Racconto di Rosita Ghidini

(Prima pubblicazione)

 

 

Lui sapeva che sposandola non avrebbe avuto giorni tranquilli, ma l’amava, l’amava davvero e non vedeva l’ora di renderla sua moglie. E così, come chi, arrivato davanti ad un baratro ne viene irrimediabilmente irretito e sente forze e voci che lo trattengono ma niente può, andò camminando soave sulle note dolci dell’organo verso il suo destino. Avrebbe potuto cambiarlo, non che non lo potesse fare – si sa che ognuno è l’artefice della propria sorte- ma lui, cambiarlo non voleva proprio: desiderava quella donna ad ogni costo.
Ĕ’ solo per il tuo bisogno di affetto, cosa ci trovi? Non sa fare nulla. È brutta e segaligna come un manico di scopa. Lo sai o noi che è matta? Non stirerà, non laverà; non mangerai. Ti sposa per sistemarsi…”.
E questi erano i ritornelli di una canzone passata di moda, per i quali esercitava ben volentieri l’arte del tubo passante da un orecchio all’altro, e via veloce!
Si sposarono in un brumoso mattino di novembre, ancora buio alle ultime ore. Lei: intirizzita, in un piccolo abito di tulle color cenere di rose e la sua zazzera rossa che pareva un lampadario nei giorni di festa, scarpe col tacco e bouquet di fiori di campo. Lui: lungo, lungo, nel suo abito migliore, la cravatta col nodo perfetto, le scarpe nuove e lucide con un’imprevedibile suola rossa.
Gli invitati, andati a prendere qua e là, occupavano i primi banchi: tra grandi e piccoli non se ne potevano contare più di venti. Nessuno osò dire a voce alta che quel matrimonio non s’aveva da fare, forse per la voglia di mangiar casoncelli a volontà e bere vino nuovo in una piccola osteria, in mezzo ad alberi vuoti e viti senza l’uva.
I frati s’erano tanto dati da fare e non solo per i preparativi delle nozze. Si può dire che nonostante non avessero potuto trattenerlo per sempre con loro, lo avevano curato come si cura un figlio. Per mezzo loro era cresciuto, per mezzo loro aveva potuto studiare da infermiere, e ora lavