Racconto di Robert Louis Stevenson

 

All’età di sedici anni in una scuola privata, poi in uno di quei grandi istituti pei quali l’Inghilterra va giustamente famosa, Mr. Harry Hartley aveva ricevuto l’educazione d’un gentiluomo. Mostrava, a quel tempo, una notevole avversione allo studio; e, poiché l’unico parente che gli era rimasto era uomo inetto ed ignorante, Harry poté fin d’allora sciupare liberamente il suo tempo in ogni genere di eleganze e di frivole spensieratezze. Due anni più tardi egli era diventato orfano e quasi mendico. Per indole ed educazione Harry era affatto incapace di dedicarsi ad ogni pratica iniziativa. Sapeva solo cantare sentimentali canzonette e accompagnarsele con garbo sul cembalo: essere grazioso, quantunque timido, cavaliere, e aveva una spiccata inclinazione per gli scacchi. Natura, poi, l’aveva dotato del più grazioso aspetto si potesse immaginare. Biondo, roseo, occhi di colomba e un leggiadro sorriso a fior di labbra, egli possedeva anche un’aria piena di piacevole malinconia e tenerezza e dei modi assai garbati e carezzevoli. Ma, insomma, non era uomo da guidare un’armata o da presiedere un Consiglio di Stato.

Un caso fortunato e qualche raccomandazione gli procurarono un posto di segretario privato presso il Maggior Generale Sir Thomas Vandeleur C. B.

Sir Thomas Vandeleur era uomo sui sessanta, di voce grossa, iracondo e alquanto prepotente. Si diceva che per qualche motivo o in compenso d’un servigio, sulla natura del quale eran corse strane voci che furono poi ripetutamente smentite, il Rajà di Kaskgar aveva donato a questo suo ufficiale il sesto dei più grossi diamanti del mondo. Dono ch’ebbe la virtù di tramutar di colpo il Generale, da quel poveraccio che era, in un riccone, da oscuro soldato in uno dei più eleganti viveurs della società londinese. Il possessore del Diamante del Rajà era ben accolto perfino nei circoli più intimi tanto che, a lungo andare, aveva finito per trovare anche una giovane e bella fanciulla di buona famiglia che, pur di poter chiamar suo il diamante, si rassegnò a sposare Sir Thomas Vandeleur.

Si soleva dire a quei tempi che come simile chiama simile, così un gioiello n’aveva chiamato un altro. Certo la persona di Lady Vandeleur non solo era essa stessa un gioiello, e dei più sfolgoranti, ma sapeva mostrarsi al mondo montata in una incastonatura delle più preziose. Autorevoli intenditori del genere assicuravano ch’ella era una delle tre o quattro donne più ben vestite d’Inghilterra.

L’ufficio di Harry come segretario del Generale non era affatto gravoso, ma bisogna dire che Harry aveva un’antipatia particolare per il lavoro continuato: gli dava noia sporcarsi le dita d’inchiostro: e il fascino di Lady Vandeleur e delle sue toilette lo richiamava spesso spesso dalla biblioteca al salotto.

Con le donne Harry aveva parecchia entratura, discorreva di mode con brio e con calore, e non era mai tanto felice come quando poteva disquisire sulla tinta d’un nastro o correre dalla modista con qualche commissione per la sua signora. Tanto che, in breve, la corrispondenza di Sir Thomas rimase pietosamente in arretrato e la sua signora ebbe in Harry un’altra cameriera.

Ma un bel di il Generale, ch’era uno de’ Generali meno accomodanti del mondo, balzò su dal suo seggiolone e, in un accesso d’ira, con uno di quei gesti esplicativi che raramente si usano fra gentiluomini, fece conoscere al suo segretario che non aveva bisogno più oltre dei suoi servigi. Disgraziatamente la porta era aperta e Mr. Hartley dové ruzzolar giù tutti i gradini della scala con la testa in avanti.

Quando si levò da terra era tutt’ammaccato e profondamente avvilito. Dire che si sentiva tagliato così bene per quella vita nella casa del Generale! Sempre in compagnia di persone piacevoli, poco lavoro, cena abbondante; poi quelle care soddisfazioni nel salotto della signora, la quale, in cuor suo, egli infiorava dei più dolci nomi.

Subito, appena oltraggiato dal piede soldatesco, si precipitò da lei e le narrò la dolorosa storia.

«Eh, mio caro Harry», rispose la signora che soleva chiamarlo a nome come un ragazzino, «mai, nemmeno per isbaglio, tu hai il bene di fare ciò che il Generale ti ordina. Lo stesso è di me, dirai. Ma con questa differenza: che noi donne possiamo farci perdonare un lungo anno di disobbedienza con un pronto atto di sommissione. Sono dolente assai, Harry, di perderti; ma dacché non puoi più restare in questa casa dove fosti insultato, ti faccio i miei auguri e saluti, e ti prometto di fare in modo che il Generale abbia a pentirsi del suo contegno violento».

Harry perdé la disinvoltura; gli vennero le lacrime agli occhi, e fissò Lady Vandeleur con aria di tenero rimprovero.

«Signora mia», diss’egli «ch’è mai un’ingiuria? In una settimana è bell’e scordata. Ma abbandonare gli amici, ma dover infrangere certi legami d’affetto…»

Fu incapace di proseguire poiché la commozione gli faceva groppo alla gola, e cominciò a piangere.

Lady Vandeleur lo fissò con uno sguardo un po’ indagatore.

«Sta a vedere» ella pensava «che questo scioccherello si crede innamorato di me. E, infine, perché non potrebbe essere mio domestico anziché domestico del Generale? È buono, ha bei modi, s’intende di toilette. E ciò almeno varrà a tenerlo lontano dai pericoli, poiché egli è davvero troppo grazioso per non aver qualche amoruzzo…»

La notte stessa ne parlò al Generale ch’era già bell’e pentito della sua villania, e Harry passò senz’altro nella giurisdizione femminile della casa, dove la vita, per breve tempo, gli fu proprio celestiale. Vestiva con rara squisitezza, portava delicati fiori all’occhiello, e sapeva intrattenere gli ospiti della signora con garbo elegante e dilettoso. Era superbo di servire sì bella dama e gli ordini che da lei riceveva, eran per lui altrettanti segni del suo favore. E si compiaceva di mostrarsi in quella nuova qualità agli altri uomini, che poi lo deridevano, lo schernivano per quel suo impiego da cameriera, da garzone di modista.

Quanto al lato morale della cosa Harry poco ci badava. Una certa immoralità pareva a lui dote essenzialmente virile, e il passar la giornata in compagnia d’una bella signora, occupandosi di acconciature e di ritocchi, gli sembrava come stare su una graziosa isola, in mezzo alle burrasche della vita.

Un mattino, entrato nel salotto da ricevere di lei, stava accomodando alcune musiche sopra il cembalo quando udì, dal lato opposto della stanza, Lady Vandeleur che discorreva assai concitatamente con suo fratello Charlie Pendragon, un attempato giovinotto alquanto dedito alle dissipazioni e molto zoppo da una gamba. Il segretario, al cui entrare essi non avevano badato, non poté far a meno di porgere orecchio ai loro discorsi.

