Racconto di Cesare Pavese

I.

Sotto le montagne, a una svolta scura della strada, c’era questo alberghetto. Giusto odiava le comitive in gita e serviva in questi casi soltanto per equità verso la sorella. Perciò, inoltrandosi l’estate, si faceva sempre più scontroso.
Una sera deserta di ottobre, il giovanotto si versò un bicchiere da una bottiglia ammezzata, abbassò la lampada e sedette, coi piedi sul tavolo, a scorrere un vecchio giornale. Gli mancava qualcuno dei suoi clienti consueti, per dar sugo a un’oretta. – Chiudi bene la porta, – disse la sorella, – se resti –. Poi s’incamminò senza voglia su dalla scala, sospirando.
Giusto rimase solo col vino e, fissando il giornale, pensò ai fatti suoi. Dietro il banco, lo scaffale dei liquori, in penombra, cigolava: forse era troppo vecchio o ci correva un topo. Da fuori non veniva che l’alito del buio per la finestra socchiusa, e nemmeno si sentiva sciaguattare il torrente, perché l’estate era finita e in fondo ai prati doveva ormai stagnarci la nebbia. Pure, tant’era la pace, si sarebbe detto di sentir rabbrividire l’erba o rotolare qualche pietra. Quando alla fine un grillo si mise a trillare, Giusto si riscosse sulla sedia e prese il bicchiere.
«Stanca lei e stanco io. Lavora troppo? Si sposi e cosi lavorerà con ragione. Ma non la vuole nemmeno un carrettiere».
Giusto si bagnava un’altra volta le labbra, quando uno scarpiccío nel cortile, e voci soffocate, lo fermarono. Si ricordò di aver sentito poco prima vibrare in distanza una macchina e alzò gli occhi. Balenò un viso umano alla finestra, qualcuno disse «sì, sì» in fretta, e la porta si schiuse.
Tenendosi per mano, sgusciarono dentro un giovanotto scarno e guardingo, tutto spalle, e una brunetta dai grossi occhi, stretta in un chiaro impermeabile. Tutti e due si arrestarono sulla soglia, fissando Giusto, in silenzio. La donna strascicava una valigia, e il giovanotto scarmigliato si toccava e ritoccava la fronte.
— Buona sera, – fece Giusto.
Il giovanotto diede un guizzo e, senza venire avanti, chiese aggressivo se c’era benzina.
— E dov’è l’automobile? – disse Giusto.
L’automobile aspettava sullo stradale. S’era fermata da sé. Bisognava far presto.
— Non ho benzina, – rispose Giusto pacato, sbirciando la donna.
Il giovanotto allibì: Giusto lo vide serrare un attimo gli occhi. Apparve un viso esangue sotto la fronte ossuta. Quanto alla donna, s’accasciò sulla valigia, fissando il compagno come appesa a quel viso. – Non dir nulla, non diciamoci nulla, Renato, – sibilò precipitosa, a denti chiusi. —Di chi la colpa? Non fa nulla, non dir nulla. Dove andremo ora, Renato?
Giusto rivolse gli occhi all’uomo e lo trovò che boccheggiava. Gli scappò da ghignare e chiese perché non passavano la notte nell’albergo.
— Non possiamo, – precipitò la donna, – e la macchina? Non possiamo star qui –. Giusto risentito borbottò che non erano poi i primi. – Ma la macchina? – La macchina andiamo a spingerla, io e il signore. È lontano? Di dove vengono? – Dopo molto confondersi e ribattere, ammisero tutti e due di esser diretti in Francia. – Benissimo. Domani mandiamo il primo che passa in bicicletta, a caricarsi un bidone in paese, e loro sono a posto e vanno dove vogliono, ma se nelle montagne restano a secco un’altra volta, più nessuno li cava. – Non si può proprio andare adesso in paese? – Se ho detto no, perdio, dormono via quei del negozio. – Non ascoltarlo, Renato, non credergli, vuole soltanto farci fermare; andiamo via.
Il giovane intanto s’era un po’ ripreso. Chiuse la porta e venne nel mezzo della stanza. Offrì il doppio della retta per la notte, se gli si diceva la verità vera. Si poteva trovar subito la benzina? Giusto fu per sputargli sui piedi, ma s’accorse che il poveretto avvampava; e anche la donna accovacciata, non gli staccava ora gli occhi di dosso, febbrilmente. Scosse il capo e chiamò Tosca. Poi si alzò in piedi e disse forte: – Fino a domani, niente benzina. Vogliamo andare a prender l’auto?
Allora la donna, balzando, respinse col piede la valigia al muro e afferrò il braccio al compagno, supplicando di non lasciarla là, sola. – Qui c’è mia sorella, – disse Giusto. – Ora scende, – e fini il suo bicchiere.
