Racconto di Nicola Moscardelli

 

Alle sette di sera le vie si riempiono di gente e di calore come agli ammalati cresce la febbre. Nella luce del crepuscolo, che le lampade sostengono a mezz’aria, ognuno cerca di ritrovare un raggio del sole che nel giorno non ha potuto godere. Prima di rientrare in casa ciascuno cerca un’ultima consolazione, un ultimo perchè alla sua giornata ed alla sua vita. Essendo ora usciti dagli uffici e dalle officine, si può dire che gli uomini sono usciti dal sonno: ed infatti, pur essendo stati otto e più ore attenti ai propri affari, hanno gli occhi stanchi di chi si è appena levato dal letto, tanto la vita intensa somiglia all’assenza di vita.

Tra l’uno e l’altro palazzo ogni tanto s’apre una piazza e di lì si scorge il sereno del cielo simile ad un porto lontano a cui approdano nuvole e pensieri, le prime stelle e gli ultimi desideri. Alla fermata del tram la gente aspetta, ma dopo tutto se non passa il numero che si attende poco è il male: tra sconosciuti ci si fa compagnia solamente guardandosi, ed il fatto di aspettare tutti uno stesso tram accomuna per cinque minuti quasi gli stessi destini.

Il rag. Valentino Lemma è appena uscito dall’ufficio ed è stanco, troppo stanco per una sola giornata di vita. Egli attribuisce ciò alla stagione incostante, a qualche difficoltà incontrata nello sviluppo dei propri affari e vorrebbe riposare. Precisamente per ciò si lascia trasportare dalla corrente senza riflettere alla contraddizione apparente che corre fra ciò che fa e ciò che dovrebbe fare. Non c’è figura umana che non lo interessi e la sua attenzione si accende ad ogni pupilla che incontra, mai vista e che mai più sarà veduta, che appena lambita dallo sguardo si dissolve nella lontananza del sogno. Nelle vetrine ridono tutte le fatuità della vita, le mille inutili cose di cui non si può fare a pieno e che a quest’ora sembrano cingere la fine del giorno di una frangia leggera. All’improvviso il rag. Lemma si sente guardare, o almeno gli pare. È una fanciulla di forse vent’anni che sùbito volge lo sguardo altrove. Somiglia alle mille altre fanciulle che vanno per la medesima via alla medesima ora: identico il passo, l’abito, il cappello di paglia. Con un movimento istintivo egli si tocca il nodo della cravatta per veder se è nel centro: si osserva di sfuggita allo specchio di una vetrina e si trova bello. All’incrocio la fanciulla svolta a destra, per una via più tranquilla, ed il rag. Lemma si lascia attrarre dalla scia di lei senza nemmeno sapere perchè: o forse perchè si sente un po’ stanco ed ogni amo è buono per farlo abboccare. Mentre cammina col desiderio di essere e di non essere notato, egli pensa alla sua vita di scapolo e si compiange. Sarebbe così bello a sera essere atteso sulla porta dell’ufficio da una personcina svelta che misura il tempo battendo col tacco il marciapiede, ritrovare nei riflessi biondi dei suoi capelli (la fanciulla che cammina innanzi è infatti bionda) un poco del sole tramontato, e conoscere dalla sua voce ciò che è successo nel pomeriggio, queste misteriose ore che egli non conosce, che passano lontane dai suoi occhi come la luce del giorno è lontana dal suo ufficio, così che nulla della giornata andrebbe perduto e ci sarebbe un testimone ed un attore della vita che si svolge a sua insaputa mentre egli corre dietro le cifre dei suoi affari dei quali nessuno si congratula con lui, quando van bene, e per i quali nessuno trepida con lui quando van male.

A poco a poco il rag. Lemma vede la vita non più con i propri occhi, ma con quelli di Lei: un’ombra doppia si proietta sopra ogni oggetto. E già immagina quale altro aspetto avrebbero le vetrine se non fosse solo a guardarle. Scoprirebbe impensate bellezze in ogni oggetto frivolo o inutile che ora guarda senza saperlo nemmeno decifrare, parola ignota d’una lingua sconosciuta, e sentirebbe la prima volta che cosa voglia dire: donare, trasferire la propria esistenza in altri, non vivere più per sè ma per gli altri, per un altro essere, misterioso compagno che non ci fu dato dalla nascita, ma ci venne incontro dalle profondità oscure del destino, la cui presenza gravita sulla nostra vita prima ch’esso appaia visibilmente sulla nostra strada, come un astro invisibile del quale l’astronomo non col telescopio ma con l’occhio del calcolo ravvisa l’esistenza prima ancora ch’esso splenda nel cielo.

