Racconto di Teodoro Di Leva

(Sesta pubblicazione)

 

 

Dovevamo partire due ore fa ma siamo ancora qui in attesa di salire. È la solita storia, ogni volta c’è qualcosa che non va: il quadro comando in panne, un motore in avaria, questa volta c’è il portellone che non si apre. Faccio questo viaggio ogni 50 giorni, più o meno. Lavoro negli uffici della Compagnia per un mese quindi ritorno a casa per 15 giorni di riposo. Ogni volta non si parte mai in orario. Faccio una interlunare per avvisare del ritardo. Quando arrivo in ufficio mi aspettano le rampogne dei colleghi, loro non partono se prima non arriva il cambio. La Compagnia si è cautelata così contro i continui inconvenienti dovuti al trasporto del personale dipendente, loro se ne infischiano dei ritardi, siamo solo noi che ci rimettiamo.
Non si parte finché non arriva un omino con una tuta arancione ed una grossa chiave inglese con la quale picchia con veemenza su un punto ben preciso del portellone che immediatamente si apre con un cupo stridio che sembra un gemito di protesta.
Saliamo. Il pavimento è lurido, coperto di polvere e cartacce. I sedili sono pieni di macchie di dubbia provenienza, con la fodera lisa, strappata qua e là. I finestrini sporchi ci propongono un panorama nebbioso. Prima di partire passa un inserviente che, con esasperante lentezza, raccoglie qualche cartaccia a casaccio; un po’ di monnezza la ricaccia sotto i sedili.
Tra passeggeri, almeno di vista, ci conosciamo tutti, ma una volta seduti, ci salutiamo con un semplice cenno del capo, poi ognuno si finge indaffarato: chi accende il computer, chi inforca il visore per leggere le ultime notizie o guardare i filmati delle esecuzioni della settimana. Le più viste sono quelle eseguite tramite ghigliottina e sicuramente il Governo Terrestre le adotterà. Io preferisco la sedia elettrica, i giustiziati friggono e si dibattono, gli occhi schizzano dagli occhi e, chi ce li ha, i capelli si rizzano comicamente in testa: un vero spasso. C’è molta saggezza a far decidere il popolo su queste cose e, in genere ritengo che il Governo sia saggio e lungimirante. (“saggio” l’ho già detto, non vorrei che apparisse ironico). In ogni caso sono tutti espedienti per evitare di rivolgerci la parola ed intavolate una sia pur minima conversazione. Per mio conto chiudo gli occhi ed il messaggio è: lasciatemi in pace!
Durante il viaggio accumuliamo altro ritardo. Mi addormento e quando mi sveglio è tutto buio e fa un freddo polare. Il circuito elettrico è in panne come spesso accade. Siamo fermi. Vedo in lontananza le luci della Stazione F. Totti; è la prima delle altre diciannove stazioni che comprendono il percorso ed alle quali hanno dato il nome dei calciatori che nel 2006 hanno vinto un torneo di calcio. È questa l’unica impresa memorabile compiuta da italiani in questo secolo che è agli sgoccioli. “Povera Patria!” mi dico nel dormiveglia ma poi mi sovviene, da remoti ricordi scolastici, i versi di un poema classico di fine Novecento:
Finché la barca va lasciala andare
Finché la barca va tu non remare.
Ah, la saggezza degli antichi!
Alla stazione F. Totti ci fermiamo ed aspettiamo. Dobbiamo dare la precedenza all’astronave proveniente da Marte. Sono decenni che si parla del raddoppio dei moli ma, a tutt’oggi, non sono nemmeno incominciati i lavori, così, quando la nostra navetta è in ritardo, e questo succede troppo spesso, ci tocca dare la precedenza a qualunque altro velivolo, compreso i carghi merci che occupano per ore i moli d’attracco della stazione.
Quando arriviamo alla Stazione Lunare abbiamo accumulato 12 ore di ritardo e non possiamo scendere perché il portellone è ancora bloccato.
Il tecnico di bordo svita un pannello e armeggia con tester, oscilloscopio e cacciavite. È chiaro che non sa che pesci pigliare. Io provo a suggerirgli di picchiare con una grossa chiave inglese in un punto ben preciso del portellone che io sarei in grado di indicare con precisione. Il tizio mi guarda in cagnesco.
“Queste sono apparecchiature sofisticate, qui non siamo mica a Napoli che tutto si risolve a tarallucci e vino!”
Il cialtrone ha notato il mio accento meridionale e sfoga su di me tutta la sua frustrazione.
Aspettiamo pazienti finché non arriva un omino con una tuta arancione ed una grossa chiave inglese con la quale picchia con veemenza su un punto ben preciso del portellone che conosce solo lui, il suo gemello terrestre e tutti i passeggeri del volo della Navetta Lunare delle 5 e 17, orario puramente teorico, ma non il tecnico specializzato della Compagnia..
Il portellone si apre con un soffio languido. Vedo con la coda dell’occhio il tecnico di bordo che mi squadra. Io non mi volto e cerco di non sorridere. Tutti gli altri passeggeri sghignazzano con discrezione. Scendo fischiettando “Funiculì, funiculà”.

Mi reco subito in ufficio per incassare la solita nota di demerito.
Sulla mia scrivania trovo un premuroso messaggio del collega che tra un colorito insulto e un’allusione al mestiere di mia madre ed alla mia nascita illegittima mi chiede perché diavolo mi ostino a non viaggiare con l’Intergalattica che fa una tirata unica Terra-Luna. Se mi decidessi per una volta, per una volta sottolinea, arriverei puntuale.
Metto da parte il biglietto. Lo lascerò sulla scrivania per il mio collega quando sarà lui tra un mese ad arrivare in ritardo. Sappiamo tutti e due che il biglietto della Intergalattica equivale al nostro stipendio mensile.
Affittare un monolocale quassù è semplicemente improponibile. E poi trasferirmi definitivamente è una prospettiva che non mi alletta. La vita è dura sul Modulo Lunare; non ci sono altro che capannoni ed uffici, e qualche bar che apre ad orari assolutamente arbitrari.
Guardo il globo azzurro e luminoso della Terra che ci sovrasta, poi mi metto al lavoro.
Spunto le merci in esaurimento e rifaccio gli ordini per ripristinare le scorte di magazzino. Con calma. Ce ne ho per un mese ed un mese è lungo da passare.