Per tutta la gita, tra il nero dei prati, Giusto non aprì bocca. Incontrata la macchina, accesero i fari e lentamente, pesantemente cominciarono a spingere. A qualche osservazione, che azzardò l’altro, Giusto non rispose, ma borbottò ch’era meglio essersi dimenticata, delle due, la ragazza.
Di ritorno, palpitanti e accaldati, trovarono vuota la saletta. Il caschetto della donna giaceva in terra, presso la valigia, e Giusto lo raccolse. Si fece sotto la scala e sentì le due donne armeggiare di sopra. – Siamo noi, – vociò.
— Non rispondono, – disse un istante dopo, il giovane. Giusto lo rassicurò e gli chiese se adesso volevano andare a dormire.
— Dormire?
— Immagino, – fece Giusto spazientito. – Naturalmente, se la signorina permette.
— Poveretta, – disse l’altro, con una smorfia scarna. – Poveretta. No, non vado a dormire, – e si cacciò una mano nei capelli.
Giusto venne a piccoli passi fino al banco e prese una bottiglia. Ne versò due bicchierini e invitò il giovane. – Cognac, – disse schioccando la lingua. L’altro bevve d’un fiato, ad occhi chiusi. Poi corse su per la scala.

II.

Giusto tornò a sedersi al tavolo, dove aveva gettato il giornale. Per un istante gli ronzarono le orecchie; poi tutto fu silenzio, rotto appena da qualche tonfo e scricchiolio di passi sul soffitto. «Un cane, ci vorrebbe in questo albergo, – pensava. – La gente va e viene, e nessuno ne sa nulla». In quel momento apparve Tosca, malgraziosa e preoccupata.
— Si è buttata sul letto, – disse.
— Lui no?
— Lui è in piedi, che le liscia la mano e guarda per terra.
— Sposati non sono, non ha la fede. Pure non sembrano ragazzi via da casa.
— Lei ha almeno trent’anni; sarà sua sorella.
Giusto fece un sorriso di scherno. – Se hanno paura l’uno dell’altra. Lui non osava nemmeno salire. E non si gira di notte, dimenticandosi la benzina, con una sorella così nervosa.
— Non hanno cenato, – disse Tosca.
— Lo immaginavo. E non hanno nemmeno coperte per passare la montagna.
— Zitto.
Comparve il giovane. Con quella faccia pallida nell’andito della scala, pareva un malato su dal letto.
— Occorre qualcosa?
Quello venne avanti esitando: – La valigia, dov’è la valigia?
Giusto si alzò. – Nessuno l’ha presa –. Andò alla porta, piegandosi. Il giovane corse innanzi: – Faccio io. Faccio io.
— Ma no, – disse Giusto. – Tocca a me. Lei piuttosto deve riempire il registro. Tosca, il registro.
S’incamminò per la scala. L’altro gli venne alle spalle e gli tolse di mano il carico. – Sentite. La signora sta male. Potete darci del latte?
Tosca portò su il latte, agitata. – Non si dorme stanotte, – passò a dire scendendo. – La ragazza ha la febbre.
— Che siano venuti qui per partorire? – canterellò Giusto.
— Villano, – scattò la sorella. – Va’ a letto, va’ a letto.
A quel rimbrotto, Giusto arricciò il naso, divertito, e si dispose a salirsene. – Domani avremo un bambino, – rise, davanti alla camera dei due. – Purché non ce lo lascino qui, – concluse, entrando nella sua.
Lo svegliò a notte alta uno strattone di Tosca. Era stanca, non stava più in piedi: pensasse lui se chiamavano. La donna aveva straparlato, s’era buttata giù dal letto, voleva prender l’automobile. – E il bambino? – Ma che bambino: quei due avevano la tremarella, ne avevano fatta qualcuna, a parlargli improvviso trasaltavano come conigli.
Giusto barbugliando nel buio, rassicurò Tosca e cominciò a vestirsi. Faceva freddo. Si prese il mantello e uscì sul pianerottolo, fermandosi in punta di piedi alla fessura di luce dell’altra camera. Sentì un lungo sospiro e bisbigli. Crollò il capo e discese.
Una volta sotto, andò alla porta, nel barlume della lampada, e la spalancò. Era buio pesto; non si vedeva il cielo. Infreddolito, richiuse e venne a sedersi al tavolo, dov’era ancora la bottiglia.
Passò così più di un’ora, sonacchiando, trasalendo, bagnandosi le labbra qualche volta. Aveva innanzi quel vecchio giornale, ma non riusciva a leggere. A tratto a tratto lo stoppino fumigava.
