Racconto di Alberto Moravia

 

 

Verso la metà dell’inverno il comitato direttivo di uno dei più noti circoli di tennis della nostra città, decise di dare un gran ballo di gala. Il comitato, composto dai signori Lucini, Mastrogiovanni, Costa, Ripandelli e Micheli, dopo aver stanziato una somma di denaro per l’acquisto dello champagne, dei liquori e della pasticceria e per il noleggio di una buona orchestrina, passò alla compilazione della lista degli invitati. I membri del circolo appartenevano per la maggior parte a quella classe comunemente chiamata grossa borghesia; erano, dunque, tutti figli di famiglie ricche e stimate, e, poiché bisogna pure lavorare, esercitavano tutti più o meno qualche parvenza di professione; cosí non fu difficile tra parenti, amici e conoscenze radunare un numero sufficiente di nomi, molti dei quali preceduti da titoli nobiliari di secondaria importanza, ma decorativi, avrebbero poi dato, nei resoconti mondani dei giornali, un lustro aristocratico alla festa. Ma all’ul- timo momento, quando non restava altro da fare che diramare gli inviti, ecco, come il solito, sorgere una difficoltà imprevista:

«E la principessa non l’invitiamo?» domandò Ripandelli, un giovane sui trent’anni, d’una bellezza alquanto meridionale: capelli neri e lucidi, occhi neri, volto ovale, bruno, dai tratti perfetti; era conosciuto per la sua rassomiglianza con uno dei più noti artisti cinematografici americani, lo sapeva, e se ne serviva per far colpo alle donne.  Mastrogiovanni, Lucini, e Micheli approvarono l’idea di invitare la «principessa»; sarebbe stato un divertimento di più, dissero, forse il solo divertimento; e con grandi scoppi di risa e colpi sulle spalle si ricordarono a vicenda quel che era successo l’ultima volta: la «principessa» ubriaca, lo champagne nei capelli, le scarpette nascoste, e lei costretta ad aspettare la partenza dell’ultimo invitato per potersene andare a piedi scalzi, etc… etc…

Soltanto Costa, L’uccello di malaugurio come lo chiamavano, alto, dinoccolato, dai grossi occhiali cerchiati di tartaruga appoggiati sul lungo naso, e dalla barba, sulle guance magre, mai abbastanza rasa, soltanto Costa protestò:  «No», disse, «la principessa questa volta lasciatela a casa sua… ne ho avuto abbastanza dell’ultimo ballo… se volete divertirvi andate a farle una visita, ma qui no…».

I compagni insorsero, gli dissero chiaramente quel che pensavano di lui, e cioè che era un guastafeste, uno stupido, che, in fin dei conti, il padrone del circolo non era lui.  Erano due ore che sedevano nella stanzetta della direzione, il fumo delle sigarette annebbiava l’aria, faceva un caldo umido a causa della calce ancor fresca dei muri, tutti portavano sotto le giacche grosse maglie policrome. Ma là attraverso i vetri della finestra, si vedeva un solo ramo di abete sporgere, cosí immobile e malinconico contro il fondo grigio del cielo, che non c’era bisogno di andare a vedere per capire che stava piovendo.

Costa si alzò: «Io lo so», disse con forza, «che avete intenzione di fare chissà quali porcherie con quella disgraziata… ebbene ve lo dico una volta per tutte… è una vigliaccheria e dovreste vergognarvene ». «Costa, ti credevo più intelligente», affermò Ripandelli senza muoversi dal suo posto.

«E io te meno malvagio», rispose Costa; staccò il pastrano dall’attaccapanni e uscí senza salutare. Dopo cinque minuti di discussione, il comitato decise all’unanimità di invitare anche la principessa al ballo.

Il ballo incominciò poco dopo le dieci di sera. Aveva piovuto tutto il giorno, la notte era umida e nebbiosa, dal fondo del viale suburbano sul quale sorgeva la casina del circolo si poteva vedere, laggiú, in quella buia lontananza, tra due file oscure di platani, uno splendore, un movimento confuso di luci e di veicoli: erano gli invitati che arrivavano. Nel vestibolo un servitore preso a nolo li sbarazzava dei loro mantelli, quindi, le donne nei loro leggeri vestiti, gli uomini in frak, passavano discorrendo e ridendo nella grande sala sfarzosamente illuminata.

