Racconto di Primo Levi
Come cliente, aveva un aspetto inconsueto. Nel nostro laboratorio umile e audace, a farsi analizzare le merci più disparate, veniva gente varia, uomini e donne, vecchi e giovani, ma tutti visibilmente inseriti nel grande reticolo ambiguo e furbesco del commercio. Chi per mestiere compra o vende si riconosce facilmente: ha l’occhio vigile e il volto teso, teme la frode o la medita, e sta in guardia come un gatto all’imbrunire. È un mestiere che tende a distruggere l’anima immortale; ci sono stati filosofi cortigiani, filosofi pulitori di lenti, perfino filosofi ingegneri e strateghi, ma nessun filosofo, che io sappia, era grossista o bottegaio. Lo ricevetti io, poiché Emilio era assente. Avrebbe potuto essere un filosofo contadino: era un vecchiotto robusto e rubicondo, dalle mani pesanti, deformate dal lavoro e dall’artrite; gli occhi apparivano chiari, mobili e giovanili, nonostante le grosse borse delicate che pendevano vuote sotto le orbite. Portava il gilè, dal cui taschino pendeva la catena dell’orologio. Parlava piemontese, il che mi mise immediatamente a disagio: non è educato rispondere in italiano a chi ti parla in dialetto, ti mette subito al di là di una barriera, dalla parte degli aristò, della gente per bene, dei “luigini”, come li chiamò un mio illustre omonimo: eppure il mio piemontese, corretto come forme e suoni, è così liscio e snervato, così educato e languido, che appare poco autentico. Piuttosto che un genuino atavismo, sembra il frutto di un diligente studio al tavolino, a lume di lanterna, su grammatica e lessico. In ottimo piemontese dunque, con argute venature astigiane, mi disse che aveva dello zucchero da chimicare: voleva sapere se era zucchero o no, o se c’era magari dentro qualche porcheria (“saloparìa”). Quale porcheria? Gli spiegai che, se mi avesse precisato i suoi sospetti, mi avrebbe facilitato il compito: ma mi rispose che non mi voleva influenzare, che facessi l’analisi meglio che potevo, i suoi sospetti me li avrebbe detti dopo. Mi lasciò in mano un cartoccio con dentro un buon mezzo chilo di zucchero, disse che sarebbe tornato l’indomani, salutò e se ne andò: non prese l’ascensore, scese tranquillo a piedi le quattro rampe di scale. Doveva essere un uomo senza angosce e senza fretta. Da noi, di clienti ne venivano abbastanza pochi, noi facevamo poche analisi e guadagnavamo pochi quattrini: così non potevamo comperarci strumenti moderni e rapidi, i nostri responsi erano lenti, le nostre analisi duravano molto più del normale; non avevamo neppure una targa in strada, per cui il cerchio si chiudeva e i clienti diventavano ancora più pochi. I campioni che ci lasciavano per le analisi costituivano un apporto non trascurabile al nostro sostentamento: Emilio ed io ci guardavamo bene dal far sapere che in generale bastano pochi grammi, ed accettavamo volentieri il litro di vino o di latte, il chilo di pasta o di sapone, il pacchetto di agnolotti. Tuttavia, data l’anamnesi, e cioè i sospetti del vecchiotto, sarebbe stato imprudente consumare quello zucchero così alla cieca, ed anche solo assaggiarlo. Ne sciolsi un po’ in acqua distillata: la soluzione era torbida, c’era certamente qualcosa che non andava. Pesai un grammo di zucchero nel crogiolo di platino (pupilla dei nostri occhi) per incenerirlo sulla fiamma: si levò nell’aria polluta del laboratorio l’odore domestico ed infantile dello zucchero bruciato, ma subito dopo la fiamma si fece livida e si percepì un odore ben diverso, metallico, agliaceo, inorganico, anzi, controorganico: guai se un chimico non avesse naso. A questo punto è difficile sbagliare: filtrare la soluzione, acidificarla, prendere il Kipp, far passare idrogeno solforato. Ecco il precipitato giallo di solfuro, è l’anidride arseniosa, l’arsenico insomma, il Mascolino, quello di Mitridate e di Madame Bovary. Passai il resto della giornata a distillare acido piruvico ed a speculare sullo zucchero del vecchio. Non so come l’acido piruvico si prepari modernamente; noi, allora, fondevamo acido solforico e soda in una casseruola smaltata, ottenendo bisolfato che gettavamo a solidificarsi sul nudo pavimento, e macinavamo poi in un macinino da caffè. Scaldavamo poi a 250°C una miscela di detto bisolfato ed acido tartarico, per il che quest’ultimo si disidrata ad acido piruvico e distilla. Questa operazione la tentammo dapprima in recipienti di vetro, spaccandone una quantità proibitiva; allora comperammo dal ferravecchi dieci canistri di lamiera, di provenienza Arar (1), di quelli che si usavano per la benzina prima dell’avvento del polietilene, che si dimostrarono adatti allo scopo; poiché il cliente era soddisfatto della qualità, e prometteva nuove ordinazioni, saltammo il fosso, e dal fabbro del rione ci facemmo costruire un rozzo reattore cilindrico di lamiera nera, munito di