Racconto di Giuseppe Lipparini

 

Antonino Li Greci entrò a Villa Giulia verso mezzogiorno, scendendo dal carrozzone elettrico che viene da piazza Marina e poi volta lungo il mare. Fece quasi di corsa il primo viale, tra milioni di anemoni variopinti attorno alle erme di marmo; attraversò l’emiciclo nel cui mezzo ride un putto e canta una fontana ed entrò nel pratello ombroso, dove si alzano in tondo i busti dei poeti illustri. L’amica era seduta su un bel sedile di marmo; allora egli respirò e fu tanto più lieto nel vedersi accogliere con un sorriso.

Il prato a quell’ora era deserto. L’ombra cadeva color d’oro verde dai platani annosi che giovani avevano sentito errare per i viali lo spirito armonioso di Wolfango Goethe e avevano ascoltato il canto melodioso dell’abate Meli.

Georgette strinse la mano mollemente al giovane:

— Siete giunto in ritardo, oggi. Domani, per punizione, non mi vedrete.

Il volto ulivigno di lui si oscurò e la sua anima fiera gli balenò così negli occhi che ella rabbrividì e mutò discorso:

— Nessuna notizia dal vostro feudo?

Egli accennò di no col capo. Che glie ne importava? Lercara Friddi era così lontana e l’eredità contestata e la miseria probabile erano cose che non potevano importare a lei. Veramente, importavano poco anche a lui, quando le stava vicino. Egli era magro e snello come un cavallo di sangue e bruno come un’oliva. Il suo buon sangue saraceno serbava l’impeto e il vigore della razza. Ora gli rombava nelle vene come un torrente.

— Ho tardato – disse – per essere libero oggi e tutto per voi. Georgette, non mi torturate più. Il vostro giuoco è perfido e crudele. O oggi o mai più.

Ella si alzò e mosse qualche passo sull’erba corta e folta. Antonino osservò con angoscia il suo corpo formoso e forte, non agile e pure armonioso, il bel seno colmo svelato dai trafori della veste. Tutto gli piaceva in lei: anche il passo troppo molle, anche l’oro artificiale dei capelli, anche il rosso troppo vivo della piccola bocca, anche, e più, l’ombra violetta che le rendeva smisurati i grandi occhi neri.

— Oggi – continuò egli – verrete da me, nella mia palazzina di Monreale. Tutto è pronto per ricevervi. Siete una forestiera venuta a vedere il Pietro Novelli, che è nel grande salone. È un quadro ammirevole, che ogni giorno ha dei visitatori. E poi, che importa? Chi vi conosce, qui? Io stesso, forse, vi conosco? Chi siete voi?

— Come?! – ella fece meravigliata, ridendo. – Il mio nome è scritto anche nel registro del Trinacria. Georgette Lemerre, di Parigi.

— E chi mi assicura che questo sia veramente il vostro nome?

— E che importerebbe a me, se voi vi chiamaste Federico o Ferdinando invece di Antonino?

— Per questo, io vi voglio conoscere veramente; non nel nome, che è vano e mutabile, ma nella vostra anima, che è perfida, e nella vostra carne, che è deliziosa… Tutto il resto, che vale? Avete ragione. Io sono un uomo, voi siete una donna. Voi sapete ben poco di me e meglio sarebbe se non sapeste nulla. Io, poi, non so nulla di voi. Vi ho io mai chiesto se siete vedova o maritata?

— Potrei anche essere ragazza.

— Oh! – egli esclamò, circondandola, con un’occhiata che la fece arrossire di pudore e le diede freddo alla radice dei capelli. – Per quello…

Passarono alcuni ragazzi che andavano a vedere la gabbia delle scimmie. Avevano mazzi di zagare e lasciarono nell’aria un profumo sensuale. Poi tornò il silenzio e solo si sentì fruscìo di fronde e gorgoglìo d’acque nella villa settecentesca di Palermo meravigliosa.

— Ne ho abbastanza – proseguì il giovane – di colloqui e di parole. Io vi amo furentemente appunto perché ho la fortuna di non sapere chi siate. Di tutte le altre donne che mi potrebbero piacere io conosco tutto: la nascita, la parentela, e, magari, il numero dei loro amanti. Ora, io ho sempre sognato di possedere la donna che per me non fosse altro che donna: l’amante il cui bacio non avesse altro sapore che quello che il primo uomo colse sulle labbra della prima donna: la femmina bella che ama e passa…

— Ecco un piacevole problema di fisiologia amorosa; – rise la bella donna. Ma egli la interruppe violento, afferrandole una mano al polso bianco e un poco pingue:

— È un problema – affermò con tono imperativo – di cui voi mi darete la soluzione oggi.

— Volete accompagnarmi all’albergo? – domandò Georgette con un sorriso ambiguo. – Sulla soglia vi darò la risposta.