Questo salone, assai vasto, era alto quanto la casina: un ballatoio dalla balaustrata di legno tinto di turchino ne faceva il giro al livello del secondo piano. Sul ballatoio si aprivano alcune camerette adibite a spogliatoi e depositi di strumenti sportivi; un enorme lampadario dello stesso stile e dello stesso colore della balaustrata pendeva dal soffitto e per l’occasione vi erano stati attaccati dei festoni di lampioncini veneziani che andavano a raggiungere i quattro angoli della sala; parimenti verniciato di turchino era lo zoccolo; e in fondo, sotto l’angolo della scaletta che saliva al piano superiore stava incastrato il banco del bar con le sue colorate file di bottiglie e la sua brillante vaporiera.

La «principessa» che non era principessa, ma a quanto si diceva soltanto contessa (e si raccontava pure che a suo tempo aveva fatto vita di società, e che ne era stata esiliata per una brutta storia di adulterio, di fuga e di rovina finanziaria) arrivò poco dopo le undici. Ripandelli, che sedeva in un gruppo di signore di fronte alla porta spalancata del vestibolo, vide la nota figura, bassa, piuttosto tozza, dai piedi voltati in fuori come quelli dei palmipedi mentre, voltandogli il dorso un po’ curvo, porgeva la cappa al servitore.  «Ci siamo», pensò e, col cuore pieno di esultanza, le si avventò incontro attraverso la folla danzante e la raggiunse appena in tempo per impedirle di schiaffeggiare il servitore col quale, per qualche suo futile motivo, aveva attaccato briga.

«Benvenuta, benvenuta…», le gridò dalla soglia.

«Ah Ripandelli, mi liberi lei da quest’animale», disse la donna voltandosi. La faccia della principessa non era bella: sotto una foresta di capelli crespi, tagliati molto corti, gli occhi neri, rotondi e contornati di rughe, brillavano pesti e spiritati; il naso lungo e sensuale, aveva narici piene di peli; la bocca larga dalle labbra tinte e cincischiate dall’età prodigava continuamente sorrisi brillanti, fatui e convenzionali. La principessa vestiva in maniera insieme vistosa e misera: sul vestito fuori moda, dalla gonna lunga, dal corsetto cosí attillato che due riflessi giuocavano sui due rigonfi lunghi e allampanati del petto, forse per nascondere la scollatura troppo bassa, ella aveva gettato uno scialle nero con uccelli, fiori e arabeschi di tutti i colori; la fronte se l’era stretta in una fascia da cui scappavano d’ogni parte i capelli ribelli. Cosí acconciata, carica di gioielli falsi, guardando davanti a sé con un occhialino d’argento, ella fece il suo ingresso nella sala.

Per fortuna la confusione del ballo impedí che fosse osservata. Ripandelli la guidò in un angolo: «Cara principessa», disse assumendo subito un tono sfacciato, «che saremmo diventati se lei non fosse venuta? »

Gli occhi illusi della donna mostravano chiaramente che prendeva sul serio qualsiasi stupidaggine le venisse detta; ma per civetteria rispose: «Voialtri giovanotti gettate l’a- mo a più donne che potete… più ne abboccano meglio è… non è cosí?»  «Balliamo principessa», disse Ripandelli alzandosi.

Ballarono.

«Lei balla come una piuma», disse il giovane che sentiva quel corpo pesare per intero sul suo braccio.

«Tutti me lo dicono», rispose la voce stridula. Schiacciata contro il petto inamidato della camicia di Ripandelli, palpitante, la principessa pareva rapita in estasi. Ripandelli si fece più ardito. «Ebbene, principessa, quando m’invita a casa sua?»

«Ho un cerchio molto stretto di amici», rispose la disgraziata che viveva notoriamente in completa solitudine, «proprio l’altro giorno lo dicevo appunto al duca L., che mi pregava per lo stesso favore… un cerchio strettissimo di gente scelta… cosa vuole, di questi tempi non si può mai essere abbastanza sicuri».

