Racconto di Lori Marchesin

(Quarta pubblicazione)

 

Emozioni violente mi sconquassano come se avessi ancora un corpo, un cuore, un cervello: orrore, angoscia, disperazione. Sto vivendo ciò che la mamma, la mia sorellina e Piero vivranno tra poco tornando a casa. Papà è mancato anni fa, ero la sua prediletta, non dovrà affrontare questo dolore.
Mi guardo intorno e non capisco dove sono. Un grigio argentato aleggia ovunque; il luccichio s’insinua dalla zona luminosa sul fondo; la luce stempera l’ovatta impalpabile che mi avvolge come in una culla. Cerco di muovermi verso quella che sembra l’uscita o l’entrata per un luogo che non conosco, ma qualcosa mi trattiene.

Com’è potuto accadere? Devo ritornare dove tutto è iniziato.

Sono in bagno, l’orologio segna le cinque; ho tutto il tempo di asciugarmi i capelli e poi dedicarmi alla cena. Stasera saremo soli, Piero ed io; la mamma, saggia come sempre, ha deciso che cenerà fuori con le amiche e mia sorella Marta. È una serata importante, dobbiamo decidere del nostro futuro dopo che avrò discusso la mia tesi di laurea fra un mese: convivenza o matrimonio? Per me non ha grande importanza, desidero solo vivere con lui.
Mi spalmo la crema sul volto, intorno agli occhi che oggi brillano di un caldo miele, sul naso leggermente appuntito ma correggibile con il fard; il caschetto biondo incornicerà il volto che Piero definisce adorabile, per me è un volto carino, niente di più. Indosso reggiseno e slip e sento il cellulare in salotto che squilla; in fretta infilo la vestaglia e rispondo.

“Ciao Caterina. Allora, la giornata decisiva è arrivata. Fatti bella, bellissima. Tanto non serve. Piero ti vedrebbe bella anche con la maschera alle alghe verdognola.”
“Ciao Anna. Sono ancora in vestaglia e con i capelli bagnati. Grazie per gli appunti che mi hai mandato. Domani ne discuteremo.”
“Certo, ma prima dovrai raccontarmi tutto di stasera. Tutti i particolari.”
“Sei sempre la solita e riesci a farmi ridere anche quando sono tesa. Scusa ti devo lasciare, stanno suonando alla porta. Ci sentiamo domani.”
“A domani.”

Posso fingere di non sentire, di non essere in casa e chiunque ci sia dietro l’uscio se ne andrà. Tuttavia, c’è la possibilità che sia il fioraio da parte di Piero, è sempre pronto a sorprendermi con piccoli gesti d’amore. Per questo, solo per questo, vado alla porta.

Guardo attraverso lo spioncino: è Tommaso, compagno di università e amico di famiglia. Che cosa vorrà proprio adesso?
“Tommaso, ciao. Sono in vestaglia e di gran fretta; potresti tornare in un altro momento? Domani se possibile.”
“Ciao Caterina, solo due minuti. Ho bisogno del libro di Diritto Penale. Hai promesso di prestarmelo.”

Che cosa posso fare? Tommaso è talmente insicuro, sospettoso di tutto e tutti. Il mio rifiuto lo può ferire. Apro. Lo faccio entrare e mi dirigo verso la libreria.

Lui mi segue e si ferma alle mie spalle: “Che fragranza di fiori. Lavanda? Adoro questo profumo. Sei in preparativi per qualcosa di speciale?”
“Sì e ho davvero molta fretta.” Rispondo bruscamente perché non mi piace il tono roco e untuoso della sua voce. Mi giro indicando il volume e vedo gli occhi di Tommaso dilatati, le labbra sottili chiuse in un sorriso che è una smorfia. Mi inquieta. É come se qualcosa da dentro avesse trasformato i suoi lineamenti. Quegli occhi neri mi trafiggono scorrendo dal mio volto alla vestaglia, all’apertura sulle gambe.
“Trovato!” dico in fretta “Ora devo proprio lasciarti andare.”

Lui mi guarda, sembra in trance, si avvicina e mi stringe in un abbraccio. Lo spingo lontano ma lui mi trascina per la vestaglia che si apre, scivola a terra e mi lascia seminuda davanti ai suoi occhi ora famelici.
Il terrore s’insinua, provoca brividi lungo la schiena, devo fermarlo. Vorrei gridare, ma escono solo parole strozzate.
“Tommaso, torna in te, vattene prima che…
La prima pugnalata mi colpisce al ventre; barcollo, indietreggio, mi metto a correre ignorando il dolore che dal ventre si propaga a tutto il corpo, mi chiudo nello sgabuzzino ma non trovo la chiave, trattengo la maniglia con tutte le mie forze mentre il sangue continua a gocciolare dalla ferita e scorre lungo le gambe. Uno strattone violento apre la porta, io incespico, cado e lui mi afferra i piedi e tira, mi colpisce ancora, non ho più fiato per gridare, afferro la sua camicia, mi respinge, mi copro il viso, il coltello affonda ancora, ancora, poi buio. Buio. Mi allontano dalla vita lasciando il mio corpo sul pavimento.

E sono ancora là, in salotto. Tommaso è sopra di me e continua a pugnalare un corpo senza vita. Quante volte? Non so; una devastazione selvaggia su di me che non esisto più.
L’odore metallico del sangue lo scuote. Si ferma; ora fissa lo scempio, si copre il viso e piange, sembra rientrare nel Tommaso che conoscevo: timido, introverso, ma non malvagio.

Ora, dagli occhi dilatati e i gesti frenetici, capisco che è terrorizzato. Corre in bagno, prende tutti gli asciugamani e cerca di asciugare la pozza di sangue ai miei piedi; strappa la vestaglia da sotto il mio corpo e continua a tamponare il mio ventre, il petto, il pavimento. La camicia e i pantaloni sono coperti di schizzi. Prende un sacco di plastica e lo riempie, poi esce da casa mia.

Silenzio. Silenzio per ore; forse, qui è il non tempo. Quando mia madre e mia sorella entrano, le loro grida disperate mi trafiggono, più dolorose del pugnale.
Non posso guardare, è come morire ancora.

E intanto vedo Tommaso. È uscito da Firenze e sta salendo lungo le colline: vigneti, uliveti sino a una sommità con ruderi di case e un pozzo. Il sacco di plastica cade senza tonfo.
I miei occhi continuano a seguirlo; curva dopo curva rientra in centro a Firenze e si dirige alla Stazione dei Carabinieri. Provo sollievo, ha deciso di confessare.

“Devo denunciare un fatto di sangue.” balbetta.
Il brigadiere all’accettazione guarda il viso stravolto, gli schizzi di sangue sugli abiti e chiama il Maresciallo. Lo conducono in sala interrogatori, accendono il registratore e lo lasciano parlare.
Non è la confessione che speravo. Volevo sapere perché, se mi odiava per qualche ragione. Credevo fossimo amici. L’ho aiutato con gli esami, gli sono stata vicina in momenti difficili. Perché tanto odio e nessun segno di rimorso?

“Stavo andando dalla mia amica Caterina per farmi prestare un libro, ma ho trovato la porta spalancata e lei, lei distesa sul pavimento del salotto, coperta di sangue. Ho cercato ti aiutarla, vedere se era ancora viva…per questo ho il suo sangue sui vestiti.”

Loro sanno già del delitto; mia madre ha denunciato la mia morte. Il RIS, capeggiato dal Capitano Tancredi, è intervenuto immediatamente. Gli investigatori stanno setacciando la casa, interrogando la mia famiglia, i vicini, raccogliendo le prove. Le indagini proseguono per settimane; Tommaso viene accusato di omicidio volontario.
Il suo profilo psicologico non evidenzia turbe particolari, soltanto una marcata insicurezza e disagio sociale; l’ipotesi è che il mio rifiuto deciso al suo tentato abbraccio abbia scatenato una reazione psicotica. Tuttavia, il coltello a serramanico, introvabile, implica premeditazione. Sono convinti che sia lui il colpevole, ma hanno bisogno di prove schiaccianti. Io vorrei aiutarli, ma quel mondo non è più il mio.

È passato tanto tempo. Lo so dal cambio delle stagioni. Da quel pomeriggio estivo, il mio ultimo, che indorava la natura e i miei pensieri, ho visto tappeti di foglie calpestati da passanti frettolosi, sollevati in stanchi rimbalzi dal traffico, poi il gelo rattrappire i rami nudi degli alberi. Ora una timida primavera bagnata da pioggia e grandine sta cedendo il passo a un agguerrito sole che domina un cielo sgombro.

