Racconto di Barbara Mannucci
Glielo aveva consigliato il medico commentando l’esito delle ultime analisi del sangue: «Dopo i quaranta queste cose si aggiustano facendo movimento, tante camminate e qualche gita fuori porta in bicicletta», le aveva detto. Sul momento era rimasta perplessa perché negli ultimi due anni le sue scelte erano andate nella direzione opposta: le domeniche trascorse a leggere sul terrazzo del suo nuovo appartamento nel centro storico, proprio sopra il caffè Dorsetti; l’abbonamento al teatro tutti i giovedì; le ore dedicate allo studio di consulenza, ma anche le piccole soddisfazioni di lavorare in proprio. Tutto questo l’aveva tenuta lontana dalle passeggiate in campagna e da quel mezzo che associava alla giovinezza. Anche il paesaggio era quello giusto. La strada da percorrere si snodava tra dolci tornanti che risalivano la collina della Borla per scendere fino al promontorio in tenuta del Palazzuolo. L’antica rocca, con la sua torre in pietra, guidava lo sguardo lungo tutto il percorso. La salita per raggiungerla era impegnativa ma breve e nel programma era citata come una fatica ricompensata dal buffet che avrebbe atteso i partecipanti all’arrivo. Forse era lui l’ombra nel paesaggio. Anche se di fatto era stato proprio lui a invitarla: «Un modo per conoscersi», le aveva detto, «senza che l’occasione si faccia imbarazzante». Subito aveva apprezzato la delicatezza, salvo poi chiedersi se fosse stato un riguardo rivolto a lei o a se stesso. Ma questa volta si era promessa che sarebbe stato diverso. Non avrebbe sporcato coi dubbi di vecchie insicurezze questo nuovo incontro. Le lunghe sere d’inverno a scrivere mail alla luce del monitor le avevano dato il coraggio di riprovare. Erano stati tre mesi leggeri, di confessioni libere, consegnate senza aspettativa a una coscienza che rispondeva con le sue fragilità di uomo. Confidavano tacitamente nella facoltà di sospendere il flusso di parole scritte nel momento in cui uno dei due lo avesse ritenuto opportuno. Anche per questo avevano tardato a rompere l’incanto della situazione.
Ora che lui si manteneva dieci lunghezze più avanti, con una pedalata energica e la falcata lunga, quel coraggio la stava abbandonando. La fatica della salita contribuiva ad acuire la spiacevole sensazione di essere tornata ad arrancare dietro a un uomo, come se quella figura di mezza età, col suo lungo ciuffo grigio che si alzava per tornare a frustare la sommità del capo a ogni pedalata, non meritasse tanti sforzi. Scacciò certe considerazioni concentrandosi sul respiro, cercando di potenziare la pedalata. A intervalli regolari lui si fermava ad aspettarla, giusto il tempo che lei tornasse raggiungibile con lo sguardo. Quindi sorrideva e riprendeva a pedalare prima che lei potesse anche solo rispondere al sorriso. Sembrava che si prendesse gioco di lei, o che volesse metterla alla prova. Si chiedeva persino se fosse la stessa persona con cui era stata così a suo agio per tutto l’inverno. Nel tentativo di recuperare lucidità cercò di individuare le coppie tra la folla di biciclette che le sfilavano accanto, e tra queste di misurare la distanza che intercorreva tra i coniugi, giusto per darsi un’idea della distanza media da tenere. Non poteva contare sulla propria esperienza: c’era stato il divorzio e prima di quello una lunga agonia di contrasti, poi le tregue silenziose –lui chiuso in studio o in garage, lei in cucina –e mai la serenità di una gita in bicicletta. Per quella doveva tornare ai tempi del liceo, in un pomeriggio d’estate, quando era uscita con i compagni di classe. Avevano noleggiato certe olandesi pesantissime e si erano radunati sul piazzale di ghiaia del fontanone per partire tutti insieme: lei e Laura sempre davanti, in piedi sui pedali, i maschi subito dietro a sgommare e fingere di rincorrerle, e le gemelle Chiarini che procedevano lente perché non smettevano di parlare tra loro. Tuttavia, niente che potesse aiutarla a capire se la sua idea di percorrere il tragitto chiacchierando affiancati fosse solo un ideale romantico. La vetta della collina era ormai prossima, cinque, forse sei pedalate e avrebbe potuto farsi accarezzare dalla brezza della discesa che precedeva l’arrivo. L’ultima pedalata la lasciò stremata, quasi ferma, a osservare il paesaggio che le si presentava di fronte. Ancora una volta lui si girò per rivolgerle uno sguardo rassicurante, mollando con uno scatto i freni per lasciarsi scivolare lungo il pendio. Dietro di lei, ora immobile al centro della carreggiata, si formò un piccolo ingorgo, qualcuno irritato suonò il campanello prima di spostarsi di lato per proseguire. Lui stava già prendendo velocità a metà della discesa, i bordi della giacca svolazzavano al vento come orecchie pendule di un cocker in corsa, la faccia rivolta verso l’alto a godere della brezza della discesa. Anche avesse voluto, non avrebbe potuto rallentare senza perdere l’equilibrio, ma di certo aveva tutta l’aria di non lasciarsi nemmeno sfiorare da quel pensiero. Allora si decise: voltò la bicicletta e mollò i freni per farsi invadere dalla fresca brezza della discesa. Percorrendo il tragitto al contrario rivolse lo sguardo prima alla villa che torreggiava sulla collina di fronte, semicoperta alla vista da olmi secolari, poi ai ciclisti che affrontavano estenuati l’ultimo tratto di salita. Si lasciò invadere dal senso di liberazione e rivalsa che conosceva così bene e che parve consolarla dalla delusione. Non aveva nemmeno lottato: lo aveva lasciato andare con la stessa rassegnazione con cui si osserva compiersi il destino. A metà della discesa, ormai in velocità, sentì dietro di lei dei campanelli suonare, poi qualcuno ridere e urlare: «Ehi, voi due! Non mollate ora!». Si era fermata, l’arresto deciso aveva fatto stridere i freni. Rivolse lo sguardo alla vetta dietro di lei come chiamata da un presentimento. Forse, questa volta, era proprio tutto giusto.
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