla un piccolo scheletro di legno, che forse non poteva       neppure più morire. La sua testa era quasi calva e le palpebre oscure sempre abbassate. Teneva ferme lungo i fianchi le mani, dalle unghie di un turchino livido. Con mio stupore,           avevo scoperto che si fasciava il petto e i fianchi, come si fa ai bambini, e, su tutte queste fasce, poneva degli ampi stracci grigi. Dicevano che fosse ricca.

Appena gli altri erano usciti, con una frase monca, che sdrucciolava a fatica fra le sue    gengive, mi ordinava di spegnere il lume; era inutile, per noi due sole, sciupare il petrolio. Poi diventava muta e immobile. Io ubbidivo, sebbene tremassi. Infatti, avevo appena girato la chiavetta della lampada, che il fantasma del buio e della paura si rizzava alle mie spalle, mostrando al posto degli occhi due fosse nere. Ed io, per avere un po’ di chiaro, mi raggomitolavo presso la finestra.

Il fatto avvenne più di cinquant’anni fa. Dalla finestra potevo scorgere il Tempio, la sua cupola tozza, i gradini, le lunghe finestre dai vetri colorati, e, attraverso i vetri, l’opaco rosseggiare delle lucerne dei morti. Le lucerne di ferro battuto pendevano nell’interno del Tempio, e chi voleva

dedicarne una a un morto doveva pagare il guardiano Jusvin perché l’alimentasse con olio e    badasse a non farla spegnere né di giorno né di notte. I morti, nella loro tenebra, erano molto più tranquilli se possedevano una lucerna.

Solo dalle mie finestre si poteva scorgere l’interno del Tempio, con le sue luci rosse.

Vedevo il guardiano Jusvin salire ogni sera i gradini per chiudere il Tempio e versare

l’olio. Era un uomo bruno, d’aspetto bello e solenne, con occhi neri, e capelli e barba       ricciuti. Nella penombra, così oscuro, pareva un profeta o un angelo, mentre saliva al Tempio, col suo passo obliquo, portando le pesanti chiavi. Ma una sera era appena entrato, che vidi ad una ad una spegnersi le lucerne; ed egli uscì, guardingo, col suo spegnitoio, lasciando dietro di sé un buio enorme.

  • Nonna! – gridai. – Jusvin ha spento tutti i lumi dei morti!
  • No, – biascicò la sorda. – Non si sciupa il petrolio. Non si accende la lampada.
  • Non capisci? – gridai tremando per tutto il corpo. – Jusvin ha spento i lumi! I lumi!
  • Tornerà presto, la Marianna, sì; sì, – rispose la vecchia.

Allora rinunciai a spiegarle quel segreto. Vedevo intorno a me le figure del buio e tremavo che aprissero le loro bocche, e mi parlassero. Tremavo per quello che avrebbero potuto dirmi, e per quello che avrebbe detto il Signore.

Tutte le sere, da quel giorno, vidi Jusvin chiudere dietro di sé il portale del Tempio, e    spegnere i lumi. Il suo scopo era di risparmiare l’olio, guadagnando sul tributo che riscuoteva per le lucerne. Così spiegò mia madre; e mi disse anche di tacere, perché l’uomo aveva sei figli piccoli, e una denuncia gli avrebbe fatto perdere il posto. Dunque, silenzio. Iddio lo vedeva e avrebbe pensato a punire colui che rubava la luce dei morti. Iddio farà giustizia.

  • Ladro! Ladro! – gridavano i miei nervi e le mie ossa, quando vedevo quell’ombra salire, piano, lungo la scala. Aspettavo nell’ansia che le sue mani cadessero, come due stracci.        Avrei voluto correre al Tempio, gridare forte: – Io ti vedo! Ti vedo quando rubi la luce dei    morti! Non hai paura… di Dio? – Ma rimanevo ferma, paralizzata nel vano della finestra.    Pensavo ai morti, sotto la terra, senza nessun lume. E per non vedere, mi coprivo la faccia,        finché di nuovo ero attratta da quell’ombra lunga che ora discendeva, col suo spegnitoio; e spariva nei vicoli.

Una sera lui non venne, e le rosse fiamme tremolarono tranquille dietro i vetri. Quando riapparve, dopo un intervallo, non poteva più parlare. Cavava a stento dalla gola suoni               rauchi e balbettii, e sbarrava gli occhi, con gesti da burattino, come fanno i muti; finché un giorno urla e rantoli bestiali risuonarono nei vicoli. Era Jusvin che moriva. – Ecco la giustizia del Signore, – dissero. Il dito del Signore l’aveva toccato sulla lingua, ed ora quella lingua maledetta di Jusvin si disfaceva in una piaga. Era un male che la gente osava appena nominare con paura (io lo legavo, per il suo nome fantastico, alla feroce fauna marina e ai tropici africani). E quelle urla corsero per tutte le strade, ripetendo che il corpo del peccatore si torceva e sudava. E non ebbero un istante di riposo, fino al silenzio.