«O oggi o mai», esclamava la signora. «Sia detto una volta per sempre, questa cosa s’ha da farla entro oggi».

«Entro oggi, se si potrà», replicava il fratello con un sospiro. «Ma io ti dico che il passo è falso, Clara, ch’è rovinoso: e ce ne pentiremo per tutta la vita».

Lady Vandeleur guardò il fratello in modo traverso.

«Dimentichi» soggiunse «che l’uomo deve pur morire un giorno o l’altro».

«Ah, parola d’onore, Clara,» replicò Pendragon «tu sei la più spudorata briccona di tutt’Inghilterra».

«Voialtri uomini» ella ribatté «siete così grossolani che non arrivate neanche a comprendere le più piccole sfumature dei nostri pensieri. Tu stesso sei rapace, violento, sfrontato, noncurante di finezze; eppure il più tenue pensiero del futuro, in una donna, ti turba ti offende! Ah, io perdo la pazienza con queste asinerie! Tu disprezzeresti in un banchiere la debolezza che desideri ritrovare in noi».

«Forse forse hai ragione» rispose il fratello «sei sempre stata più abile e più avveduta di me, tu. Comunque, sai qual è il mio motto “La famiglia avanti tutto”».

«Sì, Charlie» ella replicò prendendo fra le sue una mano del fratello. «Il tuo motto lo so meglio di te: “Clara avanti la famiglia”. Non è questa la seconda parte del tuo motto? Davvero tu sei il migliore dei fratelli, Charlie; ed io ti amo teneramente».

Mr. Pendragon si levò su, un po’ imbarazzato a quella dichiarazione. Poi ella lo congedò inviandogli un bacio sulla punta delle dita. Egli uscì dal salotto e sparì giù per le scale.

Rimasta sola, Lady Vandeleur si volse al suo segretario.

«Harry, ho una commissione da darti per stamani. Ma devi prendere un cab. Non voglio che il mio segretario abbia a buscarsi le lentiggini, con questo sole».

Disse quest’ultime parole con una certa energia d’accento e con un tono un po’ materno nella voce, sì che il povero Harry si sentì pieno di felicità e subito si dichiarò contento che gli si porgesse questa nuova occasione di servirla.

«Ma la cosa ha da restare fra me e il mio segretario» continuò la signora. «Sir Thomas ci sarebbe di grandissimo impiccio; e tu sapessi quanto mi seccano quelle sue scenate! Oh, Harry, Harry… mi dici un po’ perché voialtri uomini abbiate sempre ad essere così ingiusti e violenti? Eh, tu non lo sai neppure, nevvero, Harry? Tu sei l’unica persona in terra che non conosce queste vergognose passioni. Sei così buono, sei così gentile! Tu sì che sei capace d’essere il vero amico d’una donna».

Harry replicò con galanteria:

«Siete voi che siete graziosa con me, voi che mi trattate come…»

«…come una madre» interruppe Lady Vandeleur. «E una madre io ho cercato sempre di essere per te, Harry. O meglio» corresse con un sorriso «quasi una madre… E proprio sono spiacente di essere troppo giovine per esserti madre davvero. Be’, diciamo un’amica, via, una buona amica…»

Qui ella indugiò un poco per lasciare che quelle sue parole producessero il dovuto effetto sui precordi sentimentali del suo segretario, ma non tanto però da permettergli di avviare una risposta. E riprese:

«Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la faccenda in questione. Dentro la mia guardaroba, dalla parte di sinistra, sotto le mie pantofole rosa, troverai una scatola da nastri. La prenderai su e la porterai a questo indirizzo» e gli diede un foglio. «Ma, intendi bene, ad ogni costo non devi consegnarla a nessuno se prima non avrai avuto in cambio una ricevuta scritta di mio pugno. Hai inteso? Su, ripeti quello che t’ho detto. Occorre tu faccia questa commissione appuntino».

Harry ripeté punto per punto le istruzioni ricevute; ma ella stava per aggiunger dell’altro, quando, improvvisamente, il Generale irruppe nella stanza. Era tutto rosso in volto e pieno di collera e teneva tra le mani il conto della modista: un conto grosso e molto elaborato.

«Abbiate la bontà, signora mia, di darvi una occhiata» esclamò vivacemente. «Abbiate la bontà di analizzare questo piccolo documento. Eh, ora lo capisco sì che m’avete sposato per il mio danaro! Bene, io credo d’esser l’uomo forse più accomodante di tutto l’esercito; ma, com’è vero che Dio m’ha fatto, intendo che poniate fine a queste vostre rovinose dissipazioni».

Rivolta al suo segretario, come nulla fosse, Lady Vandeleur continuava:

«Dunque, Mr. Harry, hai inteso ciò che hai da fare. Spero adempirai con sollecitudine la mia commissione».

«Alto là!» scattò il Generale volgendosi ad Harry. «Una parola, prima».

Quindi a Lady Vandeleur: «Ebbene, di che razza di commissione si tratta? Se costui ha ancora un briciolo di onestà dovrebbe avere a sdegno di restare in questa casa e beccarsi uno stipendio in cambio di tanti misteriosi servigi. Che commissione gli avete dato? E perché, di grazia, avete tanta fretta di mandarlo via?»

«Se non sbaglio, voi avete qualche cosa da dirmi» proferì in tutta calma la signora.

«Commissioni, commissioni!» urlò il Generale. «Via, non cercate d’ingannarmi perché oggi sono di pessimo umore. Di che commissione si tratta?»

«Se proprio, come vedo, voi insistete a che i vostri domestici abbiano a essere presenti alle nostre umilianti discussioni» ella aggiunse «sarà meglio che dica a Mr. Harry di mettersi a sedere ed ascoltare. No? … Allora, Harry, adesso puoi andartene. Confido che ti ricorderai di quanto hai udito in questa stanza; ciò ti potrà giovare per l’avvenire».

Harry uscì; e, come scendeva rapido le scale, poteva udire ancora la voce tonante e infuriata del Generale, e il tono calmo con cui Lady Vandeleur gli ribatteva. Ad ogni nuovo attacco di lui ella opponeva le sue repliche diacce ed argute. Come sentiva d’ammirarla quella creatura! Con che sottile destrezza ella riusciva a scantonare la bruciante questione! E con che sicura calma ella aveva ripetute le sue istruzioni persino sotto la minaccia del cannone nemico! E come l’odiava cordialmente quel marito!

Nella mattinata non accadde nulla d’insolito. Harry continuò a servire la sua signora in segrete commissioni intime massimamente presso la modista. Che ci fosse una crepa misteriosa in quella casa egli ben lo immaginava. Le prodigalità veramente rovinose e certi impegni di carattere occulto della signora già da lungo tempo avevano inghiottito tutto il suo patrimonio e rischiavano di inabissare di giorno in giorno anche quello del marito. Una o due volte all’anno le sostanze eran messe a risico e la rovina pareva imminente. Allora il povero Harry a trottar di qua e di là, per botteghe di fornitori d’ogni genere, studiandosi di tenerli a bada con qualche frottola, pagando magri acconti per somme grosse, purché, pel momento, la scadenza fosse scongiurata, e la signora e il suo segretario poteva respirare qualche tempo ancora. Harry, con quella sua destrezza, si buttava corpo e anima in quelle guerricciole. Non solo egli adorava Lady Vandeleur e temeva e odiava il marito, ma egli stesso, per sua natura, era portato all’amore delle eleganze e quel poco che scialava era unicamente nel sarto.

Egli, dunque, trovò la scatola da nastri nel luogo indicato; poi si azzimò con cura ed uscì.

Era uno splendido sole; ma il cammino ch’egli doveva percorrere era alquanto lungo, ed Harry pensò con amarezza che, per quella furiosa irruzione del Generale, Lady Vandeleur non si era ricordata di dargli i danari per il cab. Cosicché, in quella giornata soffocante, la sua bella carnagione correva tutto il rischio d’essere compromessa; oltreché quel correr su e giù per Londra con una scatola da nastri sotto il braccio costituiva un’umiliazione bell’e buona per un giovane della sua razza. Sostò un istante e si consultò sul da fare. I Vandeleur abitavano in Eaton Place e la casa dov’egli doveva recarsi era presso Nothing Hill. Allora entrò all’Hyde Park e prese a risalirlo cercando di camminare per luoghi aperti onde evitare i viali affollati, e ringraziando la sua stella ch’era ancora di buon mattino.

Bramoso di liberarsi al più presto dello scatolone, camminava un po’ più svelto dell’ordinario, e s’era già inoltrato parecchio nei Giardini di Kensington, quando, in un luogo appartato, frammezzo agli alberi, si trovò faccia faccia col Generale.

«O mi scusi, Sir Thomas!» esclamò Harry ritirandosi compunto da un lato poiché l’altro s’era piantato lì sul sentiero. «Son venuto qui a far un passeggino in mezzo a questi alberi».

Il Generale picchiò il bastone sulla scatola da nastri.

«Con quest’arnese sotto il braccio? … Voi mentite e sapete di mentire!»

«Può darsi, Sir Thomas, ma si è ch’io non sono avvezzo ad esser affrontato con un tono così perentorio».

«Voi non avete ancora capita la vostra posizione!» urlò il Generale. «Voi siete mio domestico e domestico d’una persona sulla quale nutro gravi sospetti. Credete forse ch’io possa immaginare che il vostro scatolone sia pieno di cucchiaini da tè?»

«Contiene un cappello di seta d’un amico mio».

«Bene» replicò il Generale «fatemi vedere il cappello di seta dell’amico vostro. Ci ho un certo gusto io pei cappelli in genere» soggiunse con un ghigno feroce «poiché, dovete saperlo, sono un uomo alquanto positivo, io».

«Domando perdono, Sir Thomas» si scusava il poveretto. «Ma qui si tratta di cosa privata e personale».

Il Generale, allora, con una mano l’acchiappò di forza per una spalla mentre con l’altra alzava la mazza su di lui nella maniera meno rassicurante del mondo. Harry si sentì perduto… Ma, ecco che il cielo si degnò inviargli un inatteso difensore nella persona di Charlie Pendragon, il quale usciva in quel momento dall’alberato, e veniva avanti, a gran passi, gridando:

«Giù, giù quelle mani, Generale! Questo non è degno d’un gentiluomo!»

«Ahó!» mugghiò allora il Generale, volteggiando la mazza sopra il nuovo arrivato. «Mr. Pendragon!… E voi credete, Mr. Pendragon, che perché ho avuto la disgrazia di sposare vostra sorella io debba tollerare di venir importunato da un libertino screditato e fallito come voi? La mia parentela con la signora Vandeleur mi ha davvero tolto ogni desiderio di praticare con gli altri membri della sua famiglia!»

«E voi credete, Generale Vandeleur,» replicò Charlie «che perché mia sorella ha avuto la disgrazia di sposar voi, ella abbia con questo perduto i suoi diritti e privilegi come Lady? Convengo, signore, che con una tale azione ella fece cosa che nessun’altra avrebbe avuto il fegato di fare… Ma essa è pur sempre una Pendragon, ed è mio dovere di proteggerla contro ogni volgare ingiuria; per modo che, foste anche cento volte suo marito, non permetterei mai che la sua libertà venisse menomata, né il suo segretario con tal violenza oltraggiato!»

«Eh? Che ne dite, Mr. Hartley?» Il generale si volse ad Harry. «Non vi pare che Mr. Pendragon sia della mia opinione? Anch’egli si direbbe sospetti qualche relazione fra Lady Vandeleur e il cappello di seta del vostro amico…»

Charlie, allora, s’accorse d’aver commesso un imperdonabile errore e corse ai ripari.

«Che?» esclamò «io ho dei sospetti? Ma io non sospetto di nulla e di nessuno. Soltanto quando mi trovo dinnanzi a un prepotente, a uno che maltratta gl’inferiori, mi prendo la libertà d’intervenire». E, nello stesso tempo, fece ad Harry un cenno che il poveretto era troppo trasognato in quel momento per intendere.

«In quale modo debbo io interpretare queste vostre parole?» domandò Vandeleur.

«Nel modo che più vi piace» replicò Pendragon.

Il Generale levò il bastone e lo lasciò andare sulla testa di Charlie, ma questi, ancorché zoppo, seppe scansare il colpo col parasole, poi si cacciò sotto. E i due vennero alle mani.

«Fuggi, Harry!» ebbe tempo di gridare Pendragon. «Fuggi via, balordo!»

Harry restò là un istante a guardare quei due che lottavano avvinghiati in una stretta feroce; poi virò sui tacchi e si diè a fuggire.

Quando fu in grado di volgersi e gittare una occhiata all’indietro, vide il Generale che, steso a terra, mentre Charlie gli era sopra col ginocchio puntato sul petto, faceva ogni sforzo per veder di rovesciare la situazione: e il giardino che s’andava affollando di gente accorrente da tutte le parti verso il luogo della lotta. Non ci volle che quella vista per metter l’ali ai piedi al nostro segretario. Ripigliò a correre con gran foga, e non rallentò che quando fu sulla strada di Bayswater. Là si cacciò, a caso, entro una straduccia privata.

Lo spettacolo di quei due gentiluomini che egli ben conosceva e che si picchiavano con santa ferocia, offendeva profondamente la sua sensibilità. Non bramò altro pel momento che dimenticare una tal vista; ma, soprattutto, di porre molta strada fra sé e il Generale Vandeleur. E intanto, nella sua agitazione, gli accadde di dimenticare ogni dato preciso intorno al luogo dove doveva recare la sua commissione; e camminava svelto, a capo basso, tremando. Se poi pensava che Lady Vandeleur era, rispettivamente, moglie e sorella a quei due gradassi, il cuore gli ardeva di gran simpatia per una donna così infelice e così mal messa nella vita. Ora, alla luce di quel brutto evento, anche la sua situazione nella casa del Generale gli parve un po’ meno bella e meno divertente.

Compreso di questi pensieri, fece ancora un buon tratto di cammino, quando un improvviso urtone con un altro viandante, gli ricordò che aveva sotto il braccio una scatola da nastri.

«Dio!» esclamò. «O dov’ero con la testa? E dove sono avviato adesso?»

Guardò la busta che Lady Vandeleur gli aveva dato. C’era si l’indirizzo del luogo, ma non il nome della persona cui andava recata. Su quelle sole indicazioni Harry doveva semplicemente recarsi a domandare «d’un signore che aspettava un pacco da Lady Vandeleur» e, se non era in casa, tornarsene. Il signore, aggiungeva il biglietto, gli avrebbe poi consegnata una ricevuta scritta di pugno dalla signora Vandeleur.

Tutto questo appariva una faccenda straordinariamente misteriosa; ma ciò che più stupiva il nostro Harry era ch’ella avesse tralasciato di mettere sulla busta il nome della persona, e poi quella formalità della ricevuta. A tutti questi particolari egli poco ci aveva badato quando la signora glieli aveva esposti, ma ora, rileggendo il biglietto a mente calma, e mettendolo in relazione con gli altri strani casi che gli eran occorsi poco prima, venne proprio nella convinzione di trovarsi mescolato ad un assai misterioso affare.

Per un istante gli balenò qualche sospetto anche su Lady Vandeleur. Poiché, quantunque trovasse queste strane manovre affatto indegne di così nobile gentildonna, tuttavia pensava ch’ella sempre lo aveva tenuto all’oscuro dei suoi segreti. Ma quella donna esercitava su di lui un potere così assoluto, ch’egli diè presto passata a tutti i sospetti e si rimproverò perfino di essere arrivato a concepirli.

In una sola considerazione, però, il suo dovere e il suo interesse, la sua generosità e la sua paura andavano d’accordo: liberarsi al più presto della scatola da nastri.

S’avvicinò a un policeman e, domandatolo gentilmente della strada, seppe che non era lontana dal luogo verso cui era incamminato. Infatti, dopo pochi minuti, si trovò in una viuzza fuori mano, davanti a una piccola casa dipinta di fresco e tenuta con la cura più scrupolosa. Il martello della porta e la catena del campanello erano ben forbiti: vasi d’erbe fiorite adornavano i davanzali delle finestre e cortine di ricche stoffe celavano l’interno della casa allo sguardo dei viandanti. Il luogo aveva un’aria di riposo e di segretezza. Harry, pulite con cura le scarpe davanti all’uscio, vi assestò un buon colpo.

Subito una cameriera venne ad aprire, di bell’aspetto, che gettò sul nostro segretario una poco benevola occhiata.

«Ecco qua uno scatolone mandato da Lady Vandeleur» fece Harry.

«Va bene» rispose la cameriera con un cenno del capo. «Ma il signore è fuori di casa. Volete lasciarlo a me?»

«Non posso» replicò Harry. «Questo pacco debbo consegnarlo soltanto a certe condizioni. Abbiate quindi la bontà di lasciarmi aspettare qui».

«Fate pure» diss’ella. «Per questo non ho nulla in contrario. Sono sola qui: ma voi non avete mica l’aspetto d’un mangiatore di ragazze. Bisogna, però, che in nessun modo mi domandiate il nome del mio padrone, perché non debbo, né posso, rivelarlo a nessuno».

«Ah, così?» fece Harry. «Strano! Bah, ormai, da qualche ora io vo’ passando di sorpresa in sorpresa. Una cosa, però, mi permetterete di chiedervi. Il signore è il padrone di casa?

«È soltanto pigionale, e non da più di otto giorni… E voi, dite un po’, conoscete Lady Vandeleur?»

«Sono il suo segretario privato» fece Harry arrossendo modestamente d’orgoglio.

«È graziosa, non è vero?» insisté la ragazza.

«Oh, bella!» esclamò Harry «meravigliosamente bella e, per di più, buona e gentile».

«Anche voi mi sembrate gentile» incalzò la fanciulla. «Eh, lasciatemelo dire, voi meritereste non una ma dodici Lady Vandeleur!»

Harry fu scandalizzato.

«Io! … Ma io sono soltanto il suo segretario privato».

«Che? Credevate dicessi questo per me?» fece la ragazza. «Eh, io sono soltanto una cameriera, se non vi spiace». Poi, moderando il tono delle parole, al vedere la manifesta confusione che s’andava pingendo sul volto di Harry: «Lo vedo bene che non pensate nulla del genere… Ma queste padrone, eh? Mandare per la strada un vero gentiluomo come voi con uno scatolone sotto il braccio, e di pieno giorno!»

Durante questi discorsi essi non s’eran rimossi dalla loro posizione. Ella stava sul gradino dell’uscio, lui in basso sul sentiero, a testa scoperta per godersi un po’ il fresco, e lo scatolone sul braccio. Ma a quell’ultime parole della ragazza, sentendosi incapace di reggere a tutti quei complimenti che ella gli lanciava a bruciapelo e alle incoraggianti guardatine con cui li accompagnava, egli cominciò a mutare atteggiamento e gittava occhiate a destra e a sinistra piene di turbamento. Fu allora che, volgendo il viso verso il fondo del vicolo, vide, con indescrivibile terrore, apparire il Generale Vandeleur.

Il Generale, in agitazione grandissima, accaldato e furente, aveva scorrazzato le strade in cerca del cognato, ma, come aveva scorto quel delinquente di segretario, i suoi propositi avevano mutato rotta, la sua collera inalveatasi per altro canale e, voltosi da quella parte, pigliò su per il vicolo, gesticolando e vociando come un dannato.

Harry, in un batter d’occhio, spintosi avanti la cameriera, si cacciò dentro casa, appena in tempo per sbatter l’uscio sulla faccia dell’inseguitore.

«C’è un catenaccio qui? … Per carità, serratelo!» fece, intanto che una salva di picchiate fioccava sull’uscio destando echi per tutta la casa.

«Ma che c’è? che v’accade?» esclamò la ragazza. «Avete paura del vecchio signore?»

«Se fa tanto d’acciuffarmi» soffiò Harry «son bell’e spacciato. È tutto il giorno che mi dà caccia. È un ufficiale che viene dall’India. Ha con sé un bastone con lo stocco!»

«Bei modi davvero!» esclamò la fanciulla. «Ma come si chiama quel gradasso?»

«È il Generale, mio padrone» rispose Harry. «Egli tiene dietro a questo mio scatolone».

«Non lo dicevo io?» fece la ragazza, con un malizioso sorriso. «Eh, non avevo mica tutti i torti di pensare un pochetto male della vostra Lady Vandeleur! Se non siete un minchione, avreste pur dovuto capire chi è costei: qualche ingrata e capricciosa civetta, son certa».

Il Generale intanto rinnovava i suoi attacchi al martello dell’uscio, e la furia e l’impazienza esasperandosi con l’indugio, cominciò pure a sparar calci e pestate sul regolo della porta.

«Fortuna» esclamò la fanciulla «ch’io son sola in casa. Così il vostro Generale può picchiare fin che n’ha voglia, che nessuno gli aprirà. Venite con me».

E condusse Harry nella cucina dove lo fece sedere, ed ella stessa gli si venne a metter vicino e gli pose una mano sulla spalla, piena di amichevole affabilità. Anziché decrescere, lo strepito all’uscio aumentava, e ad ogni sfuriata il povero segretario si sentiva un nuovo tuffo al cuore.

«Come vi chiamate?» domandò la fanciulla.

«Harry Hartley».

«Io mi chiamo Prudenzia» continuò lei. «Vi piace Prudenzia?»

«Oh, molto!» esclamò Harry. «Ma sentite, sentite come picchia quell’indemoniato… Vuol sconquassarvi l’uscio! Dio mio, se vi riesce, come dire che m’accoppa!»

«Ih, come v’avvilite per poco!» rispose Prudenzia. «Ma lasciate che il vostro Generale si scortichi le dita fin che n’ha voglia. Credete vi avrei trattenuto qui se non fossi certa di tenervi al sicuro? Oh, io sono buona amica a quelli che mi piacciono! E poi, se mai, qua dietro casa, v’è una porticina che dà su un altro vicolo…»

All’udire questa buona notizia Harry saltò in piedi di colpo, ma Prudenzia lo rimise a sedere e gli disse:

«Ebbene, quella porticina non ve la indicherò se non quando m’avrete dato un bacio… Volete darmi un bacio?»

«Se lo voglio!» esclamò Harry ricordandosi d’esser un giovinotto galante. «Oh, ma non per la vostra porticina di dietro, veh, ma perché siete una brava e onesta ragazza!»

E, detto fatto, le somministrò due o tre bacioni cordiali che gli vennero resi con altrettanto trasporto.

Allora Prudenzia lo condusse alla porticina di dietro, e mise mano alla chiave.

«Verrete a trovarmi qualche volta?» domandò.

«Verrò certamente» rispose Harry. «A voi debbo la vita».

«Ed ora» essa soggiunse aprendo la porta «fuggite, ma lesto, perché vado ad aprire al Generale».

Harry aveva proprio bisogno che glielo dicessero, di fuggire lesto! La paura lo teneva pei capelli, ed ei mise a tutt’impegno le sue gambe. Pochi passi ancora, e sarebbe fuor d’ogni pericolo e tornato a Lady Vandeleur sano ed onorato. Ma quei pochi passi ancor non li aveva fatti, che udì la voce d’un uomo che lo chiamava alto per nome, imprecando. Si volse, e chi vide? Proprio Charlie Pendragon che agitava le braccia di lontano facendogli cenno di tornar indietro. Il colpo che gli recò questa nuova apparizione fu così improvviso e terribile, ed egli si trovava in tale affanno di nervi, che, in quel momento, non pensò che ad accelerare il passo e continuare la sua rotta. Sol che si fosse rammentato la scena di Kensington Gardens avrebbe concluso che se il Generale era suo nemico, Charlie Pendragon non poteva che essergli amico. Ma tale era lo scompiglio in cui si trovava che proprio nessuna di queste considerazioni gli balenò alla mente, ed egli continuò la sua corsa disperata su pel vicolo.

Charlie, a giudicare dal suono della voce e dalle triviali frasi che lanciava dietro al segretario, doveva esser molto fuor di sé dall’ira. Pur egli si sforzava di correre a tutt’uomo, ma la sua fisica disgrazia non gli permetteva di ottenere qualche vantaggio sul suo inseguito, tanto che le sue grida e lo strepito della gamba zoppa sull’acciottolato si fecero sentire sempre meno, finché dileguarono del tutto.

Le speranze di Harry cominciarono a ravvivarsi. Il vicolo era ripido ed angusto, ma anche assai solitario, fiancheggiato com’era d’ambedue i lati da muraglioni di giardini e tenuto in ombra dall’ampio frascame che vi pendeva su. Fin dove il fuggiasco poteva scorgere davanti a sé non eravi anima viva né porta aperta. Si vede che la Provvidenza, questa volta, stanca di perseguitarlo, gli aveva finalmente preparato un campo favorevole di fuga.

Ma, di lì a poco, com’egli passò rasente al cancello d’un giardino, dove la strada faceva un rientro sotto un folto di castagni, dando un’occhiata là dentro, scorse sul sentiero del giardino un garzone di macellaio che veniva avanti con un truogolo fra le braccia. Appena s’era accorto di ciò che era già parecchi passi sul lato opposto della strada. L’altro però aveva avuto tempo di osservar bene lui e sorpreso di veder correre un signore a quel modo, si slanciò fuori sul vicolo e gli gridò dietro:

«Scappa! scappa!»

Allora Charlie Pendragon ebbe un’idea e, quantunque sfiatato, trovò tanta voce da gridare:

«Dàlli al ladro!»

E subito il macellarino raccolse il grido e si slanciò all’inseguimento.

Fu un momento assai critico per il povero Harry. Già il terrore lo rendeva incapace di accelerare il passo e pigliar vantaggio sui suoi inseguitori; oltreché s’avvedeva ormai di essere all’esaurimento delle sue forze, e pensava che, se si fosse imbattuto in qualcuno durante quella corsa, poteva dirsi perduto.

«Bisogna che trovi da rimpiattarmi» pensò «e subito, altrimenti son bell’e spacciato».

In quella il vicolo svoltò ed egli si trovò di colpo celato alla vista dei suoi inseguitori.

Ci son momenti in cui anche il meno coraggioso sa diportarsi con intrepidezza e decisione, e il più cauto sbarazzarsi della sua prudenza per appigliarsi a folli e temerarie risoluzioni. Così fu di Harry. Quanti lo conobbero sarebbero rimasti sorpresi al vedere l’audace temerità di cui dei prova in quel momento. Si fermò di botto, lanciò la scatola al di sopra del muraglione e, spiccato un gran salto, s’aggrappò alla cima del muro, poi piombò giù di là, dentro il giardino.

Dopo qualche istante, rimessosi dall’intontimento, si guardava attorno. Stava seduto sull’orlo d’un rosaio. Aveva le mani e le ginocchia tutte tagliuzzate e sanguinanti, poiché il muro, a difenderlo dalla possibilità di simili scalate, era stato abbondantemente disseminato di cocci di bottiglie: di più si sentiva le ossa slogate e peste e il cervello a guazzo. Spinse lo sguardo attraverso il giardino, e lo vide tenuto in bell’ordine, tutto messo a fiori che tramandavano le più delicate fragranze: in fondo poi era una casa di considerevole ampiezza, che sembrava abitata, ma cadente, mal tenuta e di misera apparenza, che faceva strano contrasto col giardino. Dall’altro lato il muro di cinta appariva troncato.

Gli aspetti di questa nuova scena Harry li colse, per così dire, con un’occhiata automatica, perché, pel resto, in quel momento, era incapace affatto di raccapezzare il senso di ciò che vedeva e trarne qualche logica deduzione. Sì che quando udì dei passi sulla ghiaia del viale che s’avvicinavano, volse gli occhi da quella parte, ma senza alcuna voglia di difendersi né di fuggire.

L’uomo che sopraggiungeva adesso era un personaggio corpulento, rozzo e molto sudicio, che indossava una casacca da giardiniere e teneva un annaffiatoio nella mano sinistra. Uno che fosse stato meno sbalordito di Harry si sarebbe un po’ allarmato all’aspetto di quell’uomo grande e ai suoi occhi scuri e accipigliati. Ma Harry era troppo sconquassato dalla caduta perché gli riuscisse anche d’esser allarmato; e sebbene non si peritasse distogliere lo sguardo dal giardiniere, pure restò là, inerte, lasciò che quello gli s’accostasse, lo afferrasse rudemente per una spalla e lo rimettesse in piedi, senza opporre resistenza.

Per un istante i due stettero a fissarsi negli occhi: Harry come affascinato, l’altro squadrandolo con un ghigno traverso pieno di crudele e beffarda canzonatura.

«Chi siete?» domandò l’uomo finalmente. «Chi siete voi che mi scavalcate di volo il muro e mi sciupate le mie “Glorie de Dijon”? Come vi chiamate?» e gli diede uno scossone. «Che affari avete da queste parti?»

Harry non arrivava a metter insieme una parola di spiegazione.

Ma, proprio in quel momento, Pendragon e il macellarino passavano correndo di là dal muro, e il trepestio dei passi e le rauche strida facevano gran baccano su per lo stretto vicolo. Il giardiniere, allora, comprese.

«Un ladro!» egli gridò. «Ah, parola ch’avete scelto un buon mestiere, voi, anche al vedere come siete rinfronzolito da capo a piedi come un signore. Ma non avete vergogna andar attorno per il mondo in queste sciccherie, in mezzo alla gente onesta che, putacaso, sarebbe contenta di acquistar questi vostri fronzoli anche di seconda mano? Su, parlate, canaglia! Lo capite l’inglese sì o no? Là, vo’ un po’ discorrerla con voi, avanti di portarvi al prossimo posto di polizia».

«Signore,» rispose Harry «noi qui siamo vittime d’un terribile equivoco. Abbiate la bontà di venir con me da Sir Thomas Vandeleur in Eaton Place, e vi prometto che là ogni cosa vi sarà chiarita. E dire che anche la persona più onesta può esser trascinata in una situazione equivoca!»

«Signorino mio,» ribatté il giardiniere «con voi non mi garba d’andare più in là del prossimo posto di polizia. Là c’è il Commissario il quale sarà certamente felice di fare una passeggiata con voi fino in Eaton Place e bere una tazza di tè in compagnia di quel vostro illustre amico. Sir Thomas Vandeleur! Come non lo conoscessi, io, un signore, quando ne vedo uno che mi scavalca i muri a questo modo… Bene, io vi leggo come una bibbia, voi. Questa camicia vi deve costare almeno quanto il mio cappello della festa; questa giacca, lo giurerei, non deve aver mai bazzicato pel Mercato degli Stracci; e questi stivaletti…»

Qui di colpo cessò dal suo inventario, poiché lo sguardo, disceso fino a terra, era rimasto là fitto con intensità su qualcosa che si trovava ai piedi di Harry.

«Per Dio, ch’è questo?» esclamò con una strana voce.

Harry allora seguì la direzione dello sguardo di lui e vide cosa che lo fece allibire dallo stupore e dallo sgomento. Nel saltar giù dal muro, egli era caduto sullo scatolone e l’aveva squarciato per mezzo da cima a fondo: e di là era uscito fuori un gran tesoro di diamanti, che ora giaceva lì per terra, parte calpestato, parte sparpagliato sul terreno in una profusione e magnificenza veramente regale. V’era là uno splendido diadema ch’egli spesso aveva visto brillare in fronte a Lady Vandeleur e c’erano anelli e spille da petto, orecchini e braccialetti, e de’ brillanti che mandavano guizzi e barbagli in mezzo al rosaio, come gocce di rugiada. Una fortuna principesca stava lì sciorinata per terra, in mezzo ai due uomini… un tesoro nella sua forma più seducente, più solida e più duratura, da farne una grembiulata, splendido in sé, riflettente la luce del sole che frastagliava nel fulgore iridato di mille arcobaleni.

«Mio Dio!» gridò Harry. «Son perduto!»

E il suo pensiero andò velocissimo attraverso il passato, e cominciò a comprendere allora gli avvenimenti della giornata, ad afferrarli come in un tutto, a riconoscere il bieco imbroglio nel quale la sua onestà e la sua sorte erano stati gittate. Si guardò intorno, quasi per scoprire una salvezza, ma egli era solo in quel giardino, solo con quel tesoro sparpagliato e col suo pauroso interlocutore. Tese l’orecchio. Non udiva che il fruscio delle foglie e il battito affrettato del suo cuore. Si sentì venir meno, e con voce disperata mormorò ancora:

«Son perduto!»

Il giardiniere guatò da ogni parte con aria circospetta, ma visto che non c’erano facce alle finestre, parve respirare.

«Su, rimettetevi,» diss’egli «balordo! Il peggio della faccenda l’avete fatto… E perché non dirlo prima che avevate qui roba per tutti e due? Per due?» soggiunse «Ahó, per duecento! … Ma su, venite via di qua, che ci può esser qualcuno che ci scorge… E accomodatevi il cappello, e datevi una spolveratina alle vesti».

Mentre Harry, automaticamente, badava a metter in pratica quei consigli, il giardiniere, postosi in ginocchio, in fretta e furia raccoglieva da terra i gioielli e li rimetteva dentro lo scatolone. Il contatto di quei preziosi cristalli mandava un brivido su per la robusta impalcatura dell’uomo, la sua faccia si trasfigurava, i suoi occhi brillavano di concupiscenza: pareva si compiacesse a indugiarsi con voluttà in quell’occupazione dilettosa, a giocherellare con ogni brillante che gli passava tra mano. Alla fine li ebbe tutti raccolti e riposti; nascose lo scatolone sotto la casacca e fatto un cenno ad Harry si avviò, precedendolo, in direzione della casa.

Sulla porta, trovarono un giovinotto che apparteneva agli ordini ecclesiastici. Era tutto in nero, singolarmente bello e distinto, con un aspetto in cui si alternavano dolcezza e risolutezza, e assai lindamente acconciato secondo le norme della sua casta.

Il giardiniere apparve alquanto interdetto alla vista di lui, ma fece buon viso a cattivo gioco e gli si avvicinò con aria ossequiosa e un cordiale sorriso a fior di labbro.

«Bel pomeriggio, eh, Mr. Rolles?» diss’egli. «Bello, proprio com’è vero Dio! … Ecco qua un mio giovane amico, che gli è venuto l’uzzolo di venir a visitare le mie rose. Così che io mi son preso la libertà di condurlo qui, pensando che i miei ospiti non avrebbero trovato nulla da ridire».

