Racconto di Vincenzo Portone

 

 

Mio nonno in paese se lo ricordano tutti. Ed io ancora adesso, dopo quarant’anni, sono per loro il figlio della figlia della buonanima di Venanzio.
Gli volevano bene perché faceva del bene. Non che regalasse o prestasse dei soldi, anzi. Lui aiutava chi ne aveva bisogno in altri modi. Per esempio offrendo lavoro, inventandosi a volte finte mansioni, pur di giustificare l’elargizione. Così pagava uno per portargli la legna dalla rimessa in cantina, e la settimana dopo pagava un altro per rimetterla dov’era.
Sfilava orgoglioso tra la gente, spalle dritte e busto in fuori, salutato per strada come fosse il papa. Si fermavano ad aspettare che passasse ed agli incroci aveva la precedenza su tutto. Quando ebbe solo capelli bianchi, era ormai per tutti Venanzio Il Papa.
La domenica dopo la messa delle undici trascinava le sue tre gambe dalla chiesa fino a casa. Erano trecentocinquanta passi, li avevamo contati con i miei cugini per curiosità.
Una distanza che si percorre anche in fretta. Lui però ogni venti passi si fermava. Rifiatava, si guardava intorno e faceva un cenno a qualsiasi cosa si muovesse. Fossero ragazzini sulle biciclette, donne sull’uscio di casa, uomini alla guida di macchine o calessi. Salutava anche i cani, che gli s’avvicinavano come riconoscendone il padrone. Poi riprendeva il cammino, altri venti passi e stesso rituale.
Impiegava un’eternità. Ma il tempo, ossequioso, si fermava ad aspettarlo, mentre la nonna, noi diciotto nipoti, i suoi sette figli e consorti, smaniosi per l’attesa, impazzivamo per la fame.
La domenica a casa della nonna ogni ospite omaggiava gli altri con prelibatezze sfarzose. Ricchi antipasti, grassi affettati e succulenti formaggi, una sontuosa pasta al forno, il polpettone gonfio di ripieno, una montagna di patate fritte, e una marea di dolci a riempire ogni spazio della lunga tavolata imbandita a festa.
E i nostri sguardi minacciosi, pronti alla razzia, su quelle meraviglie inviolabili, il cui profumo fumante, sotto il caldo riparo di tovaglie bianche, non poteva da solo saziare la nostra avidità.
Poi finalmente qualcuno lo avvistava dalla finestra. Aspettavamo immobili e silenziosi per udire i suoi passi, finché lo sentivamo aprire il portone della rimessa. Lui, non ho mai saputo perché, entrava in casa sempre dal retro.
Concedeva alle figlie il privilegio di togliergli giacca e cappello. E con i pollici nel panciotto, faceva la sua apparizione sulla soglia della sala da pranzo.
Ci sgranava tutti uno ad uno, come per contarci. I suoi occhi brillavano compiaciuti sulla famiglia al completo, mentre noi rimanevamo ancora fermi, schierati come cavalli davanti al mossiere.
Allora lui scioglieva il suo bellissimo sorriso liberatorio ed esultava con un “Buongiorno a tutti”, allargando le braccia in segno di trionfo, come volesse contenerci tutti.
Ed era finalmente domenica. Esplodeva così l’euforia incontrollabile di noi bambini, sotto i rumori di posate che affondavano avide nei piatti, in quel tripudio di sapori tanto agognati.
Ed era festa fino a sera. Era musica ed erano balli. Erano risate e giochi.
Mio nonno lo ricordo così. Non gli ho mai parlato da grande.
Arrivò la sua ora che non avevo ancora il mio primo orologio.