Racconto di Mike Papa

(Terza pubblicazione)

 

 

Era tarda sera e Gustavo aveva il solito mal di piedi. Gli sembrava che i dolori, col passare del tempo, cominciassero ad arrivare già dal primo pomeriggio e fossero più intensi. Può accadere, se si scarpina buona parte del giorno con vassoi e scodelle in mano. Malattia professionale, la chiamavano i medici. Per gli altri, lui compreso, erano solo piedi piatti.

Si appoggiò al banco del bar, alternando il peso del corpo da una gamba all’altra per cercare un po’ di sol­lievo e fece un giro d’orizzonte della piccola sala: la combriccola di studenti era al caffè, tra un po’ avrebbero preso un amaro o una grappa e sarebbero usciti; la coppia di innamorati non aveva mangiato in pratica quasi nulla, saziandosi di occhi negli occhi, mani nelle mani e conversazione a bassa voce. Da come si guardavano erano lì lì per sloggiare anche loro per andare a finire la serata in un letto o sul sedile posteriore di una macchina; al tavolo d’angolo il professor Archeri aveva collezionato due bottiglie di ros­so, intervallate da una forchettata di rigatoni e un’aletta di pollo. Le patate al forno erano rimaste dentro il piatto esattamente come erano uscite dalla cucina. Fino a qualche settimana prima sarebbe stato seduto, nello stesso posto che occupava da sempre, in compagnia della moglie e allora sì che avrebbe mangiato con piacere e bevuto con moderazione. Ma la signora Archeri se n’era andata per un tumore e a lui non era rimasto altro che ricordarla nel modo più stupido che aveva trovato, ubriacandosi tutte le sere al loro solito tavolo.

La comitiva e la coppia chiesero il conto, Archeri qualcosa di forte. Gustavo accontentò tutti il più in fretta possibile. Al professore servì una Vecchia Romagna dicendo: «Questa e basta, eh professore? Siamo già pieni, mi sembra.»

Poteva permettersi quella confidenza, erano anni che serviva a quel tavolo quasi riservato, dove aveva vi­sto gli Archeri fidanzati, poi sposati, coi figli piccoli, coi figli grandi e di nuovo da soli, quando i gemelli erano volati via dal nido, ognuno per la propria strada.

«Dici, Gustavo?» rispose il professore con la voce impastata. Poi lo artigliò per la giacca, confessando per la milionesima volta quello che ormai sapevano anche le tovaglie: «Mi manca così tanto!»

Il cameriere gli diede due leggere pacche sulla spalla: «Manca a tutti, mi creda.»

Intanto gli studenti sciamavano verso l’uscita, seguiti dagli innamorati allacciati l’uno all’altra. Gustavo ri­mase a guardarli, beata gioventù. Tutta la vita davanti, preoccupazioni zero se non quella di divertirsi. O di amarsi.

Usciti i clienti lasciò Archeri col suo brandy e cominciò a sparecchiare, pregustando già il ritorno a casa. E il falò che avrebbe fatto con quegli strumenti di tortura che si ostinava a chiamare scarpe.

La porta d’entrata si aprì e qualcuno domandò: «Si può ancora mangiare a quest’ora?»

Una voce suadente, calda, da doppiatore.

Gustavo si girò e gli venisse un colpo se non era appena entrato nella trattoria ”Vanelsi dal 1897” un attore in carne e ossa. Faticava a ricordarsi chi fosse o in quale film lo avesse visto, ma dell’attore aveva proprio tutto: il portamento, la bellezza, l’eleganza nel vestire. E la compagnia: dietro di lui tre sventole hollywoo­diane, una rossa e due more, alte, belle, formose e minigonnate.

«Vado a chiedere in cucina», rispose dandosi un tono da chef de rang.

«Senza pretese, ci accontentiamo di quello che c’è. So che è tardi.»

