Racconto di Giancarlo Pertici

 

 

Sono segni inconfondibili, quasi immutabili, di una liturgia consolidata dal tempo e dalle abitudini, a rendere simili, se non uguali, quei pomeriggi, quando si tratta di un giorno di festa come lo è la domenica, riconoscibili nei saluti, nei sorrisi, dalle scarpe appena risuolate, dal vestito della festa che tutti indossano, iniziando dal piccino in carrozzina fino al vecchio del ricovero, dal contadino all’impiegato del Comune, dalla massaia ai ragazzotti che sciamano all’improvviso da ogni uscio, liberi da impegni di scuola, dopo che in mattinata hanno assolto quelli della ‘dottrina’, con indosso il vestito della festa, talvolta, ma non sempre, pantaloni lunghi, scarpe buone ai piedi e calzini bianchi. È domenica.

Pomeriggi che principiano sempre presto, appena desinato, anche se nessuno mostra particolare frenesia o fretta nell’uscire di casa per farsi la propria domenica, ben diversa dai lunghissimi giorni di lavoro, anche se sempre o quasi uguale.

All’appalto del Giorgi i primi arrivi e le prime soste, di quei contadini dei paraggi, da sotto Pancole e di quelli nei dintorni de ‘I Cappuccini’ a fare scorta sopratutto di sigari e di tabacco da pipa. Beppe l’arrotino tra i primi a prender posto per una partita a carte, scopa o briscola, per un gotto di vino. Nella bottega di fronte, Pietro ha già imbandito i soliti tavoli. Musolino che ha saltato la sbornia della mattina, è sempre o quasi così quando è festa, scozza le carte speranzoso che qualcuno gli faccia vincere quegli spiccioli o i mezzini necessari alla sua bisogna; bisogna che Livia, la moglie, teme sempre.

Da Olimpia solo vecchietti del ricovero, messi a lucido dalle suore, cravatta compresa, in su l’uscio, a sedere sulla panca a guardare chi passa, e dall’altra parte della strada Livia insieme a Iole e alla Centolire a fare il paio, chiacchierando di tutto quello che riguarda chiunque passi, mentre si dondolano sulle seggiole reclinate ed appoggiate al muro di casa, a salutare a destra e a manca, ampi gesti del capo a sottolineare un…- ” Buona sera Vestro… Saluti Vergella… signor Fabbrizzi… i miei rispetti e saluti alla signora.. ” – etc

In Piazza de’ Polli, se è primavera, il Bulleri ha già piazzato qualche tavolo davanti all’uscio del Bar, lasciando appena il passo per chi entra per un caffè. È un brusio indistinto che si ode anche in lontananza a suggerire, dal tono e dal timbro della voce, chi ci sia già in piazza e di cosa stia discutendo, politica o sport.

Al Circolino dello Scioa è un continuo aprire e chiudere di quella porta a molla, che col suo movimento cigolante, annuncia ogni nuovo arrivo dal ‘Poggio’, da piazza de’ Polli o da piazza dell’Ospedale. Non solo carte, ma anche campetto di bocce sul retro e la radio sintonizzata sul ‘calcio minuto per minuto’ per i risultati in diretta delle partite della domenica.

In Santo Stefano la porta della canonica resta, come al solito, spalancata come ogni pomeriggio, anche se è domenica, per quei bambini, sopratutto maschietti, lasciati liberi di scorrazzare a piacimento e che, attratti dal calcio balilla, dal ping-pong o dal biliardo con le stecche, sono disposti a sorbirsi il vespro della sera, rosario compreso, sotto le ali di mons. Cosimo Balducci.

In Piazza del Seminario, la quiete assoluta di inizio pomeriggio viene interrotta dall’improvviso sciamare dei seminaristi, a gruppi. Tonaca e cotta di ordinanza, in fila indiana, sembrano volare, in perfetto silenzio, su per quell’ampia scalinata che porta sul prato e in ‘Duomo’ per il vespro della domenica. Gruppi che dopo un’ora circa rifanno il percorso all’inverso, rompendo la consegna del silenzio, tra grida e risa per una discesa libera, verso una passeggiata ad inondare le diverse vie del centro cittadino.

Appena passata quella piazza, in quei primi anni ’50, siamo nel centro vitale della San Miniato festaiola, con più alternative, sopratutto se è già primavera, iniziando dalla piazzetta del Fondo con il Bar Sport dedito allo struscio e alla siesta all’ombra di ombrelloni e tavolini piazzati a bordo strada, per quanti preferiscono una bibita fresca, salutare chi passa e sentirsi ricambiato.

Al circolo della Misericordia sono sopratutto tavoli da gioco il pezzo forte che attira irresistibilmente nonno Nuti, che fa rientro a casa solo all’ora di cena o giù di lì. Ferruccio dispensiere attento anche a tener il conto di vincite più o meno in natura che passano di mano a fine serata, da nonno a nipote.