«Brutta strega», pensò Ripandelli; «ma no», riprese ad alta voce, «io non voglio essere invitato con tutti gli altri… Iei mi deve ricevere nella sua intimità… per esempio nel suo boudoir… oppure… oppure nella sua camera da letto».

La frase era forte ma la donna l’accettò senza protestare: «E, se l’invito», domandò con voce tenera e un poco ansante a causa dell’emozione della danza: «mi promette di essere buono?»  «Buonissimo».

«Allora stasera le permetterò di accompagnarmi a casa… Lei ha l’automobile, non è vero?»

Il ballo era finito e poiché la folla passava lentamente nella stanza del buffet, Ripandelli accennò ad un salottino particolare, al secondo piano, nel quale li aspettava una bottiglia di champagne:

«Di qui», disse mostrandole la scala, «cosí potremo parlare con maggiore intimità».  «Eh, è un furfante lei», disse la donna salendo in fretta la scala e minacciandolo con l’occhialino, «ha pensato a ogni cosa…».

Il salottino particolare era una stanzetta piena di armadietti bianchi, nei quali venivano di solito riposte le racchette e le palle. Nel mezzo, sopra una tavola, c’era una bottiglia di champagne tuffata nel suo secchio. Il giovane chiuse la porta, invitò la principessa a sedersi e le versò subito da bere.

«Alla salute della più bella fra le principesse», brindò in piedi, «della donna a cui penso giorno e notte».

«Alla sua salute», ella rispose sperduta ed eccitata. Aveva lasciato cadere lo scialle e mostrava le spalle e il petto: il dorso magro pareva quello di una donna ancora giovane ma, davanti, la scollatura del vestito scendeva ad ogni movimento ora da una parte ora dall’altra e lo scolorimento della carne ingiallita e grinzosa rivelava il disfacimento dell’età. Ripandelli, la testa appoggiata sulla mano, le fissava addosso due occhi falsamente appassionati.

«Principessa mi ami?» le domandò ad un tratto con voce ispirata.

«E tu?» ella rispose con straordinaria sicurezza. Poi, come vinta da una tentazione troppo forte, tese un braccio e posò una mano sulla nuca del giovane; «e tu?» ripeté.”  Ripandelli diede un’occhiata alla porta chiusa; ora il ballo doveva essere ricominciato, se ne sentiva il frastuono cadenzato.

«Io», rispose con lentezza, «io mia cara mi consumo per te, sono impazzito, non connetto più». Si udí bussare; poi la porta si aprí, e Lucini, Micheli, Mastrogiovanni e un quarto che aveva nome Jancovich irruppero nella stanza. Questo quarto imprevisto, era il più vecchio membro del circolo, poteva aver cinquant’anni ed era già tutto brizzolato; di persona era dinoccolato, con una faccia lunga, magra e malinconica, un naso sottile, e due rughe profonde e Ironiche che gli solcavano il volto dagli occhi fino al collo. Industriale, guadagnava molto; la maggior parte della giornata, la passava al circolo del tennis a giocare a carte; al circolo anche i ragazzi lo chiamavano col suo nome di battesimo, Beniamino. Ora, appena Jancovich ebbe veduto Ripandelli e la principessa, come era stato prestabilito, cacciò un grido di dolore levando le braccia al soffitto:               «Come, mio figlio qui ? e con una donna ? e precisamente con la donna che amo? »  Ripandelli si voltò verso la principessa: «Ecco mio padre… siamo perduti…».

«Esci di qui», continuava intanto Jancovich con la sua voce melensa, «esci di qui, figlio snaturato».

«Padre mio», rispose fieramente Ripandelli, «non obbedirò che ad una sola voce, quella della passione».

«E tu amor mio…», soggiunse Jancovich volgendosi con espressione triste e dignitosa verso la principessa «non lasciarti abbindolare da quel mascalzone di mio figlio, vie- ni da me invece, appoggia la tua vezzosa testolina sul petto del tuo Beniamino che non ha mai cessato di amarti».

Mordendosi a sangue le labbra per non ridere, Ripandelli si scagliò contro il suo sedicente padre: «A me mascalzone, a me?» Quindi seguí una bella scena di confusione e di sdegno. Jancovich da una parte, Ripandelli dall’altra, trattenuti a stento dagli amici, fingevano di fare ogni sforzo per raggiungersi e azzuffarsi; cento grida di: «Teneteli, teneteli, sennò si ammazzano», si levavano dal tumulto insieme con risate mal dissimulate; rannicchiata in un angolo, atterrita, la principessa giungeva le mani.

Finalmente fu possibile calmare quegli indemoniati.

«Qui non c’è rimedio», disse allora Lucini facendosi avanti: «Padre e figlio innamorati della stessa donna: bisogna che la principessa scelga».

Fu intimato alla principessa di dare il suo giudizio. Indecisa, lusingata, preoccupata, ella uscí dall’angolo con quel suo passo dondolante, un piede di qua e l’altro di là: «Io non posso scegliere», disse alfine dopo aver attentamente osservato i due contendenti,                «perché… perché mi piacete tutti e due».

Risa ed applausi; «ed io principessa ti piaccio?» domandò improvvisamente Lucini prendendola per la vita. Questo fu il segnale di una specie di orgia: padre e figlio si riconciliarono, si abbracciarono; la principessa fu fatta sedere in mezzo a loro e le fu abbondantemente versato da bere. In pochi minuti fu del tutto ubriaca: rideva, batteva le mani, i capelli gonfi le formavano una testa enorme.  Gli uomini le facevano certe domande insidiose: «Qualcuno mi ha informato», disse ad un certo punto Micheli, che non sei principessa, che non sei niente e che sei figlia del salumiere dell’angolo: è vero?»

La donna s’indignò: «Era una linguaccia ed era certamente lui il figlio del salumiere… dovete saper che prima della guerra ci fu anche un principe del sangue che mi mando un meraviglioso mazzo di orchidee e un biglietto… e nel biglietto c’era scritto: Alla sua Adelina il suo Gogò»

Grandi scoppi di risa accolsero queste parole. Ai cinque uomini che nell’intimità si facevano chiamare dalle loro amanti, Niní, Lulú, amorino e porcellino mio, quel no mignolo di Gogò, quel vezzeggiativo di Adelina parvero il massimo della ridicolaggine e della stupidità; dalle risa si tenevano i fianchi, erano indolenziti; «ah Gogò, cattivo Gogò» ripetevano. Inebriata, lusingatissima, la principessa prodigava sorrisi, sguardi e colpi di occhialino.

«Principessa quanto sei spassosa», le gridava in faccia Lucini e lei, come se le avesse fatto un complimento, rideva. «Ah, principessa, principessa mia» cantava sentimentalmente Ripandelli; ma ad un tratto il suo volto si indurí: allungò una mano e ghermí crudelmente il petto della donna. Ella si divincolò, tutta rossa, ma poi subitamente rise e lanciò un tale sguardo al giovane che questi lasciò subito la stretta:

«Uh che petto floscio», gridò agli altri, «sembra di stringere un cencio… e se la spogliassimo?» Ormai il programma degli scherzi era quasi esaurito, questa proposta ebbe un grande successo:

«Principessa», disse Lucini, «ci hanno detto che hai un bellissimo corpo… ebbene sii generosa, mostracelo… dopo moriremo contenti».

«Su principessa», disse Jancovich con la sua voce seria e belante, mettendole senz’altro le mani addosso e cercando di abbassare sulle braccia le bretelline del vestito, «Il tuo bel corpicino non deve restarci nascosto… il tuo bel corpicino bianco e roseo, tutto pieno di fossette come quello di una bambina di sei anni».

«Sfacciati», disse la principessa ridendo. Ma dopo molte insistenze, acconsentí ad abbassare il vestito fino a mezzo petto: i suoi occhi brillavano, il compiacimento le faceva tremare gli angoli della bocca:

«Non è vero che sono ben fatta?» domandò a Ripandelli. Ma il giovane storse la bocca e gli altri gridarono che non bastava, che volevano vedere di più; Lucini diede uno strappo alla scollatura. Allora, sia che ella si vergognasse di mostrare il corpo troppo maturo, sia che tra i fumi del vino un barlume di coscienza l’avesse illuminata ed ella si fosse veduta in quella stanzetta bianca, tra quegli uomini imbestialiti, rossa, scarmigliata, col petto mezzo nudo, ad un tratto resistette e si dibatté: «lasciatemi, vi dico, lasciatemi», intimò divincolandosi. Ma il giuoco aveva eccitato i cinque uomini, due la trattennero per le braccia, gli altri tre le abbassarono il vestito fino alla cintola, denudando un torso gialliccio, pieno di pieghe, dal petto ciondolante e bruno.

