Racconto di Italo Calvino

 

Presentandosi a noi con la figura del Cavaliere di Coppe – un giovane roseo e biondo che sfoggiava un mantello raggiante di ricami a forma di sole, e offriva con la mano protesa un dono come quelli dei Re Magi – il nostro commensale voleva probabilmente informarci della sua condizione facoltosa, della sua inclinazione al lusso e alla prodigalità, e pure – col mostrarsi a cavallo – d’un suo spirito d’avventura, sia pur mosso – giudicai io, osservando tutti quei ricami fin sulla gualdrappa del destriero – più dal desiderio d’apparire che da una vera vocazione cavalleresca.
Il bel giovane fece un gesto come per richiedere tutta la nostra attenzione e cominciò il suo muto racconto disponendo tre carte in fila sul tavolo: il Re di Denari, il Dieci di Denari e il Nove di Bastoni. L’espressione luttuosa con cui aveva deposto la prima di queste tre carte, e quella gioiosa con cui mostrò la carta seguente, parevano volerci far comprendere che, suo padre essendo venuto a morte, – il Re di Denari rappresentava un personaggio leggermente più anziano degli altri e dall’aspetto posato e prospero, – egli era entrato in possesso d’una cospicua eredità e subito s’era messo in viaggio. Quest’ultima proposizione la deducemmo dal movimento del braccio nel buttare la carta del Nove di Bastoni, la quale – con l’intrico di rami protesi su una vegetazione di foglie e fiorellini selvatici – ci ricordava il bosco che avevamo or è poco attraversato. (Anzi, a chi scrutasse la carta con occhio più acuto, il segmento verticale che incrocia gli altri legni obliqui suggeriva appunto l’idea della strada che penetra nel folto della foresta).
Dunque, l’inizio della storia poteva essere questo: il cavaliere, appena seppe d’avere i mezzi per brillare nelle corti più sfarzose, s’affrettò a mettersi in cammino con una borsa colma di monete d’oro, per visitare i più famosi castelli dei dintorni, forse col proposito di conquistarsi una sposa d’alto rango; e accarezzando questi sogni, s’era inoltrato nel bosco.
A queste carte in fila, se ne aggiunse una che annunciava certamente un brutto incontro: La Forza. Nel nostro mazzo di tarocchi questo arcano era rappresentato da un energumeno armato, sulle cui malvage intenzioni non lasciavano dubbi l’espressione brutale, la clava mulinata in aria, e la violenza con cui stendeva al suolo un leone con un colpo secco come si fa con i conigli. Il racconto era chiaro: nel cuore del bosco il cavaliere era stato sorpreso dall’agguato d’un feroce brigante. Le più tristi previsioni furono confermate dalla carta che venne poi, cioè l’arcano dodicesimo, detto Il Penduto, dove si contempla un uomo in brache e camicia, legato a testa in basso, appeso per un piede. Riconoscemmo nell’appeso il nostro giovane biondo: il brigante l’aveva spogliato d’ogni avere, e lasciato a penzolare da un ramo, a testa in giù.
Respirammo di sollievo alla notizia che ci recò l’arcano La Temperanza, posato sul tavolo dal nostro commensale con espressione di riconoscenza. Da esso apprendemmo che l’uomo penzoloni aveva sentito un passo avvicinarsi e il suo occhio capovolto aveva visto una fanciulla, forse figlia d’un boscaiolo o d’un capraio, che avanzava, nudi i polpacci, per i prati, reggendo due brocche d’acqua, certo di ritorno dalla fonte. Non dubitammo che l’uomo a testa in giù venisse liberato e soccorso e restituito alla sua positura naturale da quella semplice figlia dei boschi. Quando vedemmo calare l’Asso di Coppe, su cui era disegnata una fonte che scorre tra muschi fioriti e frulli d’ali, fu come se sentissimo lì vicino il fiottare d’una sorgente e l’ansare dell’uomo che si dissetava bocconi.

