Racconto di Stefania Castaldo

 

 

“I sacchetti di sabbia… via da qui… via… tirali via”. Si è appena svegliato e questa volta il delirio sembra il prolungamento  di  un  sogno  orrendo;  un  ritaglio  lucido scivolato fuori da chissà quale scena di battaglia. Gli sto di fianco,  poggiata  su  un  lato  del  letto.  Veglio  sul  suo respiro, divenuto irregolare nelle ultime settimane, e ogni tanto   gli   massaggio   le   gambe   muovendole   appena. Quando con il suo fiato corto articola quelle mezze frasi riesco a distinguere ogni parola. Cerco  i  suoi  occhi  e  li  incontro  già  sgranati:  niente pupille che galleggiano nel vuoto ma uno sguardo con la paura  dentro;  la  prendo  come  una  consegna  tutta  per me, che me ne sto immobile senza fare niente. Decido di obbedire. Comincio ad ammassare lenzuola e coperte lungo il bordo del letto, formando una sorta di cordone  intorno  a  quel  corpo  dalla  pelle  biancocerata. Così  facendo  penso  di  aver  creato  abbastanza  spazio  da ridurre  il  senso  di  oppressione  che  mi  ha  buttato  in faccia un minuto prima. Lo sto assecondando. Ora c’è questa specie di trincea molle e perimetrale, e un vuoto a lambire la sua sagoma laccata  dal  sudore,  inchiodata  al  centro  del  letto  in posizione fetale. Mi stendo di nuovo accanto a lui. Sento la  schiena  indolenzita  come  se  a  quel  fossato  ci  avessi lavorato a mani nude una notte intera. È  una  buona  idea:  fissare  una  soglia,  marcare  un confine,  provare  a  dividere  le  cose  buone  dalle  cattive. Ora  il  suo  cervello  dev’essere  così:  materia  bianca  e materia grigia, neve pulita e neve sporca. Qua e là resiste ancora  qualche  chiazza  di  reminiscenza  che  sale  a  galla come una bolla; è l’impermanenza dei cerchi d’acqua in uno stagno. Tracciare un’idrografia, anche questa potrebbe essere un’idea:  possedere  una  mappa  e  fortificare  la  trincea, tenendo  il  fronte  e  il  nemico  sotto  tiro.  La  morte  è  il fronte,  il  nemico  è  l’agonia  che  esala  dal  suo  corpo ridotto  a  un  simulacro  da  imboccare,  pulire,  sedare.  Da sopprimere,  se  solo  io  non  fossi  io.  Di  là  il  nemico,  di qua   noi   due,   parati   dentro   la   trincea   fatta   con   la biancheria  di  casa,  al  sicuro  nel  delirio  dei  sacchi  di sabbia. C’è spazio a sufficienza; ognuno al proprio posto, in assetto da combattimento.

La sua voce questa volta suona ferma. L’accompagna un  gesto  sapiente  delle  mani  e  c’è  una  gran  luce  nel celeste buono dei suoi occhi: occhi-guida; mi vedono, mi seguono,  mi  indicano  la  direzione.  Quelle  che  arrivano sono parole di padre e ogni cosa s’invera nella formula della legge e del comando che dà coraggio. L’ordine naturale delle cose è ristabilito. Io di nuovo figlia. Amen.

Notte

Stesa, tra le linee della notte. Coperta sopra gli occhi, lenzuola sulla pelle. Scivolano le punte dei piedi, a cercare con le dita l’estremità di questa volta buia: sono chiusa dentro la curvatura del mondo .Aveva accettato di condividere il letto con lei. Allungando una gamba, lei avrebbe incontrato il suo corpo, caldo, rilassato, inerme. Lui, che non cedeva mai al sonno, che vi resisteva, come chi resiste alla morte. Via le lenzuola, via i cuscini.

Forzare lo spazio: la notte si spalanca. Corpi celesti in orbita su traiettorie tangenti. Linee e cerchi, spezzati, aperti, chiusi. Piano, poi forte, poi ancora piano… respira. Avrebbe reagito a quel tocco cercando le sue cosce, il suo ventre, chissà.  L’avrebbe  abbracciata,  forse.  Il  suo  calore  e  poi  il respiro profondo del sonno, soffiato sulle spalle. Respira… stai piangendo? Più un canto che sale, mio signore, come di preghiera. Fa’ che la vita sia sempre come adesso. Proprio come adesso, amore mio. Giusta. Avrebbe  sognato?  Qualcosa  del  passato:  altri  letti,  altre  notti. Sarebbe stato bello un sogno rivelatore, da assecondare. Così sola, a fiorire, dondolandosi ancora un po’. La finestra è un arco di stelle: la notte si fa bella. Oriente, stai lontano dal mio letto. Si era spinta, poco alla volta, sempre più in là, fino a ritrovarsi in bilico sul bordo del letto. Poi, come fosse un corpo estraneo, era finita a terra, un po’ stordita per l’urto contro il comodino.

Mattina

Dicono che alla fine passa. È come un lutto: ci vuole tempo  e  ancora  vita  da  vivere.  Solo  un  altro  po’  di tempo. A  me  il  tempo  non  serve,  tanto  è  immobile  e  opaco. Eppure  lo  sento,  in  quell’avanzo  di  buio  che  resiste all’alba, quando gli uccelli se ne stanno zitti a tenersi stretti con la testa incassata tra le ali, ed è tutta un’attesa di  luce  che  quando  arriva  pare che  spalanchi  le  loro bocche all’unisono per farli ricominciare a cantare. Rimango  ferma,  perché  se  muovo  un  piede  o  una gamba  già  arriva  il  dolore  a  prendersi  tutto  lo  spazio dello  stomaco.  Quindi  è  meglio  tenere  gli  occhi  chiusi, che  è  quello  che  mi  dico  ogni  volta.  Se  li  apro  è  già  un movimento  e  va  a  finire  che  mi  accorgo  che  respiro.  Se apro gli occhi, il mondo ricompare dov’era ieri e io mi ci ritrovo dentro. Provo a non pensare a niente. C’è il respiro, è vero, ma  lo  sento  diventare  sottile  più  di  un  filo  e  magari prima o poi si spezza. Qualcosa batte sotto la pelle ma è una sensazione impercettibile, per fortuna. Mi  concentro  a  rimanere  dentro  al  tempo  che  non passa; devo stare attenta perché all’improvviso va a finire che  mi  ritrovo  di  là,  in  bagno.  Allora  si  ricomincia daccapo,  con  la  luce  che  si  attacca  a  qualsiasi  cosa,  e tutto  si  mette  a  girare  intorno  al  solito  pensiero  e  il pensiero ridiventa carne e sangue. Forse  prima  o  poi  si  aprirà  una  crepa,  devo  solo cercarla. Se la trovo mi ci infilo dentro, sbuco dall’altra parte  e  provo  di  nuovo  a  respirare.  Entro  in  un  muro d’ombra: è una striscia di notte che ha odore di casa. C’è aria che arriva sulla pelle, entra dove può e brucia, come  febbre.  Il  fatto  è  che  lì  fuori  tutto  è  grande, illuminato, osceno. Ci vorrebbero parole come finestre e, in quei ritagli d’infinito, provare a scrivere di ciò che non ha peso e consistenza. Alzo  gli  occhi  e  vedo  le  nuvole  che  scivolano  lente sulla luce. Le invito giù, sul grigio nero dell’asfalto. Che si infilino  tra  corpo  e  corpo,  tra  bocca  e  bocca.  Che  si prendano tutto lo spazio che c’è tra me e l’assenza. E allora  sì  che  sarà  facile  andare  e  venire  tra  morte  e resurrezione. A me il tempo non serve ed è già mattina.