Racconto di Dino Buzzati

 

 

Redazione (L) Il viaggio è metafora dell’esistenza e del suo mistero.

Tutta la vita è giocata nella rincorsa di tale obiettivo; ma il dubbio corrode e tormenta il personaggio che, nonostante l’incertezza, continua il suo percorso scandito da calcoli precisi, basati su numeri che dovrebbero stabilire i tempi esatti, impiegati dai sette messaggeri nella andata-ritorno, per portare il messaggio alla città e dalla città.

I sette messaggeri che s’incontrano lungo il viaggio conducono inesorabilmente il protagonista verso l’abisso, verso quella tentazione-attrazione che lo induce a lasciare senza rimpianto la gioia passata. Alla fine gli ultimi legami con la vita scompariranno, i sospirati confini risulteranno sempre più nebulosi e confusi e le azioni da compiere saranno poche o nulle.

Non ci saranno state azioni eroiche e il protagonista assaporerà la consapevolezza che quella frontiera o non esiste, o non può essere travalicata, almeno nel senso da noi immaginato.

Partito a  esplorare  il  regno  di  mio  padre,  di  giorno  in  giorno  vado  allontanandomi  dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare. Ho  cominciato  il  viaggio  poco  più  che  trentenne  e  più  di  otto  anni  sono  passati,  esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino. Credevo, alla partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho  continuato  ad  incontrare  sempre  nuove  genti  e  paesi;  e  dovunque  uomini  che  parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei. Penso  talora  che  la  bussola  del  mio  geografo  sia  impazzita  e  che,  credendo  di  procedere  sempre  verso  il  meridione,  noi  in  realtà  siamo  forse  andati  girando  su  noi  stessi,  senza  mai  aumentare  la  distanza  che  ci  separa  dalla  capitale;  questo  potrebbe  spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all’estrema frontiera. Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda  senza  limite  alcuno  e  che,  per  quanto  io  avanzi,  mai  potrò  arrivare  alla  fine.  Mi  misi  in  viaggio  che  avevo  già  più  di  trent’anni,  troppo  tardi  forse.  Gli  amici,  i  familiari stessi, deridevano il mio progetto come inutile dispendio degli anni migliori della vita. Pochi in realtà dei miei fedeli acconsentirono a partire. Sebbene  spensierato  –  ben  più  di  quanto  sia  ora!  –  mi  preoccupai  di  poter  comunicare,  durante  il  viaggio,  con  i  miei  cari,  e  fra  i  cavalieri  della  scorta  scelsi  i  sette migliori, che mi servissero da messaggeri. Credevo,  inconsapevole,  che  averne  sette  fosse  addirittura  un’esagerazione.  Con  l’andar  del  tempo  mi  accorsi  al  contrario  che  erano  ridicolmente  pochi;  e  sì  che  nessuno  di  essi  è  mai  caduto  malato,  né  è  incappato  nei  briganti,  né  ha  sfiancato  le  cavalcature.  Tutti  e  sette  mi  hanno  servito  con  una  tenacia  e  una  devozione  che  difficilmente riuscirò mai a ricompensare. Per   distinguerli   facilmente   imposi   loro   nomi   con   le   iniziali   alfabeticamente   progressive: Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio. Non uso alla lontananza dalla mia casa, vi spedii il primo, Alessandro, fin dalla sera del secondo giorno di viaggio, quando avevamo percorso già un’ottantina di leghe. La sera  dopo,  per  assicurarmi  la  continuità  delle  comunicazioni,  inviai  il  secondo,  poi  il  terzo,  poi  il  quarto,  consecutivamente,  fino  all’ottava  sera  di  viaggio,  in  cui  partì  Gregorio. Il primo non era ancora tornato. Ci  raggiunse  la  decima  sera,  mentre  stavamo  disponendo  il  campo  per  la  notte,  in  una  valle  disabitata.  Seppi  da  Alessandro  che  la  sua  rapidità  era  stata  inferiore  al  previsto;  avevo  pensato  che,  procedendo  isolato,  in  sella  a  un  ottimo  destriero,  egli  potesse  percorrere,  nel  medesimo  tempo,  una  distanza  due  volte  la  nostra;  invece  aveva potuto solamente una volta e mezza; in una giornata, mentre noi avanzavamo di quaranta leghe, lui ne divorava sessanta, ma non più.