In cucina suo fratello Alfonso si era già tolto il grembiule da cuoco e fumava seduto vicino al forno spento. Gustavo gli spiegò la situazione, calcando sul fatto che, anche se era ora di chiusura, non potevano dire di no a un personaggio famoso. E alla sua compagnia. Solo dopo essersi affacciato in sala e aver constatato di persona la portata di quella ”compagnia” il cuoco acconsentì a ricevere l’ordinazione, sorvolando sul fatto che l’uomo non gli sembrava per niente né un personaggio conosciuto né tantomeno così affascinante.

Gustavo tornò dai clienti cercando di non zoppicare troppo e li fece sistemare ad un tavolo da sei rimasto vuoto per tutta la sera. Il presunto divo scostò le sedie a tutte e tre le sue amiche per farle accomodare e Gustavo si mandò a quel paese per non essersene incaricato personalmente. Ma non ci aveva proprio pen­sato, erano anni che non ripassava il Galateo di monsignor della Casa. Non erano necessari modi troppo raffinati nella trattoria dei fratelli Vanelsi.

Attaccò: «Allora possiamo preparare…»

L’attore lo interruppe: «Guardi, senza dare troppo disturbo, quattro bistecche andranno benissimo. Cotte molto poco. Al sangue.»

«Perfetto. E per contorno…»

«Quello che c’è.»

«Insalata?»

«Ci mettete l’aglio?»

«Di solito no, ma se vuole…»

«No no, assolutamente!»

«Perfetto. Da bere?»

«Vino rosso. Per ora.»

«Perfetto.»

Mentre andava in cucina si disse che doveva smetterla di ripetere ”perfetto” come un disco rotto.

Tornò con la caraffa di vino e l’uomo gli chiese: «È il professor Archeri quello laggiù?»

«Sì. Lo conosce?»

«Credo di averlo incrociato all’Università. Può dirgli se vuole unirsi a noi? Non mi piace vedere chi si ciba in solitudine.»

“Si ciba? Ma che bella espressione”, pensò Gustavo. “Un po’ âgé, forse, ma di classe.”

«Posso chiederglielo, ma non so se sia dell’umore adatto. Vede, sua moglie…»

L’attore lo fulminò con lo sguardo: «Perché tu viene a raccontare me vita di altra persona? Chi sei tu, suo biocrafo?» Aveva assunto all’improvviso un pesante accento dell’est. Subito dopo rise di gusto, imita­to dalle sue amiche: «Mi scusi, non riesco proprio a uscire dalla parte.»

Allora era sul serio un attore!

«Si figuri», minimizzò Gustavo e andò a riferire il messaggio al professore. Archeri scoccò un’occhiataccia verso il tavolo dei quattro. Qualcosa lo convinse ad alzarsi e raggiungere la comitiva con passo malfermo, portandosi dietro il mezzo bicchiere di Vecchia. Gustavo non volle credere che quel ”qualcosa” fossero le sei gambe esposte fino all’inguine. L’attore gli offrì una sedia e Archeri ci atterrò sopra, centrandola per pura fortuna.

Quando il cameriere servì la carne trovò quello che aveva cominciato a chiamare ”il giovane Clark Gable” che disquisiva sulle avversità della vita mentre il pubblico pendeva dalle sue labbra. Perfino il professore aveva assunto un’aria attenta, con un’espressione affascinata che Gustavo non gli aveva visto più sul volto da quando era rimasto vedovo.

«… veramente ingiusta, secondo me. La morte come la conosciamo è solo… una grande fregatura. Che ne pensa, prof?»

Il cameriere si aspettava che Archeri, alla parola ”morte”, scoppiasse a piangere come un vitello, ma il professore conservava un sorriso ebete e fissava l’affabulatore con due occhi devoti. La rossa gli aveva poggiato un braccio sulle spalle e gli solleticava l’orecchio. Nessuna traccia del vedovo inconsolabile di dieci minuti prima.

«Ah, ecco i viveri», annunciò ”il giovane Clark”. «Che il banchetto abbia inizio!» Poi si rivolse al camerie­re: «Perché non ci fa compagnia per un calice di vino… Gustavo, giusto?»

«Veramente dovrei…»

Parlò la mora con i capelli corti, picchiando il palmo sulla sedia rimasta vuota: «Ma sì, dai, siediti con noi.»

