Racconto di Dino Buzzati

 

Tra le case pencolanti, le balconate a traforo marce di polvere, gli anditi fetidi, le pareti calcinate, gli aliti della sozzura annidata in ogni interstizio, sola in mezzo a una via io vidi a Porto Said una figura strana. Ai lati, lungo i piedi delle case, si muoveva la gente miserabile del quartiere; e benché a pensarci bene non fosse molta, pareva che la strada ne formicolasse, tanto il brulichìo era uniforme e continuo. Attraverso i veli della polvere e i riverberi abbacinanti del sole, non riuscivo a fermare l’attenzione su alcuna cosa, come succede nei sogni. Ma poi, proprio nel mezzo della via (una strada qualsiasi identica alle mille altre, che si perdeva a vista d’occhio in una prospettiva di baracche fastose e crollanti) proprio nel mezzo, immerso completamente nel sole, scorsi un uomo, un arabo forse, vestito di una larga palandrana bianca, in testa una specie di cappuccio – o così mi parve – ugualmente bianco. Camminava lentamente in mezzo alla strada, come dondolando, quasi stesse cercando qualcosa, o titubasse, o fosse anche un poco storno. Si andava allontanando tra le buche polverose sempre con quel suo passo d’orso, senza che nessuno gli badasse e l’insieme suo, in quella strada e in quell’ora, pareva concentrare in sé con straordinaria intensità tutto il mondo che lo contornava. Furono pochi istanti. Solo dopo che ne ebbi tratto via gli sguardi mi accorsi che l’uomo, e specialmente il suo passo inconsueto mi erano di colpo entrati nell’animo senza che sapessi spiegarmene la ragione. ” Guarda che buffo quello là in fondo! ” dissi al compagno, e speravo da lui una parola banale che riportasse tutto alla normalità (perché sentivo essere nata in me certa inquietudine). Ciò dicendo diressi ancora gli sguardi in fondo alla strada per osservarlo. “Chi buffo?” fece il mio compagno. Io risposi: “Ma sì, quell’uomo che traballa in mezzo alla strada “. Mentre dicevo così l’uomo disparve. Non so se fosse entrato in una casa, o in un vicolo, o inghiottito dal brulichìo che strisciava lungo le case, o addirittura fosse svanito nel nulla, bruciato dai riverberi meridiani. ” Dove? dove? ” disse il mio compagno e io risposi: ” Era là, ma adesso è scomparso “. Poi risalimmo in macchina e si andò in giro benché fossero appena le due e facesse caldo. L’inquietudine non c’era più e si rideva facilmente per stupidaggini qualsiasi, fino a che si giunse ai confini del borgo indigeno dove i falansteri polverosi cessavano, cominciava la sabbia e al sole resistevano alcune baracche luride, che per pietà speravo fossero disabitate. Invece, guardando meglio, mi accorsi che un filo di fumo, quasi invisibile tra le vampate del sole, saliva su da uno di quei tuguri, alzandosi con fatica al cielo. Uomini dunque vivevano là dentro, pensai con rimorso, mentre rimuovevo un pezzetto di paglia da una manica del mio vestito bianco. Stavo così gingillandomi con queste filantropie da turista quando mi mancò il respiro. ” Che gente! ” stavo dicendo al compagno. ” Guarda quel ragazzetto con una terrina in mano, per esempio, che cosa spera di… ” Non terminai perché gli sguardi, non potendo sostare per la luce su alcuna cosa e vagando irrequieti, si posarono su di un uomo vestito di una palandrana bianca, che se n’andava dondolando al di là dei tuguri, in mezzo alla sabbia, verso la sponda di una laguna. ” Che ridicolo ” dissi ad alta voce per tranquillizzarmi. “è mezz’ora che giriamo e siamo capitati nello stesso posto di prima! Guarda quel tipo, quello che ti dicevo! “Era lui infatti, non c’era dubbio, con il suo passo vacillante, come se andasse cercando qualcosa, o titubasse, o fosse anche un poco storno. E anche adesso voltava le spalle e si andava allontanando adagio, chiudendo – mi pareva- una fatalità paziente e ostinata. Era lui; e l’inquietudine rinacque più forte perché sapevo bene che quello non era il posto di prima e che l’auto, pur facendo giri viziosi, si era allontanata di qualche chilometro, la qual cosa un uomo a piedi non avrebbe potuto. Eppure l’arabo indecifrabile era là, in cammino verso la sponda della laguna, dove non capivo che cosa potesse cercare. No, egli non cercava nulla, lo sapevo perfettamente. Di carne ed ossa o miraggio, egli era comparso per me, miracolosamente si era spostato da un capo all’altro della città indigena per ritrovarmi e fui consapevole (per una voce che mi parlava dal fondo) di una oscura complicità che mi legava a quell’essere. ” Che tipo? ” rispose il compagno spensierato. ” Quel ragazzo col piatto, dici? ” ” Ma no! ” feci con ira. ” Ma non lo vedi là in fondo? Non c’è che lui, quello lì che… che… ” Era un effetto di luce, forse, un’illusione banale degli occhi, ma l’uomo si era ancora dissolto nel nulla, sinistro inganno. In realtà le parole mi si ingorgavano in bocca. Io balbettavo, smarrito fissando le sabbie vuote. ” Tu non stai bene ” mi disse il compagno. ” Torniamo al piroscafo. ” Allora cercai di ridere e dissi: ” Ma non capisci che scherzavo? “. Alla sera partimmo, la nave scese per il canale verso il Mar Rosso, in direzione del Tropico e nella notte l’immagine dell’arabo mi restava fissa nell’animo, mentre inutilmente tentavo di pensare alle cose di tutti i giorni. Mi pareva anzi oscuramente di seguire in un certo modo determinazioni non mie, mi mettevo addirittura in mente che l’uomo di Porto Said non fosse estraneo alla cosa, quasi che ci fosse stato in lui il desiderio di indicarmi le strade del sud, che il suo barcollare, i suoi tentennamenti d’orso fossero ingenue lusinghe, sul tipo di certi stregoni. Andò la nave e a poco a poco mi convinsi di essere stato in errore: gli arabi si vestono pressappoco tutti uguali, mi ero evidentemente confuso, complice la fantasia sospettosa. Tuttavia sentii ritornare vaga eco di disagio il mattino che approdammo a Massaua. Quel giorno me ne andai girando solo, nelle ore più calde, e mi fermavo agli incroci per esplorare attorno. Mi sembrava di fare una specie di collaudo, come attraversare un ponticello per vedere se tenga. Sarebbe ricomparso l’individuo di Porto Said, uomo o fantasma che fosse? Girai per un’ora e mezza e il sole non mi dava pena (il sole celebre di Massaua) perché la prova sembrava riuscire secondo le mie speranze. Mi spinsi a piedi attraverso Taulud, mi fermai a perlustrare la diga, vidi arabi, eritrei, sudanesi, volti puri od abbietti, ma lui non vidi. Lietamente mi lasciavo cuocere dal caldo, come liberato da una persecuzione. Poi venne la sera e si ripartì per il meridione. I compagni di viaggio erano sbarcati, la nave era quasi vuota, mi sentivo solo ed estraneo, un intruso in un mondo di altri. Gli ormeggi erano stati tolti, la nave cominciò a scostarsi lentamente dalla banchina deserta, nessuno c’era a salutare e d’un tratto mi passò per la mente che in fondo il fantasma di Porto Said in qualche modo si era occupato di me, sia pure per angustiarmi, meglio che niente. Sì, egli mi aveva fatto paura con le sue sparizioni magiche, nello stesso tempo però c’era un motivo di orgoglio. L’uomo infatti era venuto per me (il mio compagno di passeggiata non lo aveva neppure notato). Considerato a distanza, quell’essere mi risultava adesso come una personificazione, racchiudente il segreto stesso dell’Africa. Tra me e questa terra c’era dunque, prima che lo sospettassi, un legame. Era venuto a me un messaggero, dai regni favolosi del sud, a indicarmi la via? La nave era già a duecento metri dalla banchina ed ecco una piccola figura bianca muoversi sull’estremità del molo. Solissimo sulla striscia grigia di cemento, si allontanava lentamente – mi parve – barcollando come se titubasse o andasse cercando qualcosa, o fosse anche un poco storno. Il cuore mi cominciò a battere. Era lui, ne fui sicuro, chissà se uomo o fantasma, probabilmente (ma non potevo distinguere a motivo della distanza) mi voltava le spalle, se ne andava in direzione del sud, assurdo ambasciatore di un mondo che avrebbe potuto essere anche mio. Ed oggi, ad Harar, finalmente l’ho incontrato di nuovo. Io sono qui che scrivo, nella casa di un amico piuttosto isolata, il ronzio del Petromax mi ha riempito la testa, i pensieri vanno su e giù come le onde, forse la stanchezza, forse l’aria presa in macchina. No, non è più paura, come avvenne presso la laguna di Porto Said, è invece come sentirsi deboli, inferiori a ciò che ci aspetta. L’ho rivisto oggi, mentre perlustravo i labirinti della città indigena. Già camminavo da mezz’ora per quei budelli, tutti uguali e diversi, e c’era luce bellissima dopo un temporale. Mi divertivo a gettare un’occhiata nei rari pertugi, dove si aprono cortiletti da fiaba, chiusi come in minuscoli fortilizi tra muri rossi di sassi e di fango. I viottoli erano per lo più deserti, le case (per così dire) silenziose, alle volte veniva in mente che fosse una città morta, sterminata dalla peste, e che non ci fosse più via d’uscita; la notte ci avrebbe colti alla ricerca affannosa della liberazione. Facevo questi pensieri quando lui mi riapparve. Per una combinazione la stradicciola ripida per dove scendevo non era tortuosa come le altre ma abbastanza diritta, cosicché se ne poteva scorgere un’ottantina di metri. Lui camminava tra i sassi, barcollando più che mai come un orso e volgendo la schiena si allontanava, estremamente significativo: non proprio tragico e nemmeno grottesco, non saprei proprio come dire. Ma era lui, sempre l’uomo di Porto Said, il messaggero di favolosi regni, che non mi potrà più lasciare. Corsi giù tra i sassi scoscesi, con la maggiore lestezza possibile. Questa volta finalmente non mi sarebbe sfuggito, due muri rossi e uniformi rinserravano la stradicciola e non vi erano porte. Corsi fino a che il vicolo faceva un’ansa e mi aspettavo, alla svolta, di trovarmi l’uomo a non più di tre metri. Invece non c’era. Come le altre volte egli era svanito nel nulla. L’ho rivisto più tardi, sempre uguale, che si allontanava ancora per uno di quei budelli, non verso il mare ma verso l’interno. Non gli sono più corso dietro. Sono rimasto fermo a guardarlo, con una vaga tristezza, finché è sparito in un vicolo laterale. Che cosa voleva da me? Dove voleva condurmi? Non so chi tu sia, se uomo, fantasma, o miraggio, ma temo che ti sia sbagliato. Non sono, ho paura, colui che tu cerchi. La faccenda non è molto chiara ma mi pare di avere capito che tu vorresti condurmi più in là, ogni volta più in là, sempre più nel centro, fino alle frontiere del tuo incognito regno. Lo capisco e sarebbe anche bello. Tu sei paziente, tu mi aspetti ai bivi solitari per insegnarmi la strada, tu sei veramente discreto, tu fai perfino mostra di fuggirmi, con diplomazia tutta orientale, e non osi neppure rivelare il tuo volto. Tu vuoi soltanto farmi capire – mi sembra – che il tuo monarca mi aspetta in mezzo al deserto, nel palazzo bianco e meraviglioso, vigilato da leoni, dove cantano fontane incantate. Sarebbe bello solo vorrei proprio. Ma la mia anima è deprecabilmente timida, invano la redarguisco, le sue ali tremano, i suoi dentini diafani battono appena la si conduce verso la soglia delle grandi avventure. Così sono fatto, purtroppo, e ho davvero paura che il tuo re sprechi il suo tempo ad aspettarmi nel palazzo bianco in mezzo al deserto, dove probabilmente sarei felice. No, no, in nome del Cielo. Sia come sia, o messaggero, porta la notizia che io vengo, non occorre neanche che tu ti faccia vedere ancora. Questa sera mi sento veramente bene, sebbene i pensieri ondeggino un poco, e ho preso la decisione di partire (Ma sarò poi capace? Non farà storie poi la mia anima al momento buono non si metterà a tremare, non nasconderà la testa tra le pavide ali dicendo di non andare più avanti?).