Ma ci sono fonti, – qualcuno tra noi certo pensò, – che, appena se ne beve, accrescono la sete, anziché placarla. Era prevedibile che tra i due giovani s’accendesse – appena il cavaliere avesse superato il suo capogiro – un sentimento che andava al di là della gratitudine (da una parte) e della pietà (dall’altra), e che questo sentimento trovasse subito modo d’esprimersi – complice l’ombra del bosco – in un abbraccio sull’erba dei prati. Non per nulla la carta che venne dopo fu un Due di Coppe ornato dal cartiglio «amor mio» e fiorito di nontiscordardimé: indizio più che probabile d’un incontro amoroso.
Già ci disponevano – soprattutto le dame della compagnia – a goderci il seguito d’una tenera vicenda amorosa, quando il cavaliere posò un’altra carta di Bastoni, un Sette, dove tra gli scuri tronchi della foresta pareva di veder allontanarsi la sua ombra sottile. Non c’era da illudersi che le cose fossero andate altrimenti: l’idillio boschivo era stato breve, povera giovane, il fiore colto sul prato e lasciato cadere, l’ingrato cavaliere nemmeno si volta indietro a dirle addio.
A questo punto era chiaro che cominciava una seconda parte della storia, forse con un intervallo di tempo in mezzo: il narratore aveva infatti cominciato a disporre altri tarocchi in una nuova fila, affiancata alla prima, sulla sinistra, e posò due carte, L’Imperatrice e l’Otto di Coppe. L’improvviso cambiamento di scena ci lasciò sconcertati per un momento: ma la soluzione non tardò a imporsi – credo – a tutti noi, ed era che il cavaliere avesse finalmente trovato ciò che andava cercando, una sposa d’alto e dovizioso lignaggio, quale quella che vedevamo lì effigiata, una testa coronata addirittura, col suo scudo di famiglia e la sua faccia insipida, – e anche un po’ più vecchia di lui, come notarono certamente i più maligni tra noi, – e un vestito tutto ricamato d’anelli intrecciati come a dire: «sposami sposami». Invito prontamente raccolto, se è vero che la carta di Coppe suggeriva un banchetto di nozze, con due file di convitati che brindavano ai due sposi in fondo al tavolo dalla tovaglia inghirlandata.
La carta che fu posata poi, il Cavaliere di Spade, annunciava, comparendo in tenuta di guerra, un imprevisto: o un messaggero a cavallo aveva fatto irruzione nella festa portando una notizia inquietante, o lo sposo in persona aveva abbandonato il banchetto di nozze per accorrere armato nel bosco a un misterioso richiamo, o forse le due cose insieme: lo sposo era stato avvertito di un’apparizione imprevista e subito aveva imbracciato le armi ed era saltato in sella. (Fatto esperto dalla passata avventura, egli non metteva il naso fuori di casa se non armato di tutto punto).
Attendevamo impazienti un’altra carta più esplicativa; e venne Il Sole. Il pittore aveva rappresentato l’astro del giorno nelle mani d’un bambino che corre, anzi vola sopra un vario e spazioso paesaggio. L’interpretazione di questo passo del racconto non era facile: poteva voler dire semplicemente «era una bella giornata di sole» e in questo caso il nostro narratore sprecava le sue carte per riferirci particolari inessenziali. Forse più che sul significato allegorico della figura conveniva soffermarsi su quello letterale: un bambino seminudo era stato visto correre nelle vicinanze del castello dove si celebravano le nozze, ed era per inseguire quel monello che lo sposo aveva disertato il banchetto.