Sotto i Chiostri è dalla mattina che Cionce, piazzato il suo banchetto, vende di tutto, dalle caramelle, alle liquirizie, alle paste, ai duri di menta, tra gassose e aranciate, pronto ad entrare, cassetta a tracolla, nel sottostante Cinema Italia alla fine di ogni tempo. Cinema popolato sopratutto di bambini; i film di indiani o di avventure. E nell’attesa, tra i grandi, chi a sorseggiare un caffè al Bar Centrale dal Lilly, chi quello del Corri. Dal Cecconi si sta in piedi, per un “espresso” che si rispetti e per commentare, mano a mano, le notizie sportive di ‘Tutto il calcio minuto per minuto’, mentre, proprio sul finire di quegli anni, fervono importanti lavori a rinnovare il Bar Cantini per la gestione Desideri e… in piazza del Popolo, puntualmente, l’ultimo manipolo di tifosi del San Miniato calcio prende la via diretto al ‘Santa Maria al Fortino’.

È in questa particolare aria di festa per i grandi, che i più piccoli vengono spesso destinati ad altre mete, lontani dai giochi soliti, dai soliti amici, per riti e liturgie spesso neppure date a d’intendere. Ad un “perchè?”, la risposta è spesso “è così e basta” e si parte per il Camposanto, ogni domenica o quasi. Quasi, perché ci sono anniversari e ricorrenze anche infrasettimanali per le quali è irrinunciabile la visita al camposanto, una vera e propria trasferta a portarsi via un intero pomeriggio. Giancarlino non è il solo, ma uno dei tanti, che con un mazzetto di fiori, spesso recuperato nell’orto di nonna o di casa Vannini, esce di casa ad inizio pomeriggio, l’altra mano tesa e compresa in quella di mamma per un percorso a tappe fatto di tante soste, non tutte in linea, a salutare, a chiacchierare, a soffermarsi da nonna Livia per le solite comande: – “candele, preghiere, lumini…” – Iniziando dalla rampicata fino nella ‘soffitta’ di Gallina dove nonno Lillo e zia Norma sono tornati di casa poco dopo la guerra. Rampicata che sembra legata a quel ventino col quale nonno Lillo intende ripagare nuora e nipote della visita della domenica, sorseggiando insieme un caffè alla napoletana.

In piazza de’ Polli, appena inizia la salita per Santo Stefano, su quel terrazzino a sbalzo, le sorelle Giampieri, a godere del fresco o del sole di inizio pomeriggio – dipende dalla stagione – non lasciano passare nessuno senza aver prima scambiato due chiacchiere. Quando arriva Eda col bimbo per mano – loro un po’ parenti acquistati, alla lontana, almeno un tempo, finché Cesare, cugino di Eda, non fu buttato fuori di casa dopo l’ennesima sbronza – Iolanda, per un periodo cugina acquistata appunto, chiede notizie di ‘quasi zie’, di ‘quasi cognate’, che quando passano neppure saluta. Ma tra Eda e Iolanda c’è oramai una sorta di amicizia e di complicità, tutte alla lontana, che si conclude, dopo l’ultimo saluto – “accendimi un lumino in cappella” – con – “l’arrivederci” – di Iolanda che allunga due spiccioli, ad Eda che non disdegna mai. Ne resta sempre per un lumino anche per la tomba di Gino.

Davanti alle scuole l’incontro con Elvezia, breve, con fermata rimandata sulla via del ritorno attorno ad una tazza di caffè, lassù all’ultimo piano della scuola, in quelle due stanze, dove Elvezia vive da bidella. Pare impossibile che si conoscano tutti, ma è così, ad ogni portone, aperto o con la chiave infilata, ad ogni finestra spalancata, basta un cenno, una domanda anche appena accennata, un gesto e ci si ferma. Per Giancarlino, in quella posizione innaturale, mano nella mano a mamma, momenti che sembrano interminabili, mentre ondeggia ad ogni parola, ad ogni battuta mimata a gesti. Fortunatamente quando si arriva in Piazzetta del Fondo e si attraversa tutto il centro fino dai Carabinieri, in Piazza Grifoni, la mamma passa a capo chino, sopratutto dopo aver dato uno sguardo all’orologio di piazza San Domenico che non mente; segna e segnala che si è fatto tardi. Un saluto alla Tocchina appena prende per la discesa; si conoscono da anni. Una reverenza a mons. Vezzi che a quell’ora esce di canonica per unirsi agli altri del Capitolo della Cattedrale per il vespro. Solo se incrocia la Naccherina, infermiera con nonna Livia nello stesso reparto dell’ospedale, si sofferma e, per non risultare scortese, accetta anche un caffè, accompagnato quasi sempre o quasi da una caramella o da un cioccolatino per il bimbo, che coglie l’occasione per tirare un attimo il fiato seduto sugli scalini di casa, lì a due passi dal Santa Chiara, il conservatorio.

Quando si arriva a Santa Maria a Fortino, sopratutto se c’è la partita di calcio, mamma tiene la destra iniziando già da appena passata la ‘Valdarno’ che in quegli anni sta portando la luce in casa a tutti. Sguardo fisso a terra rasentando quel cantiere, il nuovo Liceo in costruzione, l’unico incontro gradito, quello di zio Rodolfo, il fratello di mamma.

Di lì a un tiro di voce, a bordo strada, sulla sinistra, quasi di fronte alla Via che porta al Biagionato del Pinocchio, la casa di Zia Rosa, sorella di nonno Lillo. Fermata inevitabile ogni domenica in quella casa che dall’aspetto visibile pare a un solo piano. Tre scalini a scendere in una cucina che prende luce quasi esclusivamente dalla porta a vetri di ingresso e dal riverbero del camino che occupa tutta la parete di fondo, sempre acceso in inverno. Casa che si apre nel retro sulla valle: ben due i piani sotto il livello stradale, al primo le camere e al secondo le stalle con le mucche da latte. C’è sempre un dolcetto, un goccio di vin santo o di verdea, dipende dalla stagione. Fermata non sempre breve, con Rosa a chiedere le ultime nuove di famiglia e di paese, e per commissioni e scambi di saluto, qualche candela da accendere in cappella e lumini per i suoi morti. Da quando ha passato gli ottanta, raramente si muove da quella cucina, solo qualche volta al mercato, e per la domenica dopo i morti, alla ‘Festa del Camposanto’.

Il Camposanto lì a due passi tutto in discesa, con i suoi due filari di cipressi, severi dall’aspetto, rifugio sopratutto di passerotti e merli. La domenica iniziando dal primo pomeriggio è particolarmente animato. Poche le note di colore. Il colore che predomina è il bianco e il nero. Solo le voci dei bambini rendono viva l’atmosfera, anche se con molte limitazioni – “non gridate”, “non passate di là”, “non correte”, “non sedetevi sulle tombe, alzatevi di lì!”, “non pesticciate…”- A quell’ora Giancarlino non è l’unico bambino in giro per il camposanto. La voglia di rincorrersi, di nascondersi, di mettersi a giocare, magari a filetto e basta, con tutti quei sassolini bianchi o grigi a disposizione… è tanta veramente, la voglia… per di più ingessati nel vestitito della domenica dentro i sandali di cuoio o di sugatto, di quelli spuntati della Balducci.

Attesa mai breve, tra una chiacchiera e l’altra, da una tomba all’altra, solo qualche malestro attira l’attenzione di mamme o nonne, per questi piccoli, per un viaggio di ritorno che Giancarlino, come tanti altri, fanno in tutta leggerezza. Oramai il più è fatto, pare essere il suo pensiero, passando oltre, senza fermasi a casa di zia Rosa. E da lì, senza altre soste, fino al circolo della Misericordia, dove è sempre in programma una sosta obbligata. Per Giancarlino, il ritorno alla normalità, alla quotidianità, quella garantita da nonno Nuti, evitando un supplemento di sosta da Elvezia, per oltre 30 scalini fin quasi verso l’ora di cena.

Con nonno Nuti, altra musica iniziando con un cavalluccio e qualche cioccolatino in attesa della fine della partita in corso. Limiti nessuno. Guai ad uscire in istrada. Poi il ritorno a casa sull’onda dell’ultimo racconto di Tonino che nonno Nuti tiene sempre in serbo, non ne resta mai senza.

“Chi hai visto? che hai fatto? L’hai incontrato il tale? Hai acceso la candela a nonna Nunziatina?… ” queste domande e altre ancora, quelle del babbo al piccolo Giancarlino che di regola ascolta muto, non sapendo cosa rispondere, specialmente se esordisce, il babbo, con una delle solite domande di cui Giancarlino non comprende bene il senso. “L’hai vista la tomba del generale tale? la lapide?… l’epigrafe?… ” quasi sempre queste le domande fatte, senza attendere risposta, ma con le quali il babbo sembra voler entrare nell’atmosfera giusta per declamare, ogni domenica, alla stessa ora, prima di sedersi a tavola per cena, quella lapide che assieme ad altre, sotto il loggiatino del Cappuccini, ha fatto parte della sua infanzia e che ricorda la morte di un giovane soldato nella grande guerra. Il babbo la ripete sempre a mente integralmente, anche nel corso degli anni successivi, quando il piccolo Giancarlino si è fatto grande, oramai padre e Manlio nonno e in pensione da anni “Qui giace Cosimo Pini…”. Epigrafe di cui Giancarlino, fattosi grande, non ricorda più altro, se non le prime quattro parole per una lapide che, assieme alle altre, è scomparsa, rimossa da quel loggiato dei Cappuccini, ora Centro Congressi della banca di San Miniato.