Racconto di Johann Wolfgang Goethe

 

Redazione – Nel 1832 veniva pubblicata la prima edizione del poema drammatico “Faust” ad opera di uno dei più grandi interpreti della cultura e della letteratura tedesca, Johann Wolfgang von Goethe, nato a Francoforte sul Meno il 28 agosto 1749. Goethe lavorò alla stesura del Faust per ben sessant’anni, dal 1772 al 1831. Quando ebbe terminato si sorprese egli stesso della complessità dell’opera ed espresse la volontà di renderla al pubblico solo dopo la sua morte, che avvenne nel 1832.

 

 

Il SIGNORE, le LEGIONI CELESTI, indi MEFISTOFELE. I tre ARCANGELI precedono.

 

RAFAELE. Il Sole risuona, come da antico, fra l’emula armonia delle sfere fraterne, e compie il prescritto suo viaggio coll’andamento della folgore. Il suo aspetto dà vigore agli angeli, ma niuno può scrutare il suo profondo. Le alte, incomprensibili opere del Signore sono splendide come nel primo lor giorno.

GABRIELE. E veloce, incomprensibilmente veloce si rivolve nella sua magnificenza la terra. Il luminoso sereno del cielo si alterna coll’immenso orrore della notte; il mare leva spumando le sue larghe correnti sul vertice inaccesso degli scogli; e gli scogli e il mare sono via rapiti nell’eterno, infaticabile corso delle sfere.

MICHELE. E a gara le procelle fremono dal mare alla terra e dalla terra al mare, e imperversando fecondano intorno intorno le forze generatrici delle cose. Là giù il corrusco sterminio balena innanzi le vie del fulmine. Ma i tuoi messaggeri, o Signore, adorano il placido cammino del tuo giorno.

A TRE. Il tuo aspetto dà vigore agli angeli, ma niuno può scrutare il tuo profondo; e le grandi tue opere sono splendide come nel primo lor giorno.

MEFISTOFELE. Poiché, o Signore, ti ci fai un po’ da presso, e domandi come vanno le cose di laggiù, e solevi già un tempo star meco volentieri, — ecco, ti appaio innanzi io pure fra la torma de’ tuoi servitori. Scusami, io non saprei dire alte cose; non se avessi a tirarmi addosso le beffe di tutto il corteggio. E il mio piagnisteo ti moverebbe certo a riso, se tu non fossi già di lunga mano svezzato dal ridere. Di Soli e di Mondi non so che me ne dire, e sol veggio come gli uomini stentino e tormentino sé medesimi. Quel deicino del mondo si rimane perpetuamente del medesimo conio, ed è oggidì quello stravagante ch’egli era nel primo suo giorno. Forse ei vivrebbe un po’ meglio se tu non gli avessi dato non so che barlume della luce del cielo ch’egli nomina ragione, e non ne usa che per imbestiarsi più di qualunque bestia. In vero egli mi somiglia, con tua buona pace, una di quelle cavallette dalle gambe lunghe, che volano sempre innanzi solo per querelarti? Non è, al parer mio, sepolte nell’erba, cantano la loro vecchia canzoncina: e si giacesse egli pur sempre nell’erba! Ei va a ficcare il naso in ogni letamaio.

IL SIGNORE. Non hai tu altro da dire? e mi verrai tu sempre innanzi solo per querelarti? Non è, al parer mio, nulla in sulla terra che vada bene?

MEFISTOFELE. Nulla, Signore! Al parer mio, tutto ci va, come al solito, fieramente alla peggio. Gli uomini nelle immense loro miserie mi fanno pietà; e invero ti dico che non mi regge ormai più l’animo di tribolare quei meschini…