Racconto di Elsa Morante
Il professore insegnava già da vent’anni e la sua vita aveva preso quel ritmo immutabile, al riparo da scosse e da sorprese, che rappresentava un giusto premio alla sua diligenza. Era dimenticato ormai l’entusiasmo dei primi tempi, quando la presenza di un nuovo scolaro significava per lui quasi l’inizio di un’avventura, e il vertiginoso giro dei visi, dei nomi e delle voci lo teneva avvolto in un favoloso mistero, come succede al mago fra le lettere dell’enigma.
Era stato in giovinezza uno spirito impetuoso e curioso, disinteressato e ricco di passioni. Ma ora, calmo e metodico, attento alla sua salute e geloso della propria quiete mentale, rinnegava quei tempi. Aveva imparato a considerare la scolaresca null’altro che una macchina nella quale, con lodevole zelo del resto e con criteri accurati, giorno per giorno introduceva il sapere. La sua figura grassotta e rosea, la sua barbetta, i ricci appena grigi, e quella leggera prominenza del ventre sotto la giacca bene abbottonata emanavano nell’insieme un’aria assennata e dignitosa che gli attirava il rispetto universale. La sua giornata consisteva dunque nelle lezioni di cui, si può dire, aveva imparato a memoria fino i toni della propria voce che esponeva sempre le stesse regole con le stesse parole; nei pasti cucinati dalla vecchia cuoca e assaporati ad ora fissa con piacere sempre crescente; in poche bonarie conversazioni coi colleghi al caffè; e nei sonni tranquilli e ininterrotti nel suo letto di celibe. Egli si era, come suol dirsi, costruito intorno il proprio bozzolo e non solo considerava con orrore l’idea di uscirne, ma si educava lentamente ad ignorare fin l’esistenza di una simile idea.
Un anno però incominciò con pessimi auspici. Egli soffriva d’insonnia, il che non gli era mai più capitato dal tempo degli amori giovanili. Inoltre un male acuto che partiva dal mezzo della sua fronte e, come un meccanismo dalle ruote dentate, girava ronzando nel suo cervello, a un tratto lo interrompeva nel discorrere con un’improvvisa nausea e capogiro. Accresceva il suo malumore la presenza in classe di un nuovo discepolo. Era un ragazzo pallido, che entrava ogni mattina in punta di piedi e si sedeva allo stesso posto, nel primo banco a sinistra, rimanendo là per tutta la lezione a braccia conserte. La cosa più irritante in questo scolaro era che egli portava sempre il berretto in testa, e il professore, a causa di una repulsiva timidezza e antipatia, non osava – è la parola, – fargli osservazioni in proposito. Per lo stesso motivo, egli non aveva mai chiamato alla lavagna lo scolaro, sebbene la scuola fosse incominciata da parecchi giorni, e non aveva neppure cercato il suo nome sul registro. Non sapeva dunque come si chiamasse, e avrebbe potuto fingere d’ignorarne la presenza; senonché i suoi sguardi durante la lezione cadevano sempre là, e gliene derivava un malessere angoscioso. Il fatto è che tutto in quel viso puerile e stranamente disfatto, – dagli occhi neri e umidi sotto la fronte bassa, fra i neri cigli raggiati, alle labbra mute e quasi bianche, – tutto pareva disapprovare il professore, anzi beffarsi di lui. Gli occhi non cessavano di osservarlo con una straordinaria fissità e le labbra erano sempre contratte in un tenue sorriso di scherno. «In nome di Dio, – avrebbe voluto dire il professore, – che cos’hai da disapprovarmi? Quello che spiego è forse inesatto, forse il metodo non ti piace?», ma il semplice formulare fra sé questa domanda subito gli risvegliava quel pungente spasimo in mezzo alla fronte, così che egli vedeva ogni mattina con una sorta di panico lo scolaro pallido entrare e sedersi al solito posto. Un giorno, quella presenza ebbe infine il potere di esasperarlo: un testimone, ecco quel che pareva colui, un testimone malevolo incaricato da qualche tribunale di raccogliere le parole del professore una per una, di notarle, di tendergli tranelli. Questo era: e per un’ora il professore misurò attentamente le proprie frasi, corresse in tempo le parole che stavano per uscirgli di bocca; osservando poi di sbieco, non senza un brivido, quel pallido viso dalle occhiaie nere, per cogliervi un segno di approvazione e di comprensione. Ma no, la piccola bocca si piegava sdegnosa, gli occhi scintillavano di cupo scherno. – Ah, piccolo delinquente! – gridò a un certo punto, fuori di sé, il professore. – Lèvati il berretto, quando sei nella scuola, discolo e villano! So bene che hai sotto il berretto, in mezzo alla fronte, una brutta cicatrice bianca! Ma ti ordino di scoprirti il capo davanti a me, subito; hai capito? – La scolaresca si guardò in giro dubbiosa; infine il primo della classe, antipatico per i suoi modi saccenti di ragazzo ricco, si alzò in piedi: – Scusate signor professore, – disse, – con chi parlate? Nessuno di noi si permetterebbe mai… – Ma già buona parte degli allievi aveva notato che gli occhi del professore, pieni d’odio e di lucida furia, si fissavano sul primo banco a sinistra che, fin dall’inizio dell’anno scolastico, era vuoto. Qualche risata discreta serpeggiò qua e là; ma, proprio in quel momento, il professore, chiusi gli occhi, con un tonfo era scivolato giù dalla cattedra sulla polverosa pedana di legno.
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