Racconto di Luigi Capuana

 

Giorgio era un buon ragazzo, ma molto vanesio; i suoi compagni di scuola lo chiamavano il filosofo, perché raramente si degnava fare il chiasso insieme con loro. Aveva da qualche tempo in qua la fissazione d’apparire giovanotto, quantunque non oltrepassasse i quattordici anni, e s’arrabbiava dell’ostinazione del suo babbo e della sua mamma che non volevano fargli smettere la camiciola col cinto e i calzoni a mezza gamba.

Sì, vestito a quel modo, faceva bella figura; lo sapeva anche dalle parole d’ammirazione che gli erano giunte talvolta all’orecchio, andando attorno col babbo nei giorni di vacanza; ma non gliene importava.

Il peggio era che, ogni volta ch’egli pregava il babbo o la mamma di vestirlo con la giacchetta e i pantaloni lunghi, come tant’altri suoi compagni minori di anni di lui, babbo e mamma sorridevano e scuotevano la testa, quasi lo canzonassero. Doveva, insomma, portare quell’odiosa foggia fino a vecchio? Non se ne dava pace.

Un giorno, finalmente, il babbo gli rispose:

— Se passi col maximum dei punti, sarai contentato.

— Parola di babbo?

— Parola di babbo!

Giorgio era studioso; ma in quegli ultimi quattro mesi di scuola fece proprio miracoli, sempre con la giacchetta ed i pantaloni lunghi davanti agli occhi come meta da raggiungere a ogni costo; giacchetta e pantaloni valevano bene quattro mesi di studio accanito. Aveva per ciò adottato come suo il motto d’Enrico IV, appreso nel manuale di storia moderna: Parigi vale bene una messa. E per lui, giacchetta e pantaloni lunghi rappresentavano una gioia sospirata da quasi due anni, la conquista del regno della giovinezza. Non sarebbe stato più un bel ragazzo, ma un bel giovinotto, e smaniava di sentirselo dire dalla gente nelle passeggiate col babbo o con la mamma, e anche andando a scuola o tornando a casa coi libri sotto braccio.

Mai non s’era tanto impensierito degli esami quanto quell’anno. Più il terribile giorno s’avvicinava e più egli perdeva la fiducia nel buon successo, e più vedeva allontanarsi e perdersi in una nebbia fitta l’agognata giacchetta, gli agognati pantaloni lunghi, che gli erano stati così evidentemente davanti agli occhi nell’ultimo mese, da sembrargli che avrebbe potuto prenderli, se avesse steso la mano.

Il giorno che il babbo lo vide arrivare a casa rosso, scalmanato, facendo salti e buttando libri berretto per aria, per poco non lo credette ammattito.

— Il sarto! La giacchetta e i pantaloni lunghi!

Giorgio non sapeva dir altro.

E siccome il babbo, sorridendo, gli accennava di chetarsi, così egli soggiunse:

— Parola di babbo, hai detto!

E aveva le lagrime agli occhi, dalla paura che il babbo non volesse più adempire la solenne promessa.

* * *

Giorgio ebbe facoltà di scegliere la stoffa da sé e dar gli ordini al sarto, quasi fosse stato proprio giovanotto. Si mostrò incontentabile: — Quella stoffa no; questa sì, ma… Sarebbe meglio quest’altra. — Il sarto cominciava a spazientirsi, vedendolo così incerto e così variabile da un istante all’altro. Intervenne il babbo per farla finita.

Ma il sarto dovette spazientirsi peggio quando giunse il momento della prova degli abiti. Le maniche della giacchetta oggi parevano a Giorgio troppo lunghe, domani troppo corte; i petti non si reggevano bene… E i pantaloni, oh Dio, come cascavano male su la scarpa! … Sbattevano goffamente nel camminare…

— Lei sarà un avventore indiavolato, — esclamò il sarto. — Chi le ha insegnato queste cose?

Finalmente, con gran sollievo di tutti, il vestito fu all’ordine. Giorgio volle provarlo un’ultima volta; gli stava a pennello.

Gli bruciava di uscire di casa subito, la mattina stessa, per farsi ammirare; ma il babbo, volendo correggerlo di quella smania eccessiva, gli disse:

— Verrai con noi questa sera in casa Ronzano. È il compleanno della signora. Intanto termina il compito di tedesco; questa sera torneremo a casa tardi, e domani non avrai tempo; la maestra viene di buon’ora.

Giorgio domandò per grazia che il vestito fosse deposto sul letto in camera sua: voleva vederlo lì, mentre egli avrebbe lavorato sfogliando grammatica e dizionario.

Era possibile fare le traduzioni dal tedesco in italiano e dall’italiano in tedesco con quel vestito nuovo fiammante sciorinato sul letto? Giorgio si voltava a ogni po’, si levava da tavolino per rallegrarsi gli occhi guardandolo, e per tastare la bella e morbida stoffa inglese. Infatti era passata un’ora, e la traduzione dal tedesco rimaneva arrestata alle prime righe.

— Ho tempo fino all’ora di pranzo! — egli pensava.

Si sentiva allettato dalla tentazione d’indossare nuovamente il vestito per persuadersi, osservandolo con attenzione davanti allo specchio, se stava proprio bene. Appunto ora rammentava certe pieghette della giacca sotto la manica, alle quali gli pareva non aver badato quanto avrebbe dovuto; voleva vedere se s’ingannava o no. Il babbo era fuori; la mamma aveva visite in salotto; nessuno lo avrebbe disturbato…

Esitò un istante, poi si lasciò vincere dalla tentazione; e cominciò, in fretta in fretta, a togliersi di dosso il vestito di casa.

No, tutto stava benissimo; né pieghe sotto le ascelle, né niente!

Egli andava su e giù per la camera, pavoneggiandosi, prendendo aria da giovanotto, col cappello in testa e la mazzettina in mano.

Doveva camminare un po’ chinato, con le braccia penzoloni, come il cavaliere Sganzetti che era, dicevano, un vero scicche? O piuttosto con la testa alta, e il petto sporgente, con un che di spavaldo, come il cugino Rubini?

Si provava, e subito s’arrabbiava di sentirsi molto impacciato nelle mosse. I pantaloni lunghi gli impedivano di buttare le gambe scioltamente. Che vuol dire non essere abituati!

E provava, e tornava a provare, finché non gli parve d’avere già acquistato un po’ della necessaria franchezza. Allora…

Andò a origliare dietro l’uscio del salotto. Dalla mamma c’era tuttavia gente. Tornò in camera in punta di piedi e mise il paletto; se qualcuno fosse venuto, avrebbe risposto che non voleva essere disturbato per terminare il compito in tempo.

Il giorno avanti, rovistando il cassetto d’un armadietto del babbo, Giorgio aveva trovato una sigaretta dimenticata lì chi sa da quanto tempo; il babbo non fumava sigarette da un pezzo, ma sigari lunghi così.

Per far compiute le prove del suo atteggiamento a giovanotto, Giorgio aveva pensato di fumare quella sigaretta, con la finestra aperta, s’intende, perché nessuno poi s’accorgesse dell’odor del tabacco.

Detto, fatto; la trae fuori dal nascondiglio dove l’aveva deposta, l’accende, e comincia a gettare grossi sbuffi di fumo da questa parte e da quella, socchiudendo gli occhi, spasseggiando per la camera come avrebbe voluto fare pel Corso, se gli fosse stato permesso. Una sigaretta così piccina non poteva fargli male.

E boccate di fumo, una dietro all’altra; e talvolta un po’ di tosse, quando il fumo, per malaccortezza del fumatore, gli entrava in gola.

Deliziosa quella sigaretta! Ah, non vedeva l’ora di esser grande, per comprarsi un bel portasigarette giapponese, come quello di Sganzetti, con le gru che volavano. Venti lire, a quel bel negozio di via Condotti; l’aveva adocchiato nella vetrina tante volte, passando.

A metà di sigaretta, già sentiva un po’ di disturbo; qualcosa gli saliva dallo stomaco alla testa e gli dava una specie di dolce stordimento… Eh via! Era proprio un ragazzo. Avanti!

E boccate di fumo, una dietro all’altra, come da gola di fumaiolo.

* * *

Ma quasi tutt’a un tratto non si raccapezzò più… Le gambe gli si piegarono sotto, e gli parve prudente mettersi a sedere…

— Oh, Dio!

Si vedeva diventato lungo lungo, grosso grosso… omaccione, gigante… Se si fosse seduto su quella seggiolina, l’avrebbe sconquassata col peso… Come mai era cresciuto tutt’a un tratto? … Già toccava il soffitto con la testa… Ah! Ah! Ah! … Se la mamma. o il babbo fossero entrati in quel punto, non lo avrebbero riconosciuto… Ah! Ah!

Rideva, barcollando, aggrappandosi ai mobili; e intanto si sentiva allungare, allungare, allungare, quasi qualcuno lo tirasse pei capelli… Ora non solo toccava con la testa la volta, ma doveva anche chinarsi… Nella camera non ci stava più… Soffocava! E guardandosi, si vedeva certi piedoni, e certe manacce… Diventava mostruoso?

Si spaventò e cominciò a gridare:

— Aiuto! Soccorso! …

Fin rannicchiato per terra toccava col capo la volta.

— Aiuto! Soccorso!

Sentiva picchiare forte all’uscio, sentiva gridare: — Apri! Apri! Che hai? Che è stato? — ma non poteva muoversi, non aveva coscienza di quel che accadeva. Vedeva attorno a sé persone che non riconosceva, udiva parole che non intendeva…

E non capì più niente.

* * *

Lo spavento della mamma era stato grande. Mentre un servitore correva in cerca del padrone, un altro volava a chiamare il medico nella vicina farmacia.

— Che è stato? — gli domandavano tutti.

Giorgio non rispondeva, o rideva scioccamente, o rispondeva stramberie inintelligibili:

— Allungo! … Mi allungano! … Fatemi posto! …

Il mozzicone della sigaretta, trovato per terra in camera di Giorgio, diede finalmente al babbo la spiegazione del mistero.

— Ha fumato una sigaretta con l’hascich, — egli esclamò, riconoscendola; e la mostrò al dottore.

Quella sigaretta, preparata con l’estratto della canabis indica, – estratto che dà visioni fantastiche e il cui abuso istupidisce coloro che hanno il vizio di fumarlo, in Oriente, – gli era stata regalata, perché la provasse, da un amico tornato dal Cairo. Egli non aveva voluto avventurarsi alla prova, temendo che gliene venisse male; e aveva buttato la sigaretta in un cassetto. Quel frugone doveva averla scovata chi sa come.

Allora il dottore lo rassicurò; si trattava d’un disturbo passeggero; e ordinò di far prendere al ragazzo molto caffè, e di lasciarlo riposare.

Intanto quella sera fu impossibile andare in casa Ronzano, con dispiacere del babbo e della mamma, che non avrebbero voluto mancare alla festa d’una amica carissima. Mamma e babbo erano sconvolti dallo spavento avuto, quando nessuno sapeva che male avesse il figliuolo; e Giorgio, fino al giorno appresso, si sentiva ancora mezzo stordito dagli effetti dell’hascich, e lo stomaco ancor in ribollimento con nausee straordinarie.

Il babbo, lasciato che fosse completamente svanita quella specie d’ubbriacatura, fece a Giorgio una lavata di capo numero uno.

— E il vestito dai pantaloni lunghi… a quest’altr’anno! — egli conchiuse severamente.

Giorgio, a testa bassa non osò rifiatare, pur maledicendo in cuor suo le sigarette coll’hascich e chi l’aveva inventate.

Così guarì della smania della giacchetta e dei pantaloni lunghi e del vizio di frugare nei cassetti del babbo.