Quella coi capelli lunghi, invece, aveva tagliato la bistecca a metà e stava leccando il sangue dal coltello. Se non fosse stata un’immagine abbastanza raccapricciante avrebbe avuto una forte carica erotica.

Ad ogni modo Gustavo si accomodò sulla sedia, più che altro per attenuare l’incendio che aveva ai piedi. L’attore si rivolse direttamente a lui: «Stavamo dicendo, mio caro, di come la vita sia così ingiusta. L’esimio pro­fessor Archeri, che onora questo tavolo con la sua presenza, ci ha detto di sua moglie e di come soffra del­la sua mancanza ogni secondo.»

Addentò un enorme pezzo di carne e la masticò con calma, senza smettere di fissare negli occhi Gustavo. Un rivolo di sangue gli colò dall’angolo della bocca e lui fu svelto a farlo sparire con la lingua. Sembrò una lingua molto lunga, in quell’attimo che guizzò fuori dalle labbra sottili. Poi continuò: «Immaginiamo, del tutto empiricamente, s’intende, di poter vivere per sempre. Una vita eterna vicino a nuostri cari. No sarebbe grande traguardo per uomini? No è vuostro grande disiderio?» Era tornato l’accento dell’est, an­cora più marcato.

«Beh… sì, perché no?» rispose Gustavo. Poi si alzò: «Vado a prendere le insalate.»

«Lascia stare, no c’è bisogno. Tu sta’ qui

Al cameriere non sembrò esattamente un ordine, ma qualcosa che voleva andarci molto vicino.

«Torno subito.»

Andò in cucina e Alfonso lo interrogò con lo sguardo.

Lui sbuffò: «Ci risiamo, che palle! Dov’è Berta?»

«Oh no, ancora! Dove l’hai messa tu l’ultima volta», rispose il cuoco spegnendo la sigaretta dentro uno dei piatti d’insalata che aveva preparato. Aveva capito che non sarebbe stato più servito al tavolo.

Suo fratello ci pensò un attimo, poi si ricordò di aver riposto la balestra dietro lo scaffale dello scatolame.

«E l’aglio?»

«Dove vuoi che sia, al solito posto. Sbrigati che è tardi.»

Gustavo si tolse le scarpe, finalmente, e tornò in sala alla velocità massima che gli consentivano i piedi martoriati. I quattro ultimi arrivati si erano già stretti intorno al professor Archeri, con i canini sguainati.

Prese con calma la mira e li colpì alla testa, uno alla volta, con una freccia dalla punta d’argento impre­gnata d’aglio. ”Il giovane Clark” fu il primo: appena raggiunto dal dardo esplose in un bagliore blu cobal­to, diventando cenere. Le sue degne amiche starnazzarono allarmate ma non fecero in tempo né a capire da dove venisse il pericolo né ad abbozzare una reazione. Quando scoppiarono la loro luce era più sul ce­leste, segno del loro rango inferiore.

Il professore si spazzolò con un tovagliolo i minuscoli residui di vampiro dal maglione a collo alto. Poi si batté una mano sulla coscia: «Cavolo, stavano per fregarmi un’altra volta. Giuro che questi non mi sem­bravano proprio dei loro.»

«Diciamo che non aveva molta capacità di giudizio», lo rincuorò Gustavo.

«Sono proprio un vecchio rincoglionito, altroché. Ti aiuto a raccogliere la cenere?»

«Ma no, che dice? Vada al suo tavolo, le porto un’altra Vecchia Romagna.»

Ne versò due abbondanti, di brandy, e si sedette di fronte ad Archeri, massaggiandosi i piedi senza vergo­gna e con assoluta goduria. Fecero tintinnare i bicchieri. Dopo un robusto sorso il professore disse: «Mina invece era brava, vero? Li riconosceva al volo.»

«Già, un talento naturale.»

«Mi manca così tanto!»

Gustavo gli diede due leggere pacche sulla spalla: «Manca a tutti, mi creda.»

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