Racconto di Andrea Camilleri

 

 

Era tradizione, almeno fino alla metà del secolo scorso, che nel periodo tra Natale e l’Epifania ogni sera dopo cena si giocasse a carte. Si giocava dovunque: nei due circoli del paese si giocava d’azzardo e con poste molto alte, mentre le famiglie amiche si riunivano per praticare giochi più tradizionali e meno rischiosi come la tombola o il soporifero sette e mezzo. Faceva eccezione la famiglia Bellavia perché, mentre le signore invitate conversavano in salotto, don Sasà, il capofamiglia, teneva in un’altra stanza il banco del baccarà e lì i mariti giocavano forte. Quando la figlia di don Sasà, Lea, divenne maggiorenne, apportò un’innovazione sostanziale. Cioè a dire, aprì un terzo salone dove i suoi coetanei potessero ballare fino a notte inoltrata.

Fu così che io venni invitato da Lea la sera del 26 dicembre 1943 ad andare a ballare a casa sua. Ci andai, ma dopo un’ora o poco più che stavo a divertirmi con i miei amici mi venne la tentazione di aprire la porta della mitica sala dove don Sasà teneva banco ed entrarvi. Dentro c’erano una trentina di signori: erano tra i più facoltosi commercianti, imprenditori, professionisti del paese. Dopo un po’ che assistevo in silenzio al gioco venni tentato irresistibilmente di parteciparvi. Avevo in tasca quasi tutti i miei risparmi, accumulati pazientemente giorno dopo giorno e rimpinguati dai parenti per le feste di Natale, che dovevano servirmi a comprare i libri che più mi interessava leggere.

Allora, nella Sicilia liberata dallo sbarco alleato avvenuto ai primi di luglio dello stesso anno, non circolava la moneta italiana: essa era stata sostituita da banconote stampate dall’amministrazione militare dei territori occupati, che erano chiamate amlire.

Avevano però lo stesso valore della lira. In tasca quella sera avevo per l’appunto mille amlire, una misera somma rispetto alle poste che erano in gioco. Non seppi resistere: cavai fuori dalla tasca duecento amlire e feci la mia puntata. Vinsi, ma ripersi tutto alla puntata seguente. E così, dopo un’altalena durata un’oretta tra vincita e perdita, i miei risparmi presero il volo. Non mi restava altro che ritirarmi in buon ordine e cercare di dimenticare il denaro perduto. Non si era trattato di poco: all’epoca lo stipendio di un impiegato di buona levatura si aggirava attorno alle mille e cinquecento amlire. Senonché, mentre stavo andandomene, don Sasà mi guardò e mi disse: «Se vuoi giocare sulla parola te lo concedo».

Allora mi sembrò una sfida. Avevo in tasca una scatolina di fiammiferi e la puntai sul tavolo dicendo a voce alta: «Vale cinquecento amlire».

Perdetti la puntata. Don Sasà mi guardò negli occhi, cavai fuori il fazzoletto, lo posai sul tavolo e dissi: «Vale mille amlire». Perdetti anche il fazzoletto. A farla breve uscii da quella casa verso le tre del mattino: avevo perso diciottomila amlire, una cifra per me irraggiungibile, che non avrei saputo mai come pagare. Piovigginava, mi avviai verso casa a passo lento, meditando tristemente sulla mia stupidità e su come poter risolvere il problema del debito contratto con don Sasà, perché come noto i debiti di gioco vanno pagati entro le successive ventiquattr’ore. Le strade erano così scarsamente illuminate da essere quasi buie. Durante il percorso che mi avrebbe portato a casa, a un tratto notai nella via assolutamente deserta un’ombra appoggiata contro la saracinesca chiusa di un negozio: probabilmente si riparava dalla pioggia sotto la tettoietta. Ma quando arrivai alla sua altezza vidi un’altra ombra all’angolo, proprio dalla parte opposta della strada, che se ne stava appoggiata a un portone anch’esso chiuso. In un attimo intuii cosa sarebbe accaduto, ma ormai era troppo tardi per mettermi a correre: sarei stato facilmente raggiunto. Fatti due passi, l’uomo che stava davanti al negozio fece un salto, si piantò di fronte a me e intimandomi di stare zitto mi piantò la bocca di un revolver sotto il mento con tanta violenza da costringermi ad alzarmi sulla punta dei piedi. Contemporaneamente anche l’altro era balzato davanti a me e mi aveva accecato tenendomi accesa davanti agli occhi la luce di una potente lampadina tascabile. Ma tutto durò un attimo: l’uomo che mi puntava la pistola mi disse in dialetto:

«Ah! Vossia è? Scusassi».

La luce della torcia si spense, i due uomini si allontanarono, io, con le gambe di legno, cercai di camminare il più dignitosamente possibile verso casa, ma appena girai l’angolo, fuori dalla loro vista, mi misi a correre verso il portone, lo aprii il più velocemente possibile, salii le scale, mi precipitai dentro l’appartamento, andai sparato in bagno e lì, per la paura, vomitai anche gli occhi. Trascorsi una notte infame.

L’indomani mattina alle nove, raccolti i resti dei miei risparmi, che ammontavano a centocinquanta miserabili amlire, andai al caffè Castiglione, dove c’era il posto pubblico telefonico, e chiamai la mia amica Elena, che abitava ad Agrigento ed era una ragazza molto ricca. Le raccontai la mia situazione e lei non ebbe esitazioni: «Stamattina vado in banca, ritiro quello che ti occorre e nel primo pomeriggio te li mando con mio fratello Giovanni».

Rinfrancato, ordinai un caffè e mi appoggiai con i gomiti al banco, la testa tra le mani. In quel preciso momento qualcuno mi si affiancò.

«Buongiorno» mi disse.

Io mi voltai a guardarlo: era uno scaricatore del porto che conoscevo bene, perché suo figlio era stato mio compagno alle elementari. L’uomo continuava a fissarmi sorridendo, allora per me fu naturale chiedergli: «Perché sorridi?».

Avvicinò la sua testa alla mia, sussurrò: «Stanotte vossia mi fici perdere la nottata. Me lo voli pagare almeno un caffè?».

Dunque quell’uomo era uno dei due assalitori della notte precedente.

«Volentieri te lo pago» gli dissi.

Ci bevemmo il caffè sorridendoci, poi ci stringemmo la mano e ce ne andammo. Nel pomeriggio, alle quattro, arrivò Giovanni con la sua motocicletta. Elena era stata di parola: dentro una grossa busta c’erano diciottomila amlire in contanti. Col denaro in tasca mi diressi verso lo scagno di don Sasà, che era al centro del corso. Don Sasà era il più grosso esportatore di mandorle e cereali del mio paese; per accedere nel suo ufficio bisognava scendere due gradini. Dalla porta mi accorsi che don Sasà era solo, seduto alla sua scrivania, stava facendo dei conti.

«C’è permesso?»

«Ah! Tu sei? Viene avanti Nené!»

Restai in piedi davanti al tavolo.

«Che vuoi?»

«Vengo a pagare il mio debito» dissi estraendo la busta dalla tasca e posandogliela davanti. Don Sasà non la toccò nemmeno.

«Aprila e contali.»

Feci come lui mi aveva ordinato. Alla fine della conta si spostò leggermente all’indietro con tutta la sedia, aprì il cassetto centrale della scrivania e, allungando il braccio, vi fece cadere dentro le banconote e la busta. Richiuse il cassetto, mi guardò fisso negli occhi, mi porse la mano.

«Arrivederci» dissi io.

Voltai le spalle e mi diressi verso la porta. Ma, appena ebbi finito di salire i due gradini, mi sentii richiamare.

«Nené!»

Mi fermai, mi voltai.

«Che c’è?»

«Torna accà!»

Ridiscesi i gradini, mi fece segno di avvicinarmi alla sua scrivania. Aprì il cassetto e mi disse indicandomeli: «Ripiglia i tuoi soldi».

Io esitai. «Perché?»

E lui, sempre guardandomi fisso: «Perché io non posso accettare i denari di un picciotteddro come sei tu. Non discutere».

E infatti con don Sasà non si poteva discutere. Era un cinquantino tracagnotto dai grossi baffi neri, dal volto duro, di scarsa parola; non era un mafioso, ma era un uomo rispettato. Io ricordo di averlo visto girare sempre armato. E così non discussi, mi ripresi il denaro, lo rimisi nella busta, gli dissi: «Grazie», e feci per andarmene.

Lui mi fermò ancora una volta, e mi fece: «T’avverto per il futuro: ti capitasse ancora di voler giocare, caro Nené, jocati solamente i soldi che hai nella sacchetta. Pirchì abbisogna sempre stendiri lu pedi fino a quando il lenzolo teni».