Racconto di Raffaele La Capria 

Cap. IV, 1984.

 

 

Che acqua quel giorno! Metteva allegria. Roccia biancastra stellata di ricci neri, spaccata da lunghi crepacci, ombrose tane e grossi massi tra zone di sabbia smagliante, e lì tra sabbia e scoglio, in lento moto a mulinello, le colonie dei saraghi.

A volte due o tre si staccavano dal girotondo e si rincorrevano, saraghi zebrati, col muso piccolo sporgente a punta e il corpo piatto, e quelli di razza, con la testa a bisonte e un solo anello nero nella strozzatura della coda. Presto! Occhiali, tubo, fucile – il fucile nuovo, alla prima prova, appena arrivato da Genova – e il salto in quell’acqua, il colpo gelido, il tubo gorgogliante, il corpo giù tra miriadi di bollicine impazzite le mani più grandi del normale attraverso il vetro degli occhiali strette sul fucile luminoso, e lo spazio attonito cresceva, m’inghiottiva… poi la spinta verso l’alto, come due mani delicate alla vita che ti riportano a galla, la pressione diminuita, e quel nuoto planante nel silenzio assoluto. Tutto questo era ancora nuovo. E ad ogni sommozzata la fuga precipitosa dei saraghi che correvano a rintanarsi negli spacchi della roccia, quella luce ferma, pomeridiana, dove il contorno di uno spigolo di roccia si stagliava netto come filo arrotato di lama. Davanti al vetro degli occhiali ondeggiava lionato il ciuffo dei capelli, ogni tanto dovevo scostarli, come una tendina…

Tre cefali, tre piccoli siluri plumbei sempre alla stessa distanza davanti a me, fuori tiro ma vicini. Nuotavo sopra un lastrone di roccia in pendio che finiva in una valletta sabbiosa e uno dei cefali si fermò a brucare sopra un masso a forma di cono. Distaccato dagli altri sentì la cosa che ero io arrivargli goffa addosso e sfrecciò via un attimo prima che il colpo partisse, disorientato con frenetici zig-zag cercando i compagni, e poi sicuro nella loro rotta.

In quel momento, era grossa mannaggia, e mi trovavo col fucile scarico, la spigola passò. Pareva un aeroplano da bombardamento, una fortezza volante quando d’improvviso la vedevi apparire nel cielo di Napoli. Ricaricato in furia il fucile, sistemato lo spago, mi voltai ed era troppo lontana, scomparsa. La valletta sabbiosa incassata come il letto di un fiume tra due sponde ripide di roccia finiva a imbuto in un crepaccio, e gusci di ostrica biancheggiavano sulla sabbia, come ossa di animali davanti alla tana. Piccoli saraghi di vetro si mossero. Lenti come ventagli, indugiarono ancora prima di entrare nel buio dello spacco.

Nuotai verso il fondo, la pancia strisciante sulla sabbia, seguendo il canalone fino all’apertura: larga abbastanza. Ci infilai il braccio armato di fucile e tutta la testa, mentre con la mano libera mi trattenevo a uno sperone dello scoglio.

Li vidi subito, due saraghi, grandi, luminosi dentro la tana, fermi e tranquilli nel buio. Il piú grosso profilato sotto tiro: e al posto del sarago il bagliore di un piatto d’argento, l’asta scossa da un tremito, la sabbia del fondo smossa. Colpito. Risalii, l’asta se ne venne via senza intoppi: colpito di striscio, peccato. Ricaricai, poi ci fu un rimescolio sul fondo, tra i massi della scogliera poco distante si alzò una nebbiolina d’acqua gassata che li avvolse per un momento, e da quella nebbia luminosa emerse un’ombra grigia, solitaria, che veniva come un ordigno metallico verso di me. La spigola. Pareva ancora più grossa, non mi era sembrata così grossa prima, mammamia! L’acqua rimasta nell’ansa del tubo grattava, respiravo appena e nuotavo piano con delicatezza per portarmi sulla sua traiettoria senza spaventarla. Indifferente e calma, ma forse non ce l’avrei fatta a tagliarle la strada, veniva troppo veloce.

Allora cambiai tattica, espulsi l’acqua rimasta nel tubo e nuotai forte. Come previsto il rumore la spaventò, dirottandola verso la scogliera. Difficilmente fanno dietro-front. Unico pericolo: poteva superare il punto di passaggio obbligato tra il mio fucile e gli scogli, prima che arrivassi alla distanza di tiro. Adesso la vedevo bene, in tutti i particolari: la grinta della bocca bordata di bianco carnoso con gli angoli piegati in giú, l’occhio fisso, il rilievo delle squame, la zigrinatura orofumo lungo il corpo già vibrante di allarme. E dietro vedevo, immensa la mole dei macigni della scogliera. L’attimo decisivo – a picco puntandola dritto sulla parte piú grossa dove il corpo s’allarga – e sentii che l’asta entrava in quel corpo.

Trafitta si rovesciò di fianco, splendida tutta d’argento, con la pinna irta sul dorso, la bocca aperta nello spasimo, il corpo a mezzaluna e come paralizzato. Il peso dell’asta la trascinava cosí, a fondo, sopra un liscio scoglio bianco, e il sangue saliva dalla ferita come un filo di fumo rosato nell’acqua. Poi l’asta cominciò a tintinnare sullo scoglio, lo spago uno strappo, teso nelle mie mani, la spigola con l’asta infilata nel corpo tentò, si dibatté, frenetica. Ma l’aletta dell’arpione s’era bene aperta, non aveva piú scampo.

Risalii a galla, respirai due o tre volte a pieni polmoni, le orecchie mi ronzavano, e arrivò quel richiamo, la voce infantile di Niní:

– Maaa…ssimo! Maaa…ssimo!

Il fucile stretto tra le gambe, ritirai lo spago, afferrai l’asta, con l’altra mano la viscida argentea carne tremante che tentava ancora di sfuggire alla mia presa, pollice ed indice a tenaglia nella rossa apertura delle branchie, e cosí, viva, la tenni. In quel momento di nuovo la voce di Niní…

Come ora: – Maaa…ssimo! Maaa…ssimo! – …mi chiamava, alzai la testa, Niní m’indicò l’orizzonte tra la punta della Campanella e Capri, e là per là vidi solo che la barca di Marino si era avvicinata alla nostra, Marino curvo sui remi che remava come un pazzo, e gli altri ragazzi facevano segni indicando anche loro l’orizzonte.

– Presto, sali! E poi: – Guarda quanti sono! –

A frotte, come i cefali, cosí arrivavano. Appena il tempo di vederli, tanti puntini neri sul profilo della penisola sorrentina, e anche altri piú vicini, al centro del golfo, metallici nella luce piú viva, e altri ancora che già volavano sul porto tra le nuvolette scure dei colpi della contraerea. Proprio ora dovevano venire! Ma Niní era eccitato, e con un po’ di paura in corpo, come i ragazzi nell’altra barca.