Racconto di Sabrina Milana

(Prima pubblicazione – 8 marzo 2021)

 

 

La mano trema così vistosamente da non permettere alla penna di appoggiarsi al foglio. Un tocco forte, caldo la trattiene tra le sue con cautela, come fosse di porcellana.

«È la cosa più giusta mi creda». Alzo gli occhi un solo istante e nello sguardo dell’uomo in camice bianco non c’è più traccia del medico abituato a lavorare nelle emergenze. C’è un uomo, magari un marito, un padre che non riesce più a prendere le distanze dal dolore che ci ha travolti. Mi lascio convincere dalla sua umanità, da quel frammento di reale partecipazione che squarcia una resistenza ormai debole.

Firmo, ripetendo lo stesso gesto meccanico due, forse tre volte. Non lo ricordo più. Nella stanza il respiro affannato di Roberto mi arriva come un rumore remoto e fastidioso. Chi l’ha detto che nella tragedia una coppia si avvicina, si supporta, si scalda?

Dal momento in cui poggio la penna sul tavolo la scena diventa di nuovo veloce. Una sedia che si scosta, lo scalpicciare di passi, gente che riempie la stanza bisbigliando in modo concitato.

«Procederemo subito con l’espianto, non possiamo perdere tempo. Vi va di salutarla?» chiede una voce femminile chiaramente studiata per affrontare casi come questo.

Roberto annuisce; si alza, allontanandosi senza neanche attendere la mia risposta. Vedo la sua sagoma precipitarsi fuori dalla porta: zoppica e porta un collare intorno al collo, prima non me n’ero nemmeno accorta.

«Io preferisco ricordarla ancora nella sua stanza a giocare con le sue…» le parole rimangono ferme nella gola.

«Va bene così, non si preoccupi.»

«Posso stare sola?»

Un silenzio imbarazzato mi fa da eco. So a cosa pensano.

«State tranquilli, quello è un gesto che richiede coraggio e io, non ne ho mai avuto.» li tranquillizzo indicando col mento la finestra.

«D’accordo; la porta però rimane aperta» specifica qualcuno.

Sono sola. Attraverso le veneziane riesco a vedere un pezzetto di cielo. Da grigio è diventato azzurro, un segno che mi sembra scioccamente confortante.

Era tutto così perfetto…

Un tragitto breve, fatto decine di volte. Non avevi voglia di uscire ma l’appuntamento dal pediatra era già stato preso. Eravamo appena rientrati dalle vacanze, un giro on the road dell’Olanda che ci aveva lasciato gli occhi e i ricordi pieni di campi di tulipani, case galleggianti sui canali e una tosse persistente che non voleva sapere di lasciarti. Eravamo felici.

Dalla gioia alla disperazione. Basta davvero un attimo per ritrovarsi dall’altra parte della barricata.

Riavvolgo il nastro a un passato vicinissimo.

«Avanti Erica, papà ci aspetta già sotto» cerco di persuaderti. Le pareti rosa della stanza creano un’atmosfera in netto contrasto con il grigio che c’è fuori; in fondo ti capisco anch’io sarei rimasta volentieri a casa.

«No, voglio stare qui» lo dici senza guardarmi, come se in quel momento pettinare le bambole fosse la cosa più importante del mondo. È un pensiero che mi fa sorridere, è un pensiero che mi opprime.

«Sai che facciamo? Appena torniamo t’insegno delle acconciature bellissime; gliele facciamo insieme». Mi guardi con due occhi che appaiono improvvisamente   immensi: sono azzurri, come quelli del tuo papà. La mia promessa ti convince; di lì a poco lasci i tuoi giochi e mi segui remissiva.

La macchina è parcheggiata proprio vicino al portone. La pioggia ha preso a battere trasversalmente sui palazzi e le strade sono quasi deserte. Ti prendo in braccio, il mio corpo fa da scudo all’acqua; Roberto è già fuori dall’abitacolo, la portiera semi aperta e le braccia tese, pronte a darmi una mano. Ti sistema nel seggiolino cercando, diligentemente, di metterti la cintura ma tu, di stare legata non ne vuoi sapere. Ti divincoli, inarchi la schiena, piagnucoli in modo insistente. Vedo Roberto imporsi di mantenere il controllo tentando di strapparti, con una forza sempre più debole, un accenno di collaborazione che non arriva; quando viene colpito in pieno viso dalla tua manina intercetto nello sguardo non solo un’impazienza che conosco bene perché pericolosamente simile alla mia ma anche la voglia di cedere, per stanchezza, per sopravvivenza.

Mi guarda. È proprio necessario? Lo dice senza parlare, fissandomi speranzoso.

«Vabbè, il pediatra è qui vicino»

«Ok, dai». La fibbia della cintura penzola dal seggiolino.

Ti pulisci le lacrime con il dorso della mano. La tua piccola vittoria ti ha rasserenata. Dopo qualche minuto chiudi gli occhi, vinta dalla stanchezza. Roberto guida piano, ha alzato la musica e tamburella sul volante a ritmi regolari. Io mi concentro sulla fila di alberi che costella la statale che stiamo percorrendo. Mi sembrano insolitamente spogli rispetto a qualche giorno fa e, con disappunto, decido che non mi piacciono.

…All’improvviso un botto, forte, fortissimo. Non ho il tempo di capire cosa sia successo.

Mi riprendo quasi subito. L’airbag, da cui mi libero con fatica, quasi mi soffoca; ho dolore dappertutto, le labbra impiastrate di ruggine, il viso che brucia. Trovo la forza di chiamare Erika e Roberto ma non risponde nessuno. Mi giro istintivamente dietro: non ci sei più. Il parabrezza è frantumato, la portiera bloccata. Chiedo aiuto: qualcuno riesce a tirarmi fuori. Si avvicina altra gente, altri rumori che non identifico; finalmente ti vedo: sei a qualche metro di distanza dalla macchina, il tuo corpicino ha assunto una posa sgraziata, innaturale e…C’è sangue dappertutto. “Mio Dio”, le gambe non reggono, finisco inginocchio vicino a te. Ti afferrò febbrilmente una mano, cercando spaesata Roberto. Grido. Un signore me lo indica sorreggendomi con una presa decisa; eccolo, misura con passi impazienti il perimetro della strada, parla al telefono prendendo le distanze dal punto in cui sei distesa e scostando bruscamente qualunque persona cerchi di avvicinarlo per tranquillizzarlo. Una voce mi intima di non toccarti ma io, non sono più una persona ragionevole. Un po’ prego, un po’ piango abbandonandomi all’abbraccio di braccia che non conosco.

«La bambina non aveva la cintura di sicurezza» dice un signore in divisa, forse un poliziotto. È un attimo, il mio respiro si incrina, il mio cuore sembra fermarsi.

“Tutto questo è troppo penso”. Sento un lungo brivido dietro la schiena. Poi il buio.

Mi sveglio in un letto d’ospedale. C’è tanta gente intorno, molti sconosciuti. Un’infermiera mi misura la pressione evitando di guardarmi. Cerco con gli occhi il medico che presumo sia il più esperto ma incrocio (o voglio vedere) solo quelli di mio marito; sta a pochi centimetri da me, la camicia fuori dai jeans e gli occhi così rossi da non riuscire più a distinguerne il colore. È lui a rompere un silenzio ancora carico di attese.

«I danni sono così seri da escludere ogni tipo di speranza» biascica con lo sguardo impenetrabile, poi mi volta le spalle, senza aggiungere altro. Io non reagisco; stringo forte le sponde del letto, incapace di dire o fare qualsiasi cosa. Anche le lacrime si sono congelate.

Quando chiedo di vederla la trovo intubata. Non sembra neppure lei; la testa è completamente calva, il viso sfigurato dalle escoriazioni. Un fagottino in balia di macchine rumorose e farraginose. Il dottore che ci ha accompagnato aspetta un po’ prima di fornirci i dettagli del suo reale stato. Morte celebrale, organi, consenso, parole nuove, infinitamente lontane da me, che fatico a unire come puntini troppo distanti tra loro.

«Mi dispiace» conclude.

«Cosa succede adesso?»

«Se date l’assenso possiamo procedere con l’espianto degli organi. Sarebbe un gesto di grande generosità»

«Quanto tempo abbiamo per decidere?» chiede Roberto

«Pochissimo.» Ci lascia soli. Non ci abbracciamo, non ci tocchiamo. Queste cose succedono nei film, non nella realtà, per noi non c’è nessun momento perfetto. Ogni minuto che passa ci allontana sempre di più e lì, per la prima volta, capisco che il nostro amore non ci può essere di conforto.

Ci fissiamo a lungo in un silenzio carico di accuse.

Dovevi metterle la cintura, sei il padre…dico io.

Non dovevi assecondarmi, sei la madre… dice lui.

…Su una cosa, siamo d’accordo: un pezzettino di Erika potrà, deve vivere!

In questo momento, è il solo gesto d’amore di cui siamo capaci, l’unico che ci vede realmente uniti

…Dare ad Erika un’altra occasione di vita…Dare a noi la possibilità di espiare le nostre colpe…Di dare un senso al dolore. Di non farci schiacciare dalla rabbia. Di ritrovarci ancora famiglia, nonostante tutto.