«Dio com’è brutta», esclamò Micheli, « e quanta roba ha addosso… quanto è infagottata… deve avere addosso almeno quattro paia di mutande… ». Gli altri ridevano rallegrati dallo spettacolo di quella nudità squallida e furiosa, e cercavano di liberare i fianchi dal viluppo delle vesti.

Non era facile,la principessa si dibatteva con violenza, il volto rosso sotto il tosone dei capelli era compassionevole, tanto chiaramente esprimeva il terrore, la disperazione e la vergogna. Ma questa resistenza, invece di impietosire Ripandelli, lo irritava come i sussulti di una bestia ferita che non si decidesse a morire: «brutta strega, vuoi star ferma si o no?» le gridò improvvisamente e per dar forza alle sue parole prese dalla tavola un calice e gettò il vino ghiacciato sul viso e sul petto della disgraziata. Una specie di grido lamentoso e amaro, una frenetica rivolta seguirono questa brusca aspersione. E liberatasi non si sa come dalle mani dei suoi tormentatori, nuda fino alla cintola, le braccia levate sopra la testa fiammeggiante di capelli, trascinando dai fianchi in giú tutta una massa di panni rivoltati, la principessa si slanciò verso la porta.

Per un istante lo stupore impedí ai cinque uomini di agire. Ma Ripandelli gridò:

«Afferratela che ci scappa sopra il ballatoio», e tutti e cinque si precipitarono sulla donna a cui la porta previdentemente chiusa a chiave aveva ritardato la fuga. Micheli la afferrò per un braccio, Mastrogiovanni per la vita, Ripandelli addirittura per i capelli. La trascinarono daccapo alla tavola, quella resistenza li aveva imbestialiti, provavano un desiderio crudele di batterla, di punzecchiarla, di tormentarla. «Ma questa volta ti vogliamo nuda», le gridò in faccia Ripandelli, «nuda ti vogliamo». Ella spalancava gli occhi atterriti, si dibatteva, poi ad un tratto, incominciò a gridare.

Prima un grido rauco, poi un altro simile ad un singhiozzo, alfine, inaspettato, un terzo acutissimo, lacerante «Ahiii!!!» Spaventati Micheli e Mastrogiovanni la lasciarono. Forse soltanto in quel momento Ripandelli ebbe per la prima volta la sensazione della gravità della situazione nella quale coi suoi compagni si era cacciato. Fu come se una mano enorme gli avesse stretto il cuore, cosí, con cinque dita, come si stringe una spugna. Gli vennero un furore terribile, un odio sanguinoso contro la donna che si era daccapo scagliata contro la porta e gridando la tempestava coi pugni, e nello stesso tempo lo colpirono un senso nero di irreparabilità e quell’angoscia che fa pensare «non c’è più rimedio, il peggio è successo, meglio abbandonarsi alla china…». Un istante di esitazione; poi con una mano che non gli sembrò la sua tanto li parve indipendente dalla sua volontà, afferrò sulla tavola la bottiglia vuota e l’abbatté con forza sulla nuca della donna, una sola volta.