Intese un passo malsicuro per la scala e apparve nell’ombra la punta rossa di una sigaretta.
— Chi è?
Venne avanti il giovanotto, ancor più pallido, occhi pesti. Cercava da bere. Giusto andò a prendere il cognac. – Dorme la ragazza? – chiese piano.
Si sedettero a fronte e si guardarono in silenzio. Sulle guance del giovane c’era un pelo di due giorni, che gli dava un aspetto ancor più sbattuto. Bevve d’un fiato, senza dir nulla.
— Questo riscalda, – fece Giusto. – Toglie il batticuore. Le donne non lo capiscono.
L’altro piegato su di sé, pareva in ascolto. – Non passa nessuno qui, di notte? – chiese a un tratto, rauco.
— Raramente, – disse Giusto. – Se mai, d’estate, verso il mattino. Carrettieri. Qualche volta, la finanza.
— La finanza? Dove vanno?
— Bevono un bicchiere e ripartono in perlustrazione. Ma non ci sono malviventi da queste parti.
Il giovanotto si alzò in piedi e cominciò a passeggiare. Giusto lo seguì con l’occhio.
— È lontano il confine?
— In macchina, sei ore. Chi ha il passaporto in regola, gli conviene meglio il treno.
— Noi l’abbiamo il passaporto, – s’agitò l’altro. – Preferiamo…
— …dimenticarci la benzina, – fini Giusto.
— Non mi crede?
— Caro signore, il mio mestiere è di credere a tutti. Se arriva in macchina un vecchione con la pelliccia, in compagnia di una monella mal dipinta, e mi dice che son padre e figlia: io gli debbo credere. E se arrivano due senza carte e con l’insonnia, e lui dallo spavento mi vuol pagare per andarsene: io non debbo ficcarci il naso. Ma, da uomo a uomo, posso però osservargli che toccare il confine è niente: passarlo, e con una donna che strilla, è la questione.
Il giovanotto s’era fermato, con le mani nelle tasche. Si portò la destra al capo, mordendosela. Disse piano: – Se le ho dato qualche noia, mi scusi. Non posso rispondere, non posso difendermi. Vorrei soltanto dormire.
Poi si sedette, accasciato. – Mi capisca. Lei non avrà noie, lei non ci conosceva. All’alba partiremo.
Giusto, stizzito, si guardò intorno. Nell’andito della scala gli parve di travedere un lampo d’occhi. Si contenne. –Tutto questo per una donna? – chiese tonto. – Ma che cos’avete fatto?
La testa pallida del giovane si rialzò. Febbrilmente le pupille smorte palpitavano sui tratti ossuti.
— Che cos’avete fatto?

III.

— È sicuro che la ragazza dorma? – continuò Giusto. – Quell’agitazione, quell’ansia di andarsene; e la paura che vi leva il fiato, è possibile che la lascino dormire?
— No, – disse il giovane, – non dorme. È come assopita, e non sogna, ma vede. Vede sempre. Da due notti dormiamo così.
— Vede che cosa?
— Quello per cui fuggiamo.
— La prigione?
— Oh, – bisbigliò il giovane, – se io fossi innocente, entrerei subito in prigione e ci starei degli anni, tutta la vita, pur di sapere che mi han fatto un’ingiustizia. Ma anche lei dovrà entrarci: lei che ci fu costretta; e là dentro nessuno ha pietà: non c’è più giusto e ingiusto. Lo stesso rimorso ci leverà il sonno. Non se lo merita lei: ci fu costretta. E ora deve soffrire ingiustizia e spavento.
Dalla cima della scala venne uno strillo incontenibile:
— Renato, son sola.
Il disgraziato balzò in piedi e fissò Giusto smarrito. – Mi ascoltava? – gli chiese. – Ho la testa che spacca, non so più quel che dico.
— Vada su, – disse Giusto, – ha la febbre più lei che quell’altra. Beva prima –. E gli versò il cognac. L’altro disse qualcosa e si lanciò per la scala.
Tacque presto ogni voce. Giusto volle sedersi e pensare. La lampada stanca lottava esasperata nell’ombra. – E quello vuol andare in Francia, – le disse Giusto. – Come fanno, come fanno?
Allungò la mano per regolare la fiammella, e la vide pallida. Dalle finestre scendeva un chiarore sporco, si scorgevano le sedie e il calendario sulla porta: le fessure sibilavano. Con la bocca impastata Giusto prese il bicchiere, e lo posò svogliato.
Lo svegliò Tosca strepitando con le pianelle. Usciva grigia e spettinata, dalla cucina. Era spenta la lampada e si vedeva ormai chiaro.