Così  fu  degli  altri.  Bartolomeo,  partito  per  la  città  alla  terza  sera  di  viaggio,  ci  raggiunse alla quindicesima; Gaio, partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben  presto  constatai  che  bastava  moltiplicare  per  cinque  i  giorni  fin  lì  impiegati  per  sapere quando il messaggero ci avrebbe ripresi. Allontanandoci sempre più dalla capitale, l’itinerario dei messi si faceva ogni volta più  lungo.  Dopo  cinquanta  giorni  di  cammino,  l’intervallo  fra  un  arrivo  e  l’altro  dei  messaggeri cominciò a spaziarsi sensibilmente; mentre prima me ne vedevo arrivare al campo uno ogni cinque giorni, questo intervallo divenne di venticinque; la voce della mia città diveniva in tal modo sempre più fioca; intere settimane passavano senza che io ne avessi alcuna notizia. Trascorsi  che  furono  sei  mesi  –  già  avevamo  varcato  i  monti  Fasani  –  l’intervallo  fra  un  arrivo  e  l’altro  dei  messaggeri  aumentò  a  ben  quattro  mesi.  Essi  mi  recavano  oramai notizie lontane; le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all’addiaccio da chi me le portava. Procedemmo  ancora.  Invano  cercavo  di  persuadermi  che  le  nuvole  trascorrenti  sopra  di  me  fossero  uguali  a  quelle  della  mia  fanciullezza,  che  il  cielo  della  città  lontana  non  fosse  diverso  dalla  cupola  azzurra  che  mi  sovrastava,  che  l’aria  fosse  la  stessa,  uguale  il  soffio  del  vento,  identiche  le  voci  degli  uccelli.  Le  nuvole,  il  cielo,  l’aria, i venti, gli uccelli, mi apparivano in verità cose nuove e diverse; e io mi sentivo straniero. Avanti,  avanti!  Vagabondi  incontrati  per  le  pianure  mi  dicevano  che  i  confini  non  erano   lontani.   Io   incitavo   i   miei   uomini   a   non   posare,   spegnevo   gli   accenti   scoraggianti che si facevano sulle loro labbra. Erano già passati quattro anni dalla mia partenza;  che  lunga  fatica.  La  capitale,  la  mia  casa,  mio  padre,  si  erano  fatti  stranamente  remoti,  quasi  non  ci  credevo.  Ben  venti  mesi  di  silenzio  e  di  solitudine  intercorrevano  ora  fra  le  successive  comparse  dei  messaggeri.  Mi  portavano  curiose  lettere  ingiallite  dal  tempo,  e  in  esse  trovavo  nomi  dimenticati,  modi  di  dire  a  me  insoliti,  sentimenti  che  non  riuscivo  a  capire.  Il  mattino  successivo,  dopo  una  sola  notte  di  riposo,  mentre  noi  ci  rimettevamo  in  cammino,  il  messo  partiva  nella  direzione  opposta,  recando  alla  città  le  lettere  che  da  parecchio  tempo  io  avevo  apprestate. Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando è  entrato  Domenico,  che  riusciva  ancora  a  sorridere  benché  stravolto  dalla  fatica.  Da  quasi sette anni non lo rivedevo. Per tutto questo periodo lunghissimo egli non aveva fatto  che  correre,  attraverso  praterie,  boschi  e  deserti,  cambiando  chissà  quante  volte  cavalcatura, per portarmi quel pacco di buste che finora non ho avuto voglia di aprire. Egli è già andato a dormire e ripartirà domani stesso all’alba. Ripartirà  per  l’ultima  volta.  Sul  taccuino  ho  calcolato  che,  se  tutto  andrà  bene,  io  continuando  il  cammino  come  ho  fatto  finora  e  lui  il  suo,  non  potrò  rivedere  Domenico  che  fra  trentaquattro  anni.  Io  allora  ne  avrò  settantadue.  Ma  comincio  a  sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima. Così non lo potrò mai più rivedere. Fra    trentaquattro    anni    (prima    anzi,    molto    prima)    Domenico    scorgerà    inaspettatamente  i  fuochi  del  mio  accampamento  e  si  domanderà  perché  mai  nel  frattempo,  io  abbia  fatto  così  poco  cammino.  Come  stasera,  il  buon  messaggero  entrerà nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni, cariche di assurde notizie di un  tempo  già  sepolto;  ma  si  fermerà  sulla  soglia,  vedendomi  immobile  disteso  sul  giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce, morto. Eppure va, Domenico, e non dirmi che sono crudele! Porta il mio ultimo saluto alla città  dove  io  sono  nato.  Tu  sei  il  superstite  legame  con  il  mondo  che  un  tempo  fu  anche  mio.  I  più  recenti  messaggi  mi  hanno  fatto  sapere  che  molte  cose  sono  cambiate, che mio padre è morto, che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le  querce  sotto  cui  andavo  solitamente  a  giocare.  Ma  è  pur  sempre  la  mia  vecchia  patria.  Tu  sei  l’ultimo  legame  con  loro,  Domenico.  Il  quinto  messaggero,  Ettore,  che  mi raggiungerà, Dio volendo, fra  un  anno  e  otto  mesi,  non  potrà  ripartire  perché  non  farebbe  più  in  tempo  a  tornare.  Dopo  di  te  il  silenzio,  o  Domenico,  a  meno  che  finalmente   io   non   trovi   i   sospirati   confini.   Ma   quanto   più   procedo,   più   vado   convincendomi che non esiste frontiera. Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno nel senso che noi siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro. Per  questo  io  intendo  che  Ettore  e  gli  altri  messi  dopo  di  lui,  quando  mi  avranno  nuovamente  raggiunto,  non  riprendano  più  la  via  della  capitale  ma  partano  innanzi  a  precedermi, affinché io possa sapere in antecedenza ciò che mi attende. Un’ansia  inconsueta  da  qualche  tempo  si  accende  in  me  alla  sera,  e  non  è  più  rimpianto delle gioie lasciate, come accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto è l’impazienza di conoscere le terre ignote a cui mi dirigo. Vado  notando  –  e  non  l’ho  confidato  finora  a  nessuno  –  vado  notando  come  di  giorno in giorno, man mano che avanzo verso l’improbabile meta, nel cielo irraggi una luce  insolita  quale  mai  mi  è  apparsa,  neppure  nei  sogni;  e  come  le  piante,  i  monti,  i  fiumi  che  attraversiamo,  sembrino  fatti  di  una  essenza  diversa  da  quella  nostrana  e  l’aria rechi presagi che non so dire. Una  speranza  nuova  mi  trarrà  domattina  ancora  più  avanti,  verso  quelle  montagne  inesplorate  che  le  ombre  della  notte  stanno  occultando.  Ancora  una  volta  io  leverò  il  campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l’inutile mio messaggio.