Quasi un anno e permangono ancora incertezze. Sono stati mesi di battaglie legali, ma sembra che il processo sia imminente. Tommaso, fiancheggiato da una squadra di avvocati, proclama la sua innocenza. Racconta la stessa storia, stesse parole, stessa espressione quasi di sfida. I miei – perché – non possono essere uditi.

La mamma non si arrende; si è affidata a un penalista famoso. Lui cerca di rassicurarla, tuttavia ci sono delle incertezze: il coltello a serramanico non è mai stato trovato come pure gli asciugamani inzuppati del mio sangue.
Se potessi comunicare con la mamma! Posso solo guardare, sentire, piangere con le sue lacrime.
A volte torno a casa; la mia sorellina Marta è un automa, continua a ripetere – Lo condanneranno. Devono! – La mamma ha l’energia derivante dalla missione che ha intrapreso, far punire chi mi ha, ci ha fatto questo. E Piero, il mio amato Piero, stringe i pugni e cammina, deglutisce nel tentativo di liberarsi dal nodo che ha in gola.
Ulteriore incertezza è causata dal clamore che il mio omicidio ha sollevato; i giornali ne parlano da mesi e si sono formati i gruppi: gli innocentisti e i colpevolisti. Può l’opinione pubblica influenzare il giudizio? Nessuno lo sa.

Il Capitano Tancredi è spesso in contatto con la mamma. Lui è convinto della colpevolezza di Tommaso, cerca di rassicurarla, ma io so che qualcosa lo tormenta. Deve esserci una prova da qualche parte.
Torna a esaminare gli abiti insanguinati: niente! Niente! E invece sì, c’è qualcosa che manca dalla camicia: un bottone, quello sotto il colletto. In casa non l’hanno trovato, hanno perlustrato ovunque.
Si reca dall’anatomopatologo, vuole rivedere le radiografie.
“A che scopo, Andrea?” chiede il patologo, “Il bottone così piccolo potrebbe essere finito tra gli asciugamani spariti, forse mancava già.”
“Possiamo rivedere le radiografie?”
“Come vuoi. La causa della morte è stata la quarta pugnalata al cuore, tutte le altre trentasei hanno lacerato polmoni gola, ventre; la morte è stata veloce per la povera Caterina; non ha sofferto a lungo, pur se l’orrore dell’aggressione l’ha vissuto in pieno.”
Insieme guardano lastra dopo lastra soffermandosi su ogni macchia sospetta.
“Guarda, guarda là, tra la faringe e la trachea, riesci a vedere?”
Tancredi è elettrizzato; “C’è una macchiolina circolare, mezza bianca.”
“Non farti troppe illusioni, Andrea. Potrebbe essere qualsiasi cosa, un grumo di sangue, una particella di cibo e dopo mesi, quasi un anno, sarà sparita, decomposta.”
“Anche la madreperla si decompone?”
“No! La madreperla ha un’elevatissima resistenza.”
“Dobbiamo riesumare il corpo.” Tancredi ha il respiro affannato; “Forse possiamo recuperare la prova che l’ha aggredita lui; forse Caterina ha provato a respingerlo afferrando la camicia.”
“Vorresti chiedere alla madre di affrontare lo strazio di una riesumazione in base a questa vaga probabilità? Non credo accetterà, Andrea.”
“Io credo di sì,” replica Tancredi, “se c’è anche una minima speranza che questo possa fornirci la prova schiacciante, lo farà. È disposta a tutto pur di rendere giustizia alla figlia e trovare una parvenza di pace.”
La mamma acconsente; non avevo dubbi. Io non seguo questo lugubre rito, non ci riesco. Penso a quel giorno; ricordo di aver cercato di fermare Tommaso aggrappandomi alla camicia, di aver portato le mani alla bocca, Non ricordo altro.

In un angolino della trachea, incrostato da residui ma con una sporgenza bianca, il bottoncino viene estratto, è identico a quelli sulla camicia di Tommaso. È finita, finita!
Il processo non ha storia; il bottone inchioda il mio assassino che viene condannato all’ergastolo per l’aggravante della premeditazione e sottrazione di prove.

Mi sto muovendo; ora posso avviarmi verso la luce che mi attende.

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