Racconto di Anna Maria Ortese

Anna Maria Ortese nasce a Roma il 13 giugno del 1914, da una famiglia numerosa e molto povera.  Quasi autodidatta – i suoi studi infatti si interromperanno alla prima classe di un istituto commerciale, si appassionerà ben presto alla letteratura, scoprendo la propria vocazione di scrittrice. Malgrado i suoi brevi studi ciò che più colpirà la critica sarà la perfezione stilistica che caratterizzerà tutta la sua opera.

 

 

Tutta la storia della vita delle donne è piena di silenzi, di grida disumane, a volte, ma più spesso di silenzio, il silenzio delle vittime e delle parole bugiarde, della forza che si esprime in parole altrettanto bugiarde sulla acquiescenza e soprattutto la necessità delle vittime. Ma non solo le donne, e le loro larve, hanno attraversato questo fiume eterno: i poveri di tutti i tempi, gli uomini senza valore e poi gli animali, cortei infiniti di poveri animali e di bambini senza valore; perché, poveri, sono stati compagni delle donne, del loro «silenzio» disperato. Il silenzio è infatti proprio di chi non ha valore o non gli è riconosciuto dalla Forza (per Forza intendo qualunque potere) ed è quindi in balia di questa Forza, una creatura disperata. Perché parlerebbe, se la sua voce è intesa solo come un suono confuso nel vento? Da chi aspetterebbe la grazia? E la protesta (penso al gemito degli animali) in che modo potrebbe essere intesa come protesta e richiesta di tregua e non come suono insensato della materia? Di ciò che permette in definitiva, di continuare stragi e mercificazioni delle creature?

Possiamo dire oggi che almeno la donna, almeno in parte, ha trovato fa parola e la usa; ha incontrato il suo proprio silenzio e lo ha rotto come uno specchio stregato. Possiamo dirlo, ma fino a un ceffo punto. La cosa è vera, ma fino a quando si tratti di gruppi, di categorie emergenti dal cuore di società moderne, già tanto ricche e disumane da poter essere tolleranti senza rischio. In occidente, infatti, la donna ha l’uso della voce (dico l’uso pubblico) e la benedizione del potere, ma solo perché è già dalla parte del potere (in questo caso industriale, scientifico, solo marginalmente politico) e in tal caso si trova proprio dalla parte giusta: quella di chi intende mistificare e sottomettere il dolore degli «ultimi».

Devo esprimermi con domande di colore radicale da una parte e dall’altra quasi religioso: che luogo occupano oggi la voce e il potere delle donne che hanno trovato o cercano (e troveranno) la loro importante collocazione nel quadro dei valori occidentali (valori industriali)? Che luogo occupano oggi tutti gli altri, i rimasti fuori? Che valore hanno i diritti degli ultimi (bambini, vecchi senza denaro, giovani senza destino)? E infine che luogo, che rilievo ha, nel loro nuovo potere (la parola) lo sterminato mondo animale? L’altra parte del cielo non è stata forse assunta alla dignità della «voce» solo perché ha consegnato questa voce alla perenne dittatura dell’uomo e questa voce, che ora essa usa, è quindi di nuovo vincolata ai vecchi patti del silenzio sul dolore delle vittime? Per accettare in pieno, come vorrei, l’affermazione che le donne, almeno occidentali, hanno trovato una voce e la usano davvero al femminile, secondo regole nuove, alte regole del vivere, le sole degne, dovrei essere sicura che questa pretesa parte del cielo non sia ancora semplicemente la parte del vecchio uomo.

Lo temo, perché le donne che emergono, in ogni paese dell’occidente, presentano programmi riguardanti unicamente il corpo della donna e il diritto al benessere e alla felicità del corPO, al suo trionfo direi. E questo non mi pare nuovo, tranne che nell’estensione del fenomeno, mi sembra di riconoscervi qualcosa che è sempre stato, e sempre è stato gradito all’uomo e che divide con l’antico una stessa tetra caratteristica: l’assenza di voce (dico di voce nuova, di voce umana) l’assenza di qualsiasi rivoluzionaria visione del mondo. Nella voce delle donne, almeno oggi, io vedo l’obbedienza di ieri alla loro natura, ai loro uomini, al loro privatissimo e gioioso potere. E continuo a domandarmi: su cosa vive, di che si alimenta questo potere? Vive come nel passato, con la differenza che ora gestisce apertamente il proprio essere e avere, ma nel passato, sul silenzio delle vittime: la natura e il mondo.

Crederò alla inviolabilità del corpo femminile, quando la donna avrà proclamato l’inviolabilità della natura, del mondo e si batterà per essa. Finora io non vedo che cose vecchie. Vecchio l’uso e l’abuso del corpo, il suo scadimento a merce, vecchie le bugie sull’amore, vecchia l’obbedienza ai costumi dell’uomo, vecchio il matrimonio (intollerabile, ma sempre considerato un dogma, il destino biologico della donna), vecchissimo l’aborto e la diffidenza per il controllo di sé (non sarà una nuova schiavitù?). Ma con una variante tenibile rispetto all’antico: il pubblico disprezzo del capitale genetico, di ciò che esso porta con sé dalla più profonda antichità. Il diritto di vita e di molte sul bambino si esercita come sempre a favore dei diritti del corpo e dei diritti dell’uomo su questo corpo, con la complicità della legge o della scienza.

Alimentarsi, vestirsi, sfruttare ogni occasione e possibilità per portare un piacere a sé stessi, vivendo sullo sfruttamento e l’uso efferato degli animali, il disconoscimento perenne del loro dolore, non sembra una colpa o un reato alla donna. Essa ha una voce, si dice; scrive libri, li pubblica, di lei si parla; pensa e ottiene delle leggi a suo servizio. La natura e la vita muoiono; e passano ai grandi mercati; solo la donna, la donna occidentale, resta splendida come una statua, intatta sui mercati della vita.

Siamo ancora in attesa, dunque, dell’altra parte del cielo. Quando questa pane avrà una voce, una sua filosofia, quando la donna si sveglierà e riconoscerà che solo il cielo vero, i fiumi, le foreste, il corpo dei bambini, tutti i gioielli della natura, sono veramente inviolabili, che uomo e donna non sono padroni della vita, ma figli e che occorre rispetto e compassione della natura, prima ancora che delle ideologie, se si vuole continuare a vivere sulla terra, a veder vivere la terra e se si vuole che questa non debba trascinare, nella sua caduta, anche il vincente, glorioso corpo umano; solo a questo punto si potrà dire che la donna ha rotto il silenzio. La parola, prima che suono emergente tra i suoni della natura, non può non essere che il grido della natura stessa, là dove la bontà, che è ragione, non è giunta, e la Forza posa il suo piede. Non può respirare se non a servizio di questa straziata natura. Non può scrivere sul suo sigillo segreto, quello che ha scritto un ceffo principe straniero sul suo stemma: «io servo!».

Non dire: «mi servo», se hai voce. Ma chiedi alla tua voce di servire. Saprai allora che la tua voce è nuova e se l’attende un’aurora… o la notte di sempre!