Ella si accasciò in terra attraverso la soglia, in una maniera che non lasciava dubbi sull’efficacia del colpo: sul fianco destro, con la fronte contro la porta chiusa, nel mucchio largo dei suoi cenci. In piedi, la bottiglia ancora in mano, Ripandelli concentrava tutta la sua attenzione sul dorso della donna. All’altezza dell’ascella c’era un neo della grandezza di una lenticchia; questo particolare, e forse anche il fatto che la folta capigliatura non lasciava vedere la faccia, gli fece per un secondo immaginare di aver colpito tutt’altra persona e per tutt’altra ragione: per esempio una splendida fanciulla dal corpo perfetto, troppo amata e invano, sulle cui membra esanimi egli si sarebbe gettato lagrimando, pentito, amaramente pentito, e che sarebbe forse stato possibile ricondurre in vita. Ma poi il torso ebbe uno strano sussulto, e bruscamente si rovesciò sulla schiena mostrando il petto, un seno di qua, L’altro di là, e orribile a vedersi, il volto. I capelli nascondevano gli occhi («per fortuna» egli pensò) ma la bocca semiaperta in un modo particolarmente inespressivo gli ricordò troppo bene certi animali uccisi che aveva veduto da bimbo. «Morta», pensò tranquillamente, e insieme spaventato dalla propria tranquillità. Allora si voltò, e posò la bottiglia sopra la tavola.

Gli altri quattro, seduti in fondo presso la finestra, lo guardavano incomprensivi. La tavola che era nel mezzo della stanza impediva loro di distinguere il corpo della principessa, non avevano veduto che il colpo. Poi, con una specie di cauta curiosità, Lucini si alzò, e sporgendosi in avanti, guardò verso la porta. La cosa era là, attraverso la soglia. I suoi compagni lo videro diventare bianco:

«Questa volta l’abbiamo fatta grossa», disse a bassa voce, in tono spaventato, senza guardarli.

Micheli si alzò che era seduto nell’angolo più lontano. Era studente in medicina, questa sua prerogativa gli dava come un senso di responsabilità: «forse è soltanto svenuta», disse con voce chiara, «bisogna rianimarla… aspettate». Prese un bicchiere mezzo pieno dalla tavola, si chinò sul corpo della donna, gli altri gli si raggrupparono intorno. Lo videro passarle un braccio sotto il dorso, sollevarla, scuoterla, versare un po’ di vino tra le labbra. Ma la testa dondolava, dalle spalle le braccia pendevano senza vita. Allora Micheli riadagiò la donna in terra e le appoggiò l’orecchio sul petto. Dopo un istante si rialzò.

«che sia morta», disse, ancora rosso per lo sforzo compiuto.

Ci fu un silenzio. «Ma copritela», gridò ad un tratto Lucini che non sapeva staccare gli occhi dal cadavere.

«Coprila tu».

Ancora silenzio. Dal basso il frastuono dell’orchestra arrivava distintamente, ecco, adesso era più sommesso, doveva essere un tango. I cinque si guardavano. Ripandelli solo fra tutti si era seduto, e curvo, con la testa fra le mani, guardava davanti a sé: vedeva che i pantaloni neri amici gli facevano circolo intorno, ma non erano abbastanza stretti, tra l’uno e l’altro, ecco, laggiù sotto la porta laccata di bianco, impossibile non vederla, la massa di quel corpo disteso.

«Ma è roba da matti», incominciò Mastrogiovanni come per protestare contro qualche idea assurda, rivolgendosi a Ripandelli, «con la bottiglia… ma cosa ti ha preso in quel momento?»

«Io non c’entro», disse qualcuno con voce tremante. Ripandelli, immobile, riconobbe Lucini. «Siete tutti testimoni che io ero seduto presso la finestra».

Fu Jancovich, il più vecchio di tutti, dal volto malinconico, dalla voce melensa, a rispondergli: «sí, sí», disse «discutete ragazzi miei… chi è stato e chi non è stato…

poi nel bel mezzo dell’interessante discussione entra qualcuno e andiamo tutti a finir di discutere in qualche altro posto».

«E tanto ci andremo in tutti i modi», disse Ripandelli cupamente.

Jancovich fece un gesto violento e comico: «Questo è pazzo… perché lui vuole andare in prigione, vuole che anche gli altri ci vadano». Un riso per un istante gli corrugò profondamente tutto il volto magro.

«Piuttosto state a sentire quel che vi dico…».

« ??? ».