— Andiamo – consentì egli, inchinandosi con la cortesia cavalleresca ch’è del suo paese. E così uscirono per i vialetti di aranci e di limoni, tra le acque scintillanti al sole e le statue bianche in mezzo agli innumerevoli fiori multicolori. Benché fosse appena marzo il sole siciliano ardeva; pure i due giovani preferirono prendere la via del Foro Italico, lungo il mare azzurro, così azzurro che lo scintillio delle onde pareva oro e argento su uno smalto lucido e cupo. La mole quadrata di Monte Pellegrino limitava di fronte a loro l’orizzonte con linee nette e decise, così che il cielo pareva avanzarsi, tremolando, di qua dal monte, come un cristallo limpido. Sulle gettate degli scogli, nere e sforacchiate come spugne, dentro l’acqua verde fino alle ginocchia, due vecchi coglievano frutti di mare, saltando di qua e di là come giovanetti destri o come lontre in caccia. Altri vecchi sedevano al sole beatamente, o rattoppavano le reti presso le barche in secco. Tutto il golfo si stendeva intorno, azzurro e nitido fino alle punte estreme in mare, fino alla rupe di Gibilrossa in cielo, sotto la vigilia delle grandi montagne nude e aspre che pendono terribili sulla Conca d’Oro e sulla città voluttuosa. Un piroscafo usciva lentamente dal porto, fischiando; e Georgette esclamò:

— Presto partirò anch’io per le vie del mare…

— Non lo dite! – comandò egli con tale asprezza, ch’ella si offese:

— Ma davvero, siete brutale. Io ho paura di voi. Noi non siamo avvezze a questi impeti selvaggi che mi spaventano. Se io vi cedessi, che cosa fareste di me? Io ho più paura della vostra gelosia che di mille spade.

— Siete la solita femmina scaltra, divinamente scaltra che io amo e voglio. Paura? E mi amereste dunque, voi, se non vi facessi paura? Perché accettereste l’amore di un ignoto, se non aveste paura di me? Ma se questa paura è il più squisito, il più voluttuoso fascino dell’amore! Anch’io, in un certo senso, ho paura di voi e del vostro mistero. Ma io sento ancora in me il sangue dei miei antenati del deserto, che rapivano dalle oasi le donne ignote e non conoscevano altro che il sapore delle loro labbra odorose…

Così parlando, erano rientrati in città per la piazza ombrata di altissime palme. Davanti al portone dell’albergo egli la fissò con un tale ardore ch’ella non lo sostenne. Antonino disse:

— Alors, à deux heures; c’est entendu, chez moi.

— C’est bien – ella rispose; – j’y serai. Ma non per voi – aggiunse balbettando un grazioso italiano – bensì per Pietro Novelli…

— Io ne farò le veci – esclamò gaiamente il giovane.

Salutò la signora che entrava e fece per avviarsi, quando si sentì chiamare per nome.

— Tu! – esclamò aprendo le braccia e accogliendovi l’amico da molti mesi assente. – E di dove mi sei piovuto?

— Sono tornato da Parigi ieri sera. Ero sui terrazzi del palazzo Trabia, quando ti ho veduto passare di sotto nel Foro. Sono dieci minuti che vi seguo: te e quella adorabile Madame Rousillon… Che hai?

— Nulla, nulla! – rispose Antonino, facendo cenno a una vettura di avvicinarsi e cercando di rompere il discorso. – M’immagino che verrai a colazione al Biondo con me.

— Volontieri. Ma lo sai – proseguì mentre la vettura si avviava velocemente al trotto per il corso popoloso e pieno di luce bionda – che sei un uomo fortunato? Madame Rousillon è una delle più belle donne di Parigi.

— Lo so – affermò Antonino, riuscendo a stento a non mostrarsi seccato. Qualche cosa in lui gridava contro l’indiscreto che violava a lui il suo segreto. Ma come dirgli tutto senza essere ridicolo? Sperò che l’altro tacesse; ma l’amico continuò implacabile:

— Conobbi Félicie (Ah, perdio – pensò Antonino – non mi risparmia neppure il vero nome!) a Bruxelles, dove suo marito allora era primo consigliere d’Ambasciata. Ora è ambasciatore di Francia a Belgrado. Ma lei viaggia sempre e lascia spesso il marito alle cocottes.

Antonino era in preda a un vero tormento. La figura dell’amata nella memoria di lui si perdeva, s’illanguidiva. Mentre l’altro continuava a discorrere, narrando la storia di un ufficiale spagnuolo che si era ucciso per lei, egli vedeva nitidamente, ma separati da tutto il resto di lei, i capelli che ora gli parevano troppo biondi e falsi, la bocca il cui rosso gli sembrava troppo violento, i polsi pingui, le membra troppo formose pur con la loro proporzione. Il desiderio diminuiva di mano in mano che il mistero spariva.

— Tu sei fortunato davvero. È una donna che pochissimi hanno avuto. E dev’essere una amante deliziosa… – concluse ridendo con intenzione.

La colazione fu monotona. Antonino mangiava poco e ascoltava meno. Pensando all’appuntamento prossimo, gli pareva di aver sognato e che Georgette Lemerre non fosse mai esistita, o, almeno, egli l’avesse amata in un tempo lontano che non sarebbe tornato più… Restò solo presto, perché l’amico doveva presentarsi in Tribunale per una causa urgente, e poté meditare più a suo agio, nell’angolo del vasto salone ove i camerieri affannati servivano la folla dei forestieri e dove risuonavano le favelle più diverse. Poi si fece portare un foglio di carta e una busta; trasse di tasca la penna e scrisse:

«Amavo follemente un’ignota che si chiamava Georgette Lemerre. Non posso più amare la donna a me conosciuta, che ha il vero nome di Félicie Rousillon. Vogliate perdonarmi se vi prego di dimenticarmi e di voler pensare a un sogno piacevole interrotto da un brusco risveglio».

E si avviò per lasciare egli stesso la lettera all’albergo. Ma l’aria era odorosa, le belle donne passavano adagiate nelle vetture, tutto rideva e brillava nella luce beata del sole siciliano, e la vita era, comunque, così gaia e intensa che l’ardore del godimento pareva diffondersi anche dal suolo e scendere dal cielo trasparente curvo nel mare lontano. Allora Antonino fu savio. Strappò il biglietto, noleggiò un’automobile di piazza e si fece condurre a Monreale.