Ma non andava trascurato l’oggetto che il bambino trasportava: quella testa raggiante poteva contenere la soluzione dell’enigma. Tornando a posare lo sguardo sulla carta con cui il nostro eroe s’era presentato, ripensammo ai disegni o ricami solari che egli portava sul mantello quand’era stato attaccato dal brigante: forse quel mantello, che il cavaliere aveva dimenticato nel prato dei suoi fugaci amori, lo si vedeva ora sventolare per la campagna come un aquilone, ed era per recuperarlo che egli si era lanciato all’inseguimento del monello, oppure per la curiosità di scoprire come mai era finito là, cioè quale legame intercorreva tra il mantello, il bambino e la giovane del bosco.
Questi interrogativi speravamo ci fossero chiariti dalla carta seguente, e quando vedemmo che essa era La Giustizia ci convincemmo che in quest’arcano – il quale non mostrava soltanto, come nei comuni mazzi di tarocchi, una donna con la spada e la bilancia, ma anche, sullo sfondo (oppure, a seconda di come si guardava, su di una lunetta sovrastante la figura principale) un guerriero a cavallo (o un’amazzone?) in armatura, che muove all’assalto, – era racchiuso uno dei capitoli più fitti d’avvenimenti della nostra storia. Non ci restava che azzardare delle congetture. per esempio: mentre stava per raggiungere il monello con l’aquilone, l’inseguitore s’era visto sbarrare il passo da un altro cavaliere, armato di tutto punto.
Cosa potevano essersi detti? Tanto per cominciare: – Chi va là!
E il cavaliere sconosciuto s’era scoperto i; viso, un viso di donna nel quale il nostro commensale aveva riconosciuto la sua salvatrice del bosco, fatta più piena e risoluta e calma, con un melanconico sorriso appena accennato sulle labbra.
– Che mai cerchi da me? – egli doveva averle allora chiesto.
– Giustizia! – aveva detto l’amazzone. (La bilancia appunto alludeva a questa risposta).
Anzi: a pensarci bene, l’incontro poteva esser avvenuto così: un’amazzone a cavallo era uscita dal bosco, alla carica (figura sullo sfondo o lunetta) e gli aveva gridato: – Alto là! Sai chi stati inseguendo?
– Chi mai?
– Tuo figlio! – aveva detto la guerriera scoprendosi il volto (figura in primo piano).
– Che posso fare? – doveva aver domandato il nostro, preso da un rapido e tardivo rimorso.
– Affrontare il giudizio – (bilancia) – di Dio! Difenditi! – e aveva (spada) brandito la spada.
«Ora ci racconterà il duello», pensai, e difatti la carta buttata giù in quel momento fu lo sferragliante Due di Spade. Volavano tagliuzzate le foglie del bosco e le piante rampicanti s’attorcigliavano alle lame. Ma lo sguardo sconfortato che il narratore rivolgeva a questa carta non lasciava dubbi sull’esito: la sua avversaria si rivelava una spadaccina agguerrita; toccava a lui, adesso, giacere sanguinante in mezzo al prato.
Rinviene, apre gli occhi, e cosa vede? (Era la mimica – un po’ enfatica, a dire il vero – del narratore che ci invitava ad attendere la carta seguente come una rivelazione). La Papessa: misteriosa figura monacale incoronata. Era stato soccorso da una monaca? Gli occhi con cui fissava la carta erano pieni di raccapriccio. Una strega? Egli levava le mani supplichevoli in un gesto di terrore sacrale. La gran sacerdotessa d’un culto segreto e sanguinario?

– Sappi che nella persona della fanciulla tu hai offeso – (cos’altro poteva avergli detto, la papessa, per provocare in lui quella smorfia di terrore?) – tu hai offeso Cibele, la dea a cui è sacro questo bosco. Ora sei caduto in nostra mano.
E cosa poteva aver risposto lui, se non un supplice balbettìo: – Espierò, propizierò, mercè…
– Ora il bosco ti avrà. il bosco è perdita di sé, mescolanza. Per unirti a noi devi perderti, strappare gli attributi di te stesso, smembrarti, trasformarti nell’indifferenziato, unirti allo stuolo delle Ménadi che corre urlando nel bosco.
– No! – era il grido che vedemmo uscire dalla sua gola ammutolita, ma già l’ultima carta completava il racconto, ed era l’Otto di Spade, le lame taglienti delle scarmigliate seguaci di Cibele s’avventavano addosso a lui, straziandolo.