agitazione a mano. Lo incassammo in un pozzo di mattoni pieni, che aveva sul fondo e sulle pareti quattro resistenze da 1000 watt collegate illegalmente a monte del contatore. Collega che leggi, non ti stupire troppo di questa chimica precolombiana e rigattiera: in quegli anni non eravamo i soli, né i soli chimici, a vivere così, ed in tutto il mondo sei anni di guerra e di distruzioni avevano fatto regredire molte abitudini civili ed attenuato molti bisogni, primo fra tutti il bisogno del decoro. Dall’estremità del refrigerante a serpentina l’acido cadeva nel collettore in grevi gocce dorate, rifrangenti come gemme: “distillava” insomma, stilla su stilla, ogni dieci stille una lira di guadagno: ed intanto andavo pensando all’arsenico ed al vecchio, che non mi sembrava il tipo di tramare venefici e neppure di subirne, e non ne venivo a capo. L’uomo ritornò il giorno dopo. Insistette per pagare l’onorario, prima ancora di conoscere l’esito dell’analisi. Quando glielo comunicai, il suo viso si illuminò di un complicato sorriso grinzoso, e mi disse: – Mi fa proprio piacere. Io l’avevo sempre detto, che finiva così -. Era palese che non attendeva altro se non una minima sollecitazione da parte mia per raccontarmi una storia; non gliela feci mancare, e la storia è questa, un po’ deperita per effetto della traduzione dal piemontese, linguaggio essenzialmente parlato, all’italiano marmoreo, buono per le lapidi. – Il mio mestiere è di fare il ciabattino. Se si incammina da giovani, non è un brutto mestiere: si sta seduti, non si fatica tanto, e si incontra gente per cambiar parola. Certo non si fa fortuna, e si sta tutto il giorno con le scarpe degli altri in mano: ma a questo si fa l’abitudine, anche all’odore del cuoio vecchio.
La mia bottega è in via Gioberti angolo via Pastrengo: ci lavoro da trent’anni, il ciabattino… (ma lui diceva “‘l caglié”, “caligarius”: venerando vocabolo che sta scomparendo)… il ciabattino di San Secondo sono io; conosco tutti i piedi difficili, e per fare il mio lavoro mi bastano il martello e lo spago. Bene, è venuto un giovanotto, neppure di qui: alto, bello e pieno d’ambizione; ha messo bottega a un tiro di schioppo, e l’ha riempita di macchine. Per allungare, per allargare, per cucire, per battere suola: non saprei neppure dirle, io non sono mai andato a vedere, me l’hanno raccontato. Ha messo dei bigliettini col suo indirizzo e il telefono dentro a tutte le buche per le lettere del vicinato: anche il telefono, sì, neanche fosse una levatrice.
Lei crederà che gli affari gli siano andati subito bene. I primi mesi sì, un po’ per curiosità, un po’ per metterci in concorrenza, qualcuno da lui c’è andato, anche perché in principio teneva i prezzi bassi: ma poi ha dovuto alzarli, quando ha visto che ci rimetteva. Faccia attenzione che io tutte queste cose gliele dico senza volergli male: ne ho visti tanti come lui, partire al galoppo e rompersi la testa, ciabattini e mica solo ciabattini. Ma lui, me lo hanno detto, voleva male a me: a me mi raccontano tutto, e sa chi? Le vecchiette, quelle che hanno male ai piedi e non trovano più nessun gusto a camminare e hanno solo un paio di scarpe: quelle vengono da me, aspettano sedute che io gli aggiusti i difetti, e intanto mi tengono al corrente, mi raccontano la rava e la fava. Lui mi voleva male a me, e diceva in giro un mucchio di bugiarderie. Che risuolo col cartone. Che mi ubriaco tutte le sere. Che ho fatto morire mia moglie per l’assicurazione. Che a un mio cliente è spuntato un chiodo dalla suola e poi è morto di tetano. E allora, con le cose a questo punto, capisce che non mi sono stupito mica tanto quando un mattino, in mezzo alle scarpe della giornata, ho trovato questo cartoccio. Ho subito capito il macinato, ma volevo essere sicuro: così ne ho dato un poco al gatto, e dopo due ore è andato in un angolo e ha vomitato. Allora ne ho messo un altro poco nella zuccheriera, ieri mia figlia e io ne abbiamo messo nel caffè, e dopo due ore abbiamo vomitato tutti e due. Adesso poi ho anche la sua conferma, e sono soddisfatto. – Vuole fare denuncia? Ha bisogno di una dichiarazione? – No, no. Gliel’ho detto, è solo un povero diavolo, e non voglio rovinarlo. Anche per il mestiere, il mondo è grande e c’è posto per tutti: lui non lo sa, ma io sì. – Allora? – Allora domani gli rimando il cartoccio da una delle mie vecchiette, insieme con un bigliettino. Anzi, no: glielo voglio riportare io, così vedo che faccia ha e gli spiego due o tre cose -.
Si guardò intorno, come uno farebbe in un museo, poi aggiunse:
– Bel mestiere, anche il vostro: ci va occhio e pazienza. Chi non ne ha, è meglio che se ne cerchi un altro. Salutò, si riprese il cartoccio, e discese senza prendere l’ascensore, con la tranquilla dignità che gli era propria.
NOTE: (1) Azienda Rilievo e Alienazione Residuati
Scrivi un commento