Quante cose avrebbero a dirsi! Egli le racconterebbe la sua vita trascorsa fino a ieri: anzi non si lascierebbe sfuggire l’occasione di ripeterle una frase che gli è molto piaciuta, letta in un romanzo:

«— Che cosa hai fatto finora senza di me? – ella domandò.

«— Ti ho aspettato – egli rispose.

E giù vede sul tavolo amato dilatarsi lo stupore come un fiore che s’apre. Costretti a stare tutto il giorno separati dagli affari, allungherebbero la passeggiata serale, simili a due che da opposte bande giungono al vertice di una montagna, alla fine della giornata su cui splende la luce del tramonto e quella non meno ardente delle lampade. A un certo momento ella avrebbe il desiderio di sedersi in un caffè per assaporare la presenza dell’amato col lungo sguardo che sembra indifferente ed è pieno di contenuto ardore, e tutti vedendoli si direbbero: ecco una coppia felice, e la loro felicità si rifletterebbe negli occhi dei passanti come in altrettanti specchi tranquilli. Poi, allorchè la gente dirada, si leverebbero anch’essi, e si avvierebbero verso casa senza fretta pensando al loro nido sereno. Tutto sarebbe eguale e dolce e la vita scorrerebbe fra loro due come un fiume pacifico fra due rive. Dimenticherebbero il passato per non pensare al tempo in cui erano ignoti l’uno all’altro, e tutti presi dal presente getterebbero inconsciamente le basi dell’avvenire. Forse, anzi certamente, essa amerebbe la musica e si sentirebbe nella casa sempre un aleggiar di motivi che darebbe le ali ad ogni ora come nelle case di campagna i calabroni e le api rimasti nelle stanze portano nel loro rombo l’eco della bella stagione e delle aperte contrade.

Ma la gioia più bella sarebbe la domenica, un giorno tutto per loro, che non dovrebbero dividere con nessuno, e del quale approfitterebbero per dirsi tante cose, mentre sentirebbero la pace del giorno posarsi su di loro come i rami degli alberi sentono la rugiada al mattino. Tanti piccoli fastidi che ora a lui sembrano insopportabili, divisi con lei diventerebbero giochi: il grammofono dell’inquilino accanto, per esempio, o l’abbaiar del cane dell’inquilino sottostante, che si fanno sentire proprio nelle ore in cui non si ha voglia di ascoltarli, visitatori importuni ai quali non basta chiudere in faccia la finestra, perchè entrano dalle fessure come la polvere della strada, allora diventerebbero motivo di distrazione, ed ella canterebbe sull’aria del grammofono, furtivamente, quasi che si impossessasse di una cosa non sua e la sua voce fluida e fresca si allaccerebbe all’arrochito ritmo della macchina come un ramo di glicine ad un filo di ferro arrugginito; mentre egli proverebbe ad imitare l’abbaiar del cane prigioniero.

Un improvviso arresto della circolazione fa trasalire il rag. Lemma che si desta dal suo sogno e istintivamente guarda innanzi a sè per ritrovare la fanciulla dal cappello di paglia da cui il sogno è cominciato. La fanciulla è scomparsa. Nella folla ce ne sono tante altre che le somigliano, ma non sono lei: e far aderire ad una qualunque di essa il sogno sognato per un’altra equivarrebbe a darle un anello nuziale non comprato per lei: un tradimento.

Ricondotto all’ora del presente il rag. Lemma s’accorge che è tardi e s’affretta verso la fermata del tram. Montatovi, già vede la pensione che lo attende, e le solite faccie dei commensali, ed ode già i soliti discorsi di ogni pasto nei quali si parla di cose neutre, che non interessano nessuno, discorsi lontani dalla sostanza di ognuno come i cancelli son lontani dalle ville. E poi i sorrisi che si somigliano tutti, bell’e pronti come i saluti di pura convenienza: poi dopo in camera sua attenderà l’ora del sonno – troppo presto per coricarsi, troppo tardi per uscir di nuovo – ciondolando da una parte all’altra, con quella leggera nausea che dà certi giorni la vita quando sembra che si sia troppo vissuto e invece non si è vissuto che troppo poco, mentre le domestiche da un piano all’altro del cortile si salutano, e un bimbo piange, e il grammofono svolge il suo rotolo di voce arrugginita.

Di lì a poco della sera d’amore non resta nemmeno il ricordo: il rag. Lemma gira la chiavetta della luce e si corica come si ripone un giocattolo usato.