  • Non avrà mai pace, – dissero, scuotendo il capo. – Né lui né i suoi figli.

Andando a scuola, incontravo spesso i suoi figli, specialmente Angiolo ed Ester. Essi erano assai belli, benché fossero tanto sporchi e nudi. I due grandi occhi di Angiolo erano simili  a due fuochi, e, quando rideva, faceva le fossette. Ester aveva splendidi riccioli, le gambe  snelle, e la sua faccia rotonda era come un frutto. Io li osservavo, spaurita. Pensavo che il dito di Dio li toccasse sulla lingua, come aveva fatto al padre, ed ecco, la strana bestia africana gliela rodeva. Ed essi non avrebbero potuto più parlare, più tardi, se non con tristi suoni. Uno dietro l’altro, muti, con una piaga dentro la bocca, i figli di Jusvin, e i figli dei figli, dovevano passare davanti al Signore.

Questa scena mi tormentava nelle mie solitudini infantili e riappariva nei miei sonni; ma qualche cosa di più chiaro io vidi in quella sera d’estate, presso il Tempio.

Mi era avvenuta una grave disgrazia. Mio padre mi aveva ordinato di uscire e mi aveva dato una moneta, incaricandomi di giuocare tre numeri al lotto. Nel tornare dal banco, assorta in fantasticherie, avevo perduto il biglietto acquistato, coi numeri. Febbrilmente avevo errato per quelle strade, singhiozzando piano, frugando nella polvere. Nulla. E poi rimasi ferma, rannicchiata presso l’alto muro, all’ombra notturna del Tempio. Pensavo di non tornare più a casa, di uscire dal Ghetto, di uscire dalla città e di morire. Nel pensiero chiamavo mio padre, in quell’ora, col soprannome che gli dava la gente: il gobbetto. Tante volte mi avevano chiesto: – Sei la figlia del gobbetto, tu? – Ed ora nella mia mente, con paura, passavano idee nuove, lampi sacrileghi: «Il gobbetto mi picchierà. Perché deve picchiarmi? Io sono piccola, ma bella, ho due trecce lunghe e so leggere. Lui è un gobbetto. Non voglio esser picchiata da lui. Ma io ho perduto il biglietto del lotto, che forse avrebbe vinto. Ho fatto male, era suo, e lui mi picchierà. E mia madre mi maledirà. Questo è il castigo. Io giravo guardando le case, le finestre e le facce, senza pensare al biglietto, e ho peccato. Anche Jusvin aveva peccato, e il Signore l’ha punito».

Ecco Jusvin, in cospetto del Signore. Il Signore non ha corpo né faccia; è come una nube di tempesta, come l’ombra di una montagna: – Pietà, Signore, l’ho fatto per i miei figli. Acqua alla mia lingua, sonno ai miei occhi. Pietà del mio camminare che invidia i placidi morti -.Parole sono queste che ha sepolte nella gola, ma non prenderanno mai forma sulle sue labbra. La bocca si torce, gorgoglia, l’uomo gestisce e suda. E lui, il senza-forma, non parla.

Il suo tacere significa: Tu, ladro.

Intanto sono giunti molti altri, silenziosi, usciti dalle mura del Tempio. I loro corpi sono masse oscure, i loro volti sono maschere dalle occhiaie vuote; eppure mi sembra di         riconoscerne qualcuno. Ecco la vecchia Mitilda, quella che cuoceva i semi di zucca e che poi, mi dissero, è andata in cielo. Invece è qui, con le scarpe rotte e il fazzoletto intorno alla sua faccia senz’occhi. Ed ecco Lazzarino e il figlio Mandolino, lunghi lunghi, dalle lunghe braccia, col cappello a cilindro sui visi scheletriti. Sì, sono loro e altri non ne conosco, ma           tutti si rassomigliano, e trascinano fra le mura buie i loro piedi pesanti. Alcuni hanno vesti bizzarre, fatte di stracci, dai colori diversi e sbiaditi, o fasce di cencio intorno al busto; con         cappelli di tutte le fogge, come quelli che si vedono nei teatri. Certe donne portano vesti ampie che strisciano per terra senza rumore, e bistri e rossetti sulla pelle. E altri invece             sono seminudi e pallidi.

Sono i morti, e brancolano incerti, e tendono le labbra come per bere, chiedendo il loro    lume. Nessuno di loro ha le ali; sembrano talpe uscite dalla terra. Di sotto la terra, certo              credevano di vedere ancora il giorno in quel lume, ed ora a tentoni lo cercano. Solo i vivi    possono accenderlo e spegnerlo; così vuole Dio, nel mezzo, il silenzioso, che castiga i vivi e rinchiude nella terra i morti.

Tale era il mio Dio; e quella ragazzina fui io, o forse mia madre, o forse la madre di mia     madre; io sono morta e rinata, e ad ogni nascita si inizia un nuovo processo incerto. E quella ragazzina è sempre là, che interroga spaurita nel suo mondo incomprensibile, sotto l’ombra del giudice, fra i muti.