— Hanno chiamato questa notte? – Aveva anche lei la voce rauca e intontita. Giusto si scatarrò e si mise in piedi. – Dormivo. Fa un bel freddo.
Andò alla porta e la spalancò. Nell’aria umida e grigia, vide vicino l’automobile bassa dai vetri appannati. – Se si svegliano, falli mangiare. Vado alla Grangia, che mandino a prendere un bidone.
— Chi paga? – disse rapida Tosca.
Ritornò che piovigginava. Trovò la coppia al tavolo, e Tosca che versava il caffè. Al giovane che si voltò in angoscia, strizzò l’occhio. Poi fissò la ragazza.
— Tra poco ci sarà la benzina, – osservò. – Come avete dormito?
Le guance tese si mossero a un sorriso di sfida. – Bene, – disse poi, levando gli occhi.
— Ho sentito che ha avuto febbre. Ci vuole cognac, come fa suo marito.
A questa parola, gli occhi enormi sul piccolo volto s’intorbidarono. Il giovane posò la tazza inquieto. E Giusto continuava che sua sorella quella notte aveva sentito delirare. Stessero attenti, una volta in Francia: cacciarsi in bocca un fazzoletto piuttosto. Tosca stupita si fermò. Rasparono alla porta.
Nel gran silenzio entrò un vecchiotto malvestito, fatto su in un mantelletto militare, strisciando le suole. Con la vocetta catarrosa salutò in giro, portando la mano al berretto e inchinandosi. Tutti lo guardarono incantati: aveva un viso impicciolito dalle rughe, come un bimbo.
— Non è niente, – ruppe Giusto. – Pedrotto vuole il latte.
Mentre il vecchio, scrollandosi l’umido come i cani, veniva al banco, accorse Tosca e gli mescé qualcosa.
— Pedrotto, c’è ancora un passaggio al confine? – chiese Giusto pacato.
Quello gorgogliò nel bicchierino, sbirciandoli.
— Un omo pratico, a piedi, passa sempre, – arrangolò adagio.
— E una donna?
— Secondo.
Giusto chinò il capo tra i due. – Lo volete? – disse piano. – Non gli darete più di cento, e solamente a cosa fatta. Andrà ad attendervi per strada oltre il paese. Ma badate, è più furbo di voi.
Tosca s’era ritirata. – Mia sorella vi preparerà un cesto, – aggiunse Giusto. – Vi dimenticavate anche quest’altra benzina. Avrete tempo di morir di fame. Pensateci bene, una volta nelle sue mani non si torna più indietro.
Il giovanotto girava gli occhi imbarazzato. Allora la donna fissò Giusto e disse forte: – D’accordo.
Il vecchietto uscì fuori. S’alzarono tutti. – E che non vi venga in mente di mostrare il passaporto. – Non l’abbiamo, – disse quella.
L’alba s’era ormai distesa in tanta nebbia, che vaporava stillando alla porta socchiusa. Mentre Tosca e la donna facevano i conti, Giusto uscì col giovanotto che si mordeva le labbra scolorite. Giunse un ragazzo in bicicletta col bidone e tutti insieme lo versarono nel serbatoio. – Sia in gamba al rifornimento, – disse Giusto. – Non rifaccia il disperato –. L’altro sommesso chinò il capo e pagò.
Chetamente Giusto salì a prendere una coperta da letto e la gettò nell’automobile. – Se ci tiene a conservarsela, non la lasci morire di freddo.
Poi lo prese in disparte e gli disse: – Io non c’entro e non so quel che abbiate fatto. Ma ho trent’anni, e ho sempre veduto le donne cavarsela e restarci l’uomo. Non c’è proprio rimedio? – L’altro sorrise torvo: – Quanto ci costa la coperta? – Nulla, – sbottò Giusto e rientrarono.
La ragazza attendeva seduta contro il tavolo. S’era messo il cappello e rifatte le labbra: non pareva più il viso di prima, affilato e segnato. Solo un grave pallore le sprofondava gli occhi, e le sfuggivano riccioli alle tempie. Disse al compagno di pagare Tosca e venne alla porta con la valigia. Giusto scostandosi, la lasciò passare, e poi corse ad aprirle lo sportello. La donna salì.
Giunsero il giovane, e Tosca col cesto. – Quando sarete tra la neve, non fate bere Pedrotto, – raccomandò Giusto, piegandosi nella macchina. – È già porco anche troppo.
Salì il giovane e si mise al volante. La macchina indietreggiò, poi si volse alla strada.
— Addio, – gridò la ragazza.
— Ci ricorderemo sempre di voi, – disse sporgendosi il giovane.
— Farebbero meglio a dimenticarsene, – borbottò Giusto a Tosca che rabbrividiva nella nebbia.