Racconto di Daniele Cretaro

(Prima pubblicazione – 31 gennaio 2019)

 

Avete presente quando, da bambini, di domenica, i vostri genitori vi portavano a fare un giro, per prendere un gelato, per trovare un parente, o più semplicemente per fare una passeggiata? Personalmente, la parte preferita di quel piccolo ma lungo viaggio settimanale, era proprio il viaggio: il tragitto, il mentre. Mi sistemavo, sempre, e senza una motivazione precisa, nel sedile posto dietro il guidatore, ergo, dietro quello di mio padre. Mia madre, per un motivo od un altro, non ha mai guidato in vita sua. Una volta chiuso lo sportello, attendevo che mio padre facesse manovra, ed uscisse dal vialetto di casa, per immettersi sulla strada principale; a quel punto, poggiavo la testa al finestrino, iniziavo a guardare oltre lo stesso, e tutto cominciava a muoversi ad una velocità ipnotizzante. Avevo voglia di rallentare quelle immagini, tra colori netti ed altri un po’ meno, perché pensavo che nessun’altra cosa, nessun film, nessun cartone, nessun videogioco, avrebbe potuto regalarmi quell’intreccio di sfumature quasi incomprensibili. Pensavo addirittura che fosse quella, la velocità di crociera, di una vita asfaltata. Pensavo che nessuna colonna sonora potesse essere migliore delle chiacchiere dei miei, così vicine, a circa cinquanta centimetri da me, ma allo stesso tempo lontanissime, per la mia immersione che subacquea non era, ma poco ci mancava; chiacchiere accompagnate dal rumore del motore di una Ford di metà anni ottanta, che a me sembrava tutto, tranne che una macchina. E quell’odore di polvere stantia, di quello stantio tipico di un proprietario che ha troppe cose a cui pensare, per preoccuparsi del fatto che la pulizia di un abitacolo possa essere una priorità da espletare periodicamente. Polvere e profumo di sigarette, da cui un fumatore dai sessanta stoppini al giorno, si separa raramente. Si, profumo, perché certi odori, apparentemente sgradevoli, se accompagnati da ricordi semplici, lasciano andare via tutto ciò che di indesiderato possano emanare. Sembrava tutto così comune, allora; eppure mi sentivo così eccitato, da tutto ciò, che i parenti diventavano meno che semplici conoscenti, che il gelato lo immaginavo caldo, e che di passeggiare non sentivo nessun bisogno. Però scendevo, una volta a destinazione, e neanche protestavo; ma mi sentivo come un gatto con una ciotola piena di pane, mentre tu metti a cuocere un filetto di cernia al forno, a due metri da lui. Ero convinto che, una volta sceso, una piccola storia della mia vita si chiudeva per sempre. Era evidente che mi sbagliassi, se ancora oggi quei momenti sono vivi e pulsano dentro di me, ma molte volte penso che vorrei rientrare in quell’abitacolo, e che stavolta non scenderei per nessuna ragione al mondo.