Racconto di Maurizio De Giovanni

 

Prego, accomodatevi. Scusate se vi ricevo in cucina, so che non si fa: ma è qui che ho il problema che ho. È qui, il motivo della mia chiamata.

Mi avete detto il vostro nome, ho buona memoria. In effetti credo che sia proprio questa la causa della mia difficoltà, la memoria che ho. Sovrintendente Russo e agente Vitale, ricordo bene? Siete stati gentili a venire subito, non ci speravo. Credevo, sinceramente, che non avreste fatto in tempo. Era questione di minuti, ormai.

Vi guardate attorno, lo capisco. Sembra una cucina come un’altra, in tutto e per tutto simile a quella che potete trovare in tutti gli appartamenti di questo condominio. Una casa della piccola borghesia, immagino che in una città come questa il vostro lavoro vi porti ad affrontare chissà quali posti, chissà quale gente. E io, lo voglio dire prima di tutto, ho il massimo rispetto per quello che fate e per come lo fate. Altrimenti nemmeno vi avrei chiamati, vi pare?

Sì, vi ho chiamati io. Con quel telefono lì, lo vedete, quello sulla mensola. Non lo uso mai, avevo anche difficoltà a distinguere i numeri sulla tastiera, non ci vedo più tanto bene. Ho gli occhiali, sì che ce li ho, ma stanno di là, sulla scrivania. Non li ho mai portati qui in cucina, chissà perché. Vi guardate attorno, e vi chiedete il perché.

Il motivo di questa chiamata urgente, che pure vi dico essere qui in cucina, non lo vedete. Un po’ di pazienza e vi spiego. Credo di poter parlare con lei, vero? Una signora, il sovrintendente Russo. Non me lo aspettavo, il mondo cambia velocemente, confesso questo pregiudizio stupido, ma per fortuna adesso è così, voi donne siete così più intelligenti di noi, finalmente lo stanno capendo tutti.

Allora, io mi chiamo Francesco. Sono un pensionato, come vedete sono piuttosto anziano. Insegnavo, latino e greco in un liceo; le chiamano lingue morte, ma sono molto vive, in realtà. In queste lingue trovate un sacco di sentimenti, raccontati così come li racconteremmo oggi se ne fossimo capaci. Ma questa è un’altra storia, non vi voglio fare perdere tempo.

Io sono vedovo. Questo è un dato importante, senza il quale non si capisce per quale motivo vi ho chiamati. Vi voglio dire primariamente che la mia telefonata non è una sciocchezza. È veramente, come ho detto alla vostra gentile collega del centralino, una questione di vita o di morte. Letteralmente.

Insomma, io come vi dicevo sono vedovo. Mia moglie è morta l’anno scorso. In un certo modo è stato un tradimento, perché eravamo d’accordo che sarei morto prima io, che ho cinque anni più di lei. Che avevo, chiedo scusa. Non mi sono ancora abituato. Abbiamo, ho due figli. Il grande sta in America, fa l’ingegnere, la piccola è architetto e vive in Germania. Sono bravi ragazzi, hanno la loro vita, compagni, lavoro, amici. Sono venuti per il funerale, ma si capiva che avevano fretta. Non mi sono sentito di trattenerli.

Che maleducato, non vi ho offerto niente. Un caffè? No, vero? Lo immaginavo, non avete tempo, è giusto. E temo di non essere nemmeno bravo, a fare il caffè. Lo faceva mia moglie, Elvira. Un bel nome, eh? Sapeste quante volte lo pronuncio, quel nome, nel silenzio. Elvira.

I figli mi telefonano, qualche volta. Non spesso, per la verità, adesso è un mese che non li sento. Il telefono, quando suona, è sempre per comunicazioni commerciali, sono perlopiù stranieri, ragazzi che lavorano anche loro, io cerco di essere gentile, e poi mi fa piacere, sono voci che riempiono il silenzio, come me quando parlo con mia moglie.

Questo era il suo regno, sapete? Stava sempre qui dentro. Si affacciava a quella finestra, io ancora la vedo, era bellissima, non era invecchiata di un giorno, per me. Avevamo fatto un patto, sapete? Sì, ve l’ho detto. Però non è riuscita a mantenerlo, quel patto. L’unica bugia che mi ha detto, in sessant’anni di vita insieme. Eppure lo aveva promesso.

Volete sapere perché vi ho chiamati, e qual è la questione di vita o di morte.

Be’, la questione è quella finestra. La vedete, vero? Sì, quella alle vostre spalle.

