Racconto di Grazia Deledda

 

È una felicità un po’ stracca e monotona, la nostra, appesantita dal caldo sciroccale di quest’agosto variabile, in riva al mare. Nulla ci manca; tutto, anzi, pare esclusivamente nostro. Nostra la casa, con intorno i freschi pioppi del Canada sempre sorridenti e danzanti, col mare blu e il cielo lilla fra i tronchi sottili, il suolo sparso di foglie che al primo sole sembrano davvero monete d’oro; e dall’altro limite la strada litoranea asfaltata e coperta di rena, sulla quale scivolano veloci e silenziose le automobili in viaggio estivo; e le innumerevoli biciclette delle donne e dei ragazzi con la testa in giù, i capelli svolazzanti nella corsa sfrenata, mettono un movimento e un’allegria di rondini a volo.

Sono belli e schietti, i tramonti che si godono da questa strada, camminando sicuri, sui margini ancora felpati di erba biondiccia, come su una corsia di casa nostra. Avanzandosi verso i campi, si vedono ancora prati teneri: le lucertoline guizzano fra l’erba come pesciolini in acqua e certe farfalle rosa e gialle si confondono coi fiori delle siepi. Il grande sole granato cade fra gli alti pioppi, sopra i casolari dei contadini e i pagliai rinnovati: si sente un odore di campagna autentica, che fa dimenticare di essere al limite di una stazione balneare, un tempo primitiva e quasi esclusivamente riservata ai contadini abbrustoliti che il giorno di San Lorenzo vi facevano sette bagni trascinandosi appresso le loro cavalcature, adesso diventata di mezzo lusso, col suo bravo Grand Hôtel maestoso eppure bonario, con le sue dame come il Re Marco con Isotta la bionda: coi suoi eccellenti premî letterari: infine col suo periodico illustrato, fonte di gloria o di mortificazione per i personaggi dei suoi elenchi mondani.

Il piacevole, di queste spiagge arriviste, alla conquista di una ricchezza stabile, è quello di trovarsi fra due mondi del tutto diversi: ti volti verso il mare e vedi la spiaggia popolata di bellissime donne quasi nude, e sul metallo del mare, fra le rosse e dorate paranze dei rudi pescatori adriatici, la sagoma di imbarcazioni eleganti con a poppa uomini ricchissimi, cantanti, artisti celebri: ti volti dal lato opposto, e i tetti bassi di vecchie tegole, coi comignoli fumanti, il grido delle anitre, le voci gravi della terra, ti rimandano al tuo villaggio natio, al quale si torna volentieri col pensiero, specialmente quando si ha la sicurezza di non rivederlo mai più nella realtà.

Di notte, poi, l’incanto è maggiore, se la luna, nascosta dalla fascia dei pioppi, pare immersa nell’argento del mare, e si sente un fruscio come di canneti animati di spiriti notturni, o, se il mare ha le sue inquietudini, un lontano suono di organo che le comunica al nostro cuore, egualmente profonde e indefinibili. Purché il caldo non faccia dimenticare le superflue fantasie, e le stelle filanti che solcano la fronte buia dell’orizzonte non diano l’idea che anche il cielo sudi.

Felicità, dunque, completata da piccoli aiuti quotidiani, da risoluzioni di problemi materiali che in città assumono spesso, per quanto sembrino banali, colore di dramma, turbando l’equilibrio delle ore di lavoro e della pace domestica. Qui tutto è facile, pronto e cordiale: se si ha bisogno di un operaio, ecco l’uomo appare come il mago del bosco, coi suoi arnesi miracolosi; c’è, di faccia a casa, il vecchio adusto contadino, che coltiva il nostro piccolo parco, e se gli si offre un bicchiere di vino canta ancora un inno alla vita; e la gagliarda compagna vi fa il bucato con la cenere vergine del suo focolare, e vi porta, strette al seno perché non perdano il calore del nido, le uova salutari. Passano, rapide e asciutte, le donne con l’offerta dei doni della terra e del mare: eccole ai vostri piedi, col loro odore di pesce o di solco concimato, coi loro cesti; e insistono perché, oltre al necessario, sia accettato un piccolo regalo di pomidoro o di cannocchie ancora vive.

Gradito è anche il passaggio dell’uomo delle maglierie, gobbo come un cammello sotto le sue gualdrappe frangiate e colorate; quando le espone sul parapetto della loggetta terrena, tutte le donne di casa corrono come api intorno ai fiori, sedotte dagli scialli che ricordano la coda del pavone e dalle magliette zebrate o rosse, soprattutto rosse, il colore che attira poi a sua volta intorno alle belle ragazze i mosconi amorosi.

Ma fra tutte le agevolezze e le oneste provvidenze di questo luogo, dove la giornata passa simile a un gioco di fanciulli sulla rena, una è davvero straordinaria e quasi miracolosa. Tutti, più o meno, conosciamo le ore di inquietudine quando, nella metropoli, uno della famiglia si sente male, e si aspetta con ansia la visita del dottore. I dottori hanno sempre da fare, in città; per quanto premurosi, e alcuni veramente amici dei loro clienti, la loro visita non può essere immediata. Qui, invece, il dottore è pronto: come un arcangelo anziano ma arzillo ancora, arriva biancovestito sulle ali della sua bicicletta, e in un attimo le sue parole rischiarano l’abbuiato orizzonte domestico. E le sue ricette non sono dispendiose: «acqua fresca e pura» o, al più, qualche limonata purgativa. Se poi da Ravenna arriva con la sua macchina da traguardo la dottoressa, bisogna quasi far festa alla malattia, come ad un’ospite ingrata che sappiamo di dover fra qualche ora congedare.

La dottoressa è bella, elegante; alla sera si trasforma come la fata Melusina, coi suoi vestiti e i suoi gioielli sfolgoranti, e gli occhi e i denti più sfolgoranti ancora: ma fata lo è anche davanti al letto del malato, sia un principe o un operaio, al quale, oltre alle sue cure sapientissime, regala generosamente bottiglie di vino antico e polli e fiori. Il suo nome è Isotta.

Del resto, anche il perire, in questo soggiorno fiabesco, non dovrebbe essere agitato e pauroso: morire, appunto come nei racconti delle antiche genti, alla più tarda età; andarsene per l’ultima passeggiata in carrozza verso la pineta una sera di ottobre, accompagnati dall’inno sacro del mare, fra i candelabri accesi dei pioppi d’oro: fermarsi nel piccolo camposanto all’ombra glauca dei pini, tra i fiori azzurri del radicchio e le pigne spaccate che sembrano rose scolpite nel legno. Alla più tarda età.