«Per me» rispose il Reverendo «non ho nessuna difficoltà: né credo gli altri abbiano a opporne a una questione di sì lieve importanza. Il giardino è vostro, Mr. Raeburn, e nessuno di noi deve dimenticarlo. Ora, poiché voi ci avete data libertà di passeggiarvi a nostro talento, sarebbe assurdo noi presumessimo dalla vostra cortesia che aveste a opporvi al desiderio del vostro amico. Ma, mi pare…» soggiunse, fissando Harry «questo signore di conoscerlo… Mr. Hartley, se non erro. Oh, mi duole vedere che avete subito una caduta, Mr. Hartley».

E tese la mano ad Harry.

Il quale, un po’ per certo suo dignitoso pudore di donzella che aveva, un po’ pel desiderio di allontanare il più possibile il momento di dare una spiegazione dell’accaduto, risolse rifiutare quell’occasione di salvezza che gli si porgeva e negare la propria identità. Tra i due preferì aver fiducia nella discrezione del giardiniere, che infine gli era uomo ignoto, anziché dover appagare la curiosità e magari dar ansa ai sospetti d’una persona che lo conosceva.

«Sono spiacente», fece allora «ma temo, signore, che siate incorso in qualche errore. Io mi chiamo Thomlinson, e sono amico qua di Mr. Raeburn».

«Davvero?» rispose Mr. Rolles. «Ma la vostra somiglianza con Mr. Hartley è impressionante».

Mr. Raeburn, ch’era stato sulle spine durante tutto questo colloquio, capì essere venuto il momento buono di porvi termine.

«Vi auguro buon passeggio, Mr. Rolles» esclamò egli in fretta e, detto fatto, trascinò Harry dietro di sé fin dentro casa. Là lo condusse a una camera che dava sul giardino.

Sua prima cura fu calar le tendine perché Mr. Rolles era rimasto ancora dove l’avevano lasciato, in un atteggiamento un po’ perplesso e pensieroso. Poi, svuotato sulla tavola il contenuto dello scatolone, stette là davanti al tesoro sciorinato con un’espressione di avido rapimento, soffregando di piacere le mani lungo le cosce.

Quanto ad Harry, era un altro colpo al cuore da aggiungersi ai tanti già provati, questo di osservare la faccia dell’uomo resa bestiale dalla sua volgare concupiscenza. Gli pareva impossibile, a lui giovane elegante e raffinato, esser piombato nella lurida compagnia di quel furfante così sordido, così vile. Nessun atto peccaminoso aveva da rimproverarsi Harry, eppure era costretto a soffrire la punizione di un peccato nella sua forma più cruda e più ignobile: lo spavento della punizione, l’esser ridotto a sospettar male di tante persone ch’egli credeva buone ed oneste, e la compagnia, il contatto contaminatore di una natura bruta e miserabile. Avrebbe dato la vita pur di poter scappar via da quella casa.

«Ed ora» disse Mr. Raeburn dopo aver diviso in due parti quasi eguali il mucchio dei gioielli, e tiratone una presso di sé «ora noi potremo spassarcela grassamente. Voi avete a sapere, Mr. Hartley, se pur vi chiamate così, ch’io son uomo d’indole buona, e che la mia bontà è sempre stata la cosa che m’ha inceppato di più nella vita. Tutta questa bella roba, per esempio, io potrei mettermela in saccoccia allegramente, se volessi, e senza che voi aveste a rifiatare. Ma, che volete, io v’ho già preso a benvolere, e vi dichiaro che non ho cuore di pelarvi poi troppo. In tutt’amicizia, dunque, vi propongo di spartire fra noi il bottino. Cosicché» soggiunse additando i due mucchietti «queste sarebbero le parti che avrei fatte, le quali mi sembrano giuste ed amichevoli. Avete qualcosa da opporre? Via, io non sono uomo da star a quisquiliare per due orecchini».

«Ma, signor mio», fece Harry «ciò che voi mi proponete è assurdo. Questi gioielli non mi appartengono, e io non posso spartirli con chicchessia, e in nessun modo».

«Non v’appartengono?» replicò Raeburn. «E non volete spartirli? Oh, ma questa è una gran disgrazia, perché, in tal caso, sono costretto a portarvi alla polizia… La polizia, pensate!» e gli afferrò il polso.

«Io non so che farci…» piagnucolò Harry. «Non è colpa mia… Ma non volete proprio venire con me in Eaton Place?»

«No, non ci vengo, state certo. Preferisco spartire con voi, en amitié, questi quattro gingilli».

E qui diede una brusca e vigorosa torsione al polso del ragazzo.

Harry non poté trattenere uno strillo, e il sudore gli sprillò di sulla faccia. E fosse il dolore o lo spavento che avevano aguzzato il suo intelletto, certo è che, in quell’istante, l’intera faccenda gli apparve sotto una luce nuova; capì che, pel momento, non gli rimaneva che acconsentire alla proposta del furfante e confidare poi che, una volta arrivato a casa, avrebbe trovato modo di fargli vomitare tutto il rubato.

«Accetto» disse.

«Tè, l’agnellino!» ghignò il giardiniere. «Oh, lo immaginavo bene che alla fine avreste capito qual era il vostro interesse… Questo scatolone» soggiunse poi «meglio gli dia fuoco là sul mio immondezzaio: potrebbe dar nell’occhio a qualche curioso. E, adesso, pigliate su le vostre brillantezze e mettetele in saccoccia».

Harry obbedí, e Raeburn lo guardava sotto sotto, mentre la sua cupidità si riaccendeva allo scintillio di qualche gioiello più prelibato, sì che pigliandolo su dal mucchietto del segretario lo faceva passare presto nel suo.

Quand’ebbero finito, ambedue si avviarono verso la porta di casa. Raeburn l’aprì adagino, mise il capo allo spiraglio e gittò un’occhiata sulla strada. Doveva esser deserta, perché, voltatosi, agguantò Harry per la collottola, e tenendogli il capo all’ingiù in modo da non lasciargli scorgere che il pavimento della strada, lo andava spingendo innanzi con energia, su per una strada giù per l’altra, per lo spazio di quasi un minuto e mezzo. Harry dovette contare tre cantonate avanti che quella faccia ladra lo lasciasse andare e, gridandogli: «Ed ora pei fatti vostri!», lo gratificasse pure d’una atletica pedata che lo ruzzolò bocconi in mezzo alla via.

Come riuscì a rimettersi in piedi era tutto stordito, e il sangue gli colava abbondantemente giù dal naso.

Mr. Raeburn era scomparso.

Sul momento l’angoscia e il dolore invasero così profondamente l’animo del poveretto ch’egli sbottò in un gran pianto e rimase lì in mezzo alla strada a singhiozzare. Ma poi, calmatasi la sovreccitazione, cominciò a guardarsi attorno e cercare il nome della strada dove si trovava e che lì in quel punto faceva crocicchio. Era ancora in una parte del West di Londra, poco frequentata, in mezzo a ville e a vasti giardini; ma egli scorse pure alcune persone affacciate alle finestre, le quali dovevano aver assistito alla scena della pedata e del ruzzolone: e, quasi in quel punto, una cameriera venne correndo fuor da una di quelle case, e gli porgeva un bicchier d’acqua. Nello stesso tempo un sudicio pezzente che girandolava in quei pressi s’accostò.