Ci sono certi giorni che mi sembra di potercela fare, sapete. Quando c’è l’aria limpida, e posso andare a passeggio. Quando scambio perfino due chiacchiere con la salumiera, una ragazza gentile che mi racconta dei suoi figli; o quando fingo di non sapere in quale strada mi trovi, e allora qualche passante mi dà un po’ di retta.

E un paio di volte sono perfino tornato alla mia vecchia scuola, ma dopo tanti anni non c’è più nessuno che si ricordi di me, e mi mortifica molto spiegare tutto, chiedere di colleghi e scoprire che sono morti, o peggio che nessuno ricordi i loro nomi. È una sensazione orribile: ti sembra di non essere mai esistito.

E questa sensazione in questi ultimi anni si è allargata, come una di quelle macchie di petrolio nel mare, un’onda nera oleosa e maleodorante che invade tutta l’esistenza. Voi giovani vi collegate, siete connessi, l’ho visto in televisione; ma io sono vecchio, non lo so fare. E poi, in confidenza, vi dico che la mia pensione a stento mi basta per sopravvivere, e se non avessimo comprato questa casa, con Elvira, quando eravamo giovani e qui non c’era niente, sarei senz’altro finito in un istituto, perché io ai miei figli ho dato sempre ma non saprei chiedere niente. Non che me lo abbiano proposto, sia chiaro. Ma hanno la loro vita, ve l’ho detto?

Questi anni. Certe volte, ho pensato, me la vorrei prendere, questa malattia. Magari è il destino, che ne so. Magari Elvira vuole che ci riuniamo, non ci credeva e non ci credo io, ma chissà, chi può dirlo. Ma non l’ho presa, la malattia. L’ha presa il portiere, era una brava persona, tanto più giovane di me. Non l’hanno sostituito, non vedevano l’ora di risparmiare sul condominio. Qualcuno avrà tirato un sospiro di sollievo. La gente è cattiva, a volte.

Ci sono certi giorni che ce la faccio, ve l’ho detto. Ma sono sempre meno. La maggior parte delle volte cerco di non entrare qui, dove la sento più forte, la mancanza della mia Elvira. Perché lo conosco, il pericolo. Sono vecchio, ma non sono stupido.

E mi dovete dare atto che non vi ho mai chiamati, potete controllare, immagino che teniate conto delle telefonate. Io non ho mai chiamato nessuno, per chiedere aiuto. Ho sempre pensato che dovevo farcela da solo, a restare o ad andarmene. Perché io mi chiedo: e se poi, una su un milione, davvero funziona che ci si riunisce da qualche parte, se faccio questa cosa, la cosa della finestra dico, mi perdo la possibilità di stare di nuovo con la mia Elvira? Lo so, non ci credo nemmeno io, ma alla mia età si deve tener conto anche delle possibilità più remote, no?

Per questo stamattina vi ho chiamati.

Sono rimasto davanti alla finestra. Mi attira, sapete? È come una sirena, e io non sono Ulisse, non ho la forza di legarmi all’albero della nave, ve la ricordate l’Odissea, no? E questa è proprio la città della Sirena. Sono pericolose, le sirene. Perché ti incantano.

Così fa, la finestra. Mi fa pensare ecco, un attimo e la finiamo col silenzio. Con la solitudine. Coi pensieri dolorosi, con i soldi che non bastano a pagare la luce, con le ossa che fanno male, con la voglia di non alzarsi dal letto. La finiamo col telefono che non squilla, con i figli che non si fanno vivi, coi ricordi che ti sotterrano, con la felicità che non sapevi di avere e che invece avevi, ma che non ti sei goduto per guardare avanti, e invece avanti non c’era niente, solo la finestra e il tempo che non passa.

E allora stamattina ho pensato: lo faccio. E poi ho pensato che forse perdevo Elvira. Ma il silenzio era eccessivo, una macchia di petrolio in cui affogavo. E l’ultimo pensiero è stato: voi. Voi salvate la vita alle persone. Voi fermate le mani dei delinquenti, dei rapinatori, dei camorristi. Voi siete il bene, e il silenzio, il maledetto silenzio è il male, che mi spinge alla finestra.

Le ultime forze le ho usate per chiamarvi. E credetemi, è come se vi avesse chiamato il testimone di un delitto che sta per avvenire, come se vi avesse chiamato un parente di qualcuno che sta per ammazzare qualcun altro. Una chiamata urgente, una questione di vita o di morte

Vi ho chiamato per non morire. E per chiedervi una cosa strana, che sembra assurda, lo so. Ma se mi farete questo favore, avrete salvato la vita di qualcuno, proprio come se aveste fermato la mano di un assassino.

Quello che vi chiedo è questo, solo questo: potreste abbracciarmi un momento, per favore?

Solo un momento. Per ricordare com’è avere qualcuno che ti voglia bene.