Racconto di Giuseppe Ungaretti

 

 

Quando persi mio padre, nel 1890, e avevo solo due anni, mia madre accolse in casa nostra, come una sorella maggiore, una vecchia donna, e fu la mia tenerissima, espertissima fata.

Era venuta tanti anni prima in Egitto dalle Bocche di Cattaro dove risiedeva, ma era per nascita più croata, se possibile, che non sia la gente delle Bocche.

Lo stupore che ci raggiunge dai sogni, m’insegnò lei a indovinarlo.

Nessuno mai si rammenterà quanto se ne rammentava lei, di avventure incredibili, nè meglio di lei le saprà raccontare per invadere la mente e il cuore d’un bambino con un segreto inviolabile che ancora oggi rimane fonte inesauribile di grazia e di miracoli, oggi che quel bimbo è ancora e sempre bimbo, ma bimbo di ottant’anni.

Ho ritrovato Dunja l’altro giorno, ma senza più le grinze d’un secolo d’anni che velandoli le sciupavano gli occhi rimpiccioliti, ma con il ritorno scoperto degli occhioni notturni, scrigni di abissi di luce.

Di continuo ora la vedo bellissima giovane, Dunja, nell’oasi apparire, e non potrà più attorno a me desolarmi il deserto, dove da tanto erravo.

Non ne dubito, prima induce a smarrimento di miraggi, Dunja, ma subito il bimbo credulo assurge a bimbo di fede, per le liberazioni che sempre frutterà la verità di Dunja.

Dunja, mi dice il nomade, da noi, significa universo.

Rinnova occhi d’universo, Dunja.