Racconto di Andrea Camilleri
Da due o tre giorni, da quando si è messo a fare il caldo che fa, non c’è telegiornale che non spunta con uno con la faccia uguale uguale a quella di un predicatore di Quaresima e ci viene a contare che la colpa è tutta nostra, inutile lamentarsi. Avete voluto usare il carbone? Ve la siete scialata col metano? Allora tenetevi il caldo e muti tutti.
Questo è l’effetto serra, ci vengono a spiegare mentre ci talìano con l’occhio del maestro che sta per darti zero in condotta: è lo sviluppo industriale che ha fatto il danno. Io, che non posseggo industrie e che di metano me ne basta quanto ne serve a scaldarmi il caffè, però mi domando: siamo proprio sicuri che le cose stanno come ce le raccontano i quaresimalisti? Dalle mie parti c’è un proverbio antichissimo, secolare, che recita così: “Giugnettu, ‘nzoccu hajuiettu” che tradotto in bell’italiano suona “Giugnetto, tutto ciò che ho getto” e che ulteriormente tradotto viene a significare che il contadino che travaglia sui campi ai primi di giugno (ecco il perché del diminutivo) se non getta via tutti i vestiti che ha addosso non cela fa più ad andare avanti col lavoro per il caldo che l’avvampa.
Come la vogliamo mettere? Al tempo in cui l’esperienza contadina coniò questo detto non c’erano ciminiere che fumavano e il fornello si accendeva una volta la settimana (quando andava bene) per fare il cotto. “Eh no, bella forza!” mi dirà il solito contraddittore “Tu ci vieni a citare un proverbio dal profondo Sud al quale appartieni e si vede da come scrivi. Se non fa caldo lì dove vuoi che lo debba fare?
”D’accordo, non vale. Allora porto la testimonianza di uno straniero. “Purché non sia svedese” dirà il contraddittore credendosi furbo. Lo straniero che cito era francese e si chiamava Henri Beyle ma lui si firmava Stendhal. Amava il nostro paese e soprattutto gli piaceva passeggiare per Roma.
Siamo nel 1828, per la precisione il 2 di giugno. Stendhal comincia il diario così: «Fa un caldo soffocante. Il bisogno di un po’di fresco ci ha ricondotto in Vaticano». E per quel giorno si rinfresca ammirando le stanze di Raffaello. Il 5 di giugno la musica non cangia e il nostro amico è costretto a infilarsi tra gli alberi di una villa patrizia per godersi tanticchia d’ombra. E metto subito le mania vanti: non si è trattato della calura eccezionale di un’annata eccezionale. Difatti sei anni appresso scrive ancora nel suo diario sempre riferendosi al clima di Roma: «Il caldo impedisce di pensare». E dopo viene una nota che pare scritta da uno che si è perso in mezzo al deserto: «Pioggia, al fine!». E mi voglio fermare qua non perché mi vengono a mancare altre testimonianze ma proprio perché non ce la faccio per il gran caldo che sta facendo in questo momento a mettermi a scartabellare libri.
Ma in fondo, a considerare bene tutta la faccenna, si può sapere perché tutti se la pigliano col caldo? Io, per esempio, col caldo ci campo benissimo. Una volta ho fatto una gara di immobilità sotto il sole con una lucertola e ho vinto io. Quindi mi escludo. Ma vi chiedo: se non ci fosse il caldo, ve lo godreste così tanto il venticello serale immortalato da una canzone romana famosa? Se non ci fosse il caldo, come fareste a godervi tutta la grazia di Dio che erompe daminigonne e generose scollature? Se non ci fosse il caldo, come fareste a godere della sottile, argentina musica delle fontane di Roma? In tre frasi il caldo mi ha fatto scrivere tre volte il verbo godere, credetemi non è stato un errore. E allora, siccome il Signore, e non l’effetto serra, vuole così, godiamocelo questo caldo.
Da http://pdflibri.com/pdf/Racconti_quotidiani_pdflibri.com.pdf
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