«Poverino», fece la cameriera «come v’ha conciato! Avete i ginocchi pesti, gli abiti a sbrendoli. Lo conoscete quel villanaccio che v’ha ridotto in questa maniera?»

«Se lo conosco!» esclamò Harry, un poco ristorato dall’acqua. «E riuscirò, vedrete, a trascinarlo a casa, a suo marcio dispetto, e gli farò pagar caro il suo sopruso».

«Ma ora venite qui dentro che potrete lavarvi e spazzolarvi un poco» proseguì la cameriera. «Non temete, la mia padrona vi accoglierà con piacere. Qua, vi piglierò su io il cappello… Ma che v’è accaduto, Vergine Santissima? … Avete sparpagliato diamanti per tutta la strada!»

Così era. Una buona metà dei gioielli che ad Harry erano rimasti salvi dalla rapina di Raeburn, capitombolando egli, eran saltati fuori dalla saccoccia, ed ora giacevano lì un’altra volta per terra. Poteva ringraziare il cielo che la ragazza era stata svelta a scorgerli, ché poteva capitargli di peggio, tanto che il ricuperare adesso quei pochi gli parve così gran cosa quanto l’aver perduto il resto. Ma, ahimè, ecco che mentre son intenti a raccogliere il disgraziato tesoro, il pezzente, che li guatava, s’avventa su di loro, con un colpo delle braccia rovescia per terra lui e la cameriera, piglia su due manciate di gioielli a casaccio e se la dà a gambe con rapidità fulminea.

Harry, rialzatosi precipitosamente, si slancia gridando dietro al ladro, ma questi, assai lesto di gamba e probabilmente assai pratico dei luoghi, di lì a poco, svolta una cantonata e dispare alla loro vista.

Nella più profonda costernazione, Harry tornò sul posto della disgrazia. La fanciulla era là che lo attendeva. Gli porse il cappello e il rimanente dei diamanti che aveva raccolto da terra. Harry la ringraziò e salutò di cuore, poi, recatosi alla più vicina stazione di cab, giacché ora non era più in vena di economie, saltò entro un di quelli e si fe’ condurre in Eaton Place.

Colà arrivato trovò tutta la casa per aria. In anticamera, i domestici in crocchio non seppero trattenere i segni di contentezza all’apparire della sparuta figura del segretario. Il quale passò lor davanti con un’aria dignitosa e impettita quale solo egli sapeva assumere in così gravi momenti, e s’avviò verso il salotto della signora. Ma, appena aperta la porta, gli appare una scena stupefacente, e anche, diciamolo, alquanto poco rassicurante per lui.

Il Generale, sua moglie e Charlie Pendragon stavano discorrendo in gruppo, animatamente e con gravità intorno a cosa che pareva della massima importanza. Harry comprese subito che a lui, oramai, poco rimaneva da spiegare, perché certamente, una piena confessione della frode tentata a danno della sua saccoccia doveva esser stata fatta al Generale, e del fiasco di tutto il piano di rapina. E tutti insieme, ora, eran lì che facevano causa comune contro il comun danno.

«Dio sia lodato, eccolo finalmente!» esclamò Lady Vandeleur al veder comparire il segretario. «Lo scatolone, Harry, lo scatolone!»

Harry s’era fermato in faccia a loro muto ed affranto.

«Parla!» gridò lei. «Dov’è lo scatolone?»

E gli uomini ad appoggiar la domanda con gesti minacciosi.

Harry cavò di saccoccia una manciata di gioielli. Era bianco come un cencio.

«È tutto quello che rimane» sospirò. «Ma vi giuro che non fu per colpa mia… Se avete la bontà di aspettare, quantunque una parte sia ormai perduta, com’io temo, irreparabilmente, l’altra, di sicuro, la potremo ricuperare».

«Signora», entrò a dire il Generale «voi potete aver fatto debiti per cinquanta volte tanto, potete avermi rubato il diadema e l’anello di mia madre che, alla fin delle fini, v’avrei anche perdonato. Ma voi m’avete sottratto il Diamante del Rajà, signora mia, l’Occhio della Luce, l’Orgoglio di Kashgar!… Voi m’avete rubato il Diamante del Rajà!» gridò levando le mani al cielo «e fra di noi, signora, tutto è finito!»

Al che la donna rispose:

«Generale, questo discorso, vi giuro, è dei più amabili m’avete tenuto finora; e, nella presente rovina, io mi chiamo ancor fortunata se esso potrà almeno aver per effetto di liberarmi di voi. Spesso m’avete rinfacciato che io vi ho sposato per il vostro danaro: ebbene, vi dirò che da un pezzo sono già amaramente pentita di un tale cambio. Per modo che se foste ancor uomo da moglie e possedeste un diamante più grosso della vostra testa, sconsiglierei persino la mia portinaia di sposare un disgraziato come voi. Quanto a te, Harry,» continuò volgendosi al segretario «d’abilità ce n’hai mostrate abbastanza qua dentro, e noi siamo convinti che tu manchi di virilità, buon senso e dignità: per cui meglio te ne vada e non ti faccia più vedere. S’è pel tuo stipendio, potrai metterti in lista fra i creditori del fallimento del fu mio marito».

Harry aveva appena afferrato il senso di quelle parole, che il Generale gli fu addosso con una scarica più formidabile.

«E intanto» proruppe costui «mi seguirete al prossimo Ispettore di polizia. Voi potete aver ingannato un soldato sempliciotto come me, ma l’occhio della legge saprà chiarire i vostri turpi raggiri. Fossi pur ridotto a mangiar cavoli a cagione degli intrighi combinati fra voi e mia moglie, vo’ almeno che voi siate premiato per le vostre nobili fatiche. E Dio certo non mi negherà questa grande soddisfazione di veder voi a mangiare pane e veleno per tutto il tempo di vostra vita!»

Così detto, trascinò Harry fuor del salotto, lo spinse giù per le scale e lungo la strada, finché arrivarono al posto di polizia del distretto.

 

Qui (dice il mio autore arabo) ha termine la deplorevole storia dello scatolone da nastri. Ma, per lo sventurato segretario, il difficile era avviarsi a una vita nuova e più dignitosa. La polizia fu facilmente persuasa della sua innocenza. Egli fornì tutti gli schiarimenti e gli aiuti che potevano indirizzarla nelle sue ricerche, e ricevette pure delle congratulazioni da uno dei capi per l’onestà e la schiettezza del suo procedere. Parecchie persone s’interessarono alle sue disgrazie, e dopo qualche tempo ebbe a ereditare una somma di danaro da una zia non maritata che abitava nel Worcestershire. Sul che egli sposò Prudenzia e fe’ vela per Bendigo, o, secondo altra versione, per Trincomalee, contento come una pasqua e pieno il capo di progetti.