Racconto di Marta Casarini

 

 

Bruno arrivò nel nostro giardino un giovedì. Mio padre aveva appena riverniciato il cancello: aveva scelto l’azzurro, nonostante glielo avessi sconsigliato.

“È un colore da carabiniere” avevo detto.

Facevamo spesso questo gioco, nei giorni di pioggia o durante i viaggi in macchina attraverso la campagna; il gioco delle associazioni di idee.

“Io dico verde e tu?”

“Albero. Con albero tu cosa dici?”

“Terra. Con terra?”

“Fango. E con fango?”

“Impronta.”

Con “azzurro” io dicevo sempre “carabiniere”, anche se non era valido. Perdevo ogni volta, eppure non riuscivo a cambiare associazione. Mio padre mi prendeva in giro, e la punizione per chi perdeva era una dose extra di solletico senza pietà, quello che lasciava con l’affanno e il rischio reale di soffocare dalle risa. Il giovedì in cui arrivò Bruno, l’azzurro era dappertutto e in testa mi girarono per l’intero pomeriggio immagini di distintivi e stendardi. L’asfalto del cortile era chiazzato di colore, e intorno al secchio della vernice, orlato di colature, giacevano stremati rulli e pennelli di tutte le dimensioni. Io stavo a gambe incrociate sul gradino davanti al portone di ingresso. Osservavo l’anguria della pancia di mio padre ondeggiare al ritmo del pennello, e la pianta del rosmarino ferma nell’aiuola.

La settimana prima, mio padre aveva chiamato una ciurma di giardinieri a sfoltire la giungla cresciuta nel giardino. Io non ero in grado di prendermi cura delle piante: in brevissimo tempo, l’edera aveva preso possesso del terreno e le radici mi erano sfuggite di mano, facendo lo sgambetto alle rose che per schivarle si erano contorte in pose scomode. Facevano pena a guardarle, i gambi rachitici e le corolle dai colori abbaglianti, resistenti. Come un insulto diretto alla mia inettitudine. Una volta invece mi regalò un sacco di iuta con un enorme drago sputa fuoco dipinto su un lato. Il sacco aveva due buchi in cui infilare le braccia e uno più grande per la testa: quando indossavo quel sacco avevo un’armatura per difendermi da tutto. Dal raffreddore in autunno. Dalle ombre sotto il letto. Quel sacco sapeva di cantina e sottobosco, di pineta dopo una mareggiata. A distanza di vent’anni, in quel pomeriggio d’estate in cui tutto sarebbe cambiato, ancora sentivo nel fondo delle narici quell’odore umido d’immaginazione e coraggio.

«Con sacco?»

«Libertà.»

Quando arrivò, Bruno non trovò giochi puzzolenti ma un ordine perfetto. Le erbe aromatiche erano state disseppellite dalla catasta di foglie morte, ed erano libere di profumare il vento. Non c’era un filo d’erba fuori posto in tutto il giardino.

«Come va?» chiesi a mio padre.

«Quasi finito» rispose lui, avvicinando il naso al cancello. C’erano chiazze di ruggine vicino alla maniglia, e grumi di vernice rappresa accanto al fermo. Eppure, era impeccabile. Dritto, nuovo, pulito. In divisa.

“Pronta?” mi disse lui.

Non mi venne in mente nessuna associazione.

Sarebbe partito da lì a poco. Più nessun passo la notte in corridoio. Le gite in macchina le avrei fatte senza controcanti. La mattina nessuno mi avrebbe più svegliato con suoni di stoviglie e respiri. Poi arrivò Bruno. Forse dalle colline dall’altra parte della strada. Si incastrò, giunto dal nulla, tra le sbarre del cancello. Si sporcò di vernice azzurra il pelo morbido e la punta della coda.

“Vuoi arrestarmi?” pensai.

«Oh, guarda un po’» disse mio padre, «ti sei perso, piccolino?».

Bruno lo guardò di sbieco, cigolando un miagolio. Mi raggiunse al portone, strusciando il muso contro il mio polpaccio. Mio padre chiuse il cancello come accarezzasse una farfalla. Dalla strada davanti a casa non giungeva alcun rumore. Solo un debole ronzio, un sibilo di caffettiera accesa, qualcosa sul punto di sgorgare. Mio padre se ne andò un giovedì. Quella sera fummo ancora in due – sei zampe, in tutto – a salire le scale.

 

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