« Ecco… la principessa viveva sola, non è vero? dunque non s’accorgeranno della sua sparizione prima di una settimana… noi ora andiamo a ballare, e comportiamoci come se nulla fosse successo… quando il ballo sarà finito, la caricheremo sopra la mia automobile e la porteremo in qualche altro posto, fuori di città… oppure… possiamo gettarla nel fiume… cosí crederanno che si sia uccisa… viveva sola… in un istante di sconforto… son cose che succedono… in tutti i casi se ci domandano dov’è diremo che ad un certo momento è uscita dalla sala e non è stata più riveduta… siamo intesi? »

Gli altri impallidirono, spaventati: la donna era morta, questo lo sapevano, ma l’idea di aver commesso un delitto, di aver ucciso, e di essere perciò in stato di colpa, non aveva ancora sfiorato la loro coscienza. La complicità che sentivano di avere con

Ripandelli era quella del divertimento, non quella dell’assassinio. Questa proposta di but- tare a fiume il cadavere li mise bruscamente di fronte alla realtà. Lucini, Micheli e Mastrogiovanni, protestarono, affermarono che non c’entravano, che non volevano entrarci, che Ripandelli si sbrigasse da sé.

«E va bene», rispose allora Jancovich che mentalmente aveva soppesato le possibilità giuridiche del delitto, «vuol dire che ci rivedremo in Tribunale…: Ripandelli sarà con- dannato per omicidio ma noi qualche annetto per complicità necessariamente lo prenderemo lo stesso». Silenzio costernato. Lucini che era il più giovane di tutti, era bianco, aveva gli occhi pieni di lagrime; improvvisamente agitò il pugno per aria: «Lo sapevo che doveva finir cosí, lo sapevo… ah non ci fossi mai venuto!»

Ma Jancovich aveva troppo evidentemente ragione. E poi bisognava decidersi: da un momento all’altro qualcuno poteva entrare. Il parere del più vecchio venne approvato, e, a un tratto, come se avessero voluto con l’azione soffocare il loro pensiero, i cinque uomini si diedero con alacrità a far scomparire le tracce del delitto. Bottiglia e bicchieri furono chiusi in un armadietto; il cadavere fu trascinato non senza difficoltà in un angolo e coperto con un panno spugnoso; c’era uno specchietto inchiodato alla parete, ciascuno di loro andò ad esaminarsi per vedere se era in ordine. Poi, uno dopo l’altro, uscirono dalla stanza, la luce fu spenta, la porta venne chiusa e la chiave la prese Jancovich.  In quel momento il ballo raggiungeva il massimo grado del suo splendore. La sala era affollata, folti gruppi di persone sedevano intorno alle pareti; altri stavano appollaiati sopra I davanzali delle finestre; nel mezzo la moltitudine dei ballerini si agitava in tutti i sensi; mille stelle filanti volavano da ogni parte; pallottole multicolori di ovatta venivano lanciate con abbondanza; da ogni angolo salivano stridenti i fischi acuti dei cetrioli di gomma e i suoni stridenti dei pifferi di cartone; palloncini di ogni tinta oscillavano tra i filamenti di carta pendenti dal lampadario, ogni tanto qualcuno ne scoppiava con asciutta sonorità, le coppie se li contendevano, cercavano di strapparseli, e facevano ressa intorno a chi aveva conservati intatti i suoi. Risa, voci, suoni, colori, forme, e azzurre nuvole di fumo di tabacco, tutto questo agli occhi estatici dei cinque curvi lassú dal ballatoio sopra la caverna luminosa, si confondeva in una sola nebbia dorata di irraggiungibile Mille e una Notte, faceva l’effetto di un paradiso di incoscienza e di leggerezza, perduto, per sempre perduto. Per quanti sforzi facessero, il pensiero li tirava indietro, li ricacciava nella stanzetta piena di armadi, con la tavola sparsa di bicchieri, le sedie in disordine, la finestra chiusa, e là, in un angolo, quel corpo. Ma alfine si scossero, discesero la scala.  «Allora mi raccomando», disse un’ultima volta Jancovich, «animazione, ballate, divertitevi come se nulla fosse successo». Poi Mastrogiovanni per primo, e gli altri die- tro, entrarono tutti e cinque nella folla e vi si confusero, indistinguibili ormai dagli altri ballerini che come loro vestiti di nero, a passo di danza, abbracciati alle dame, sfilavano lentamente davanti al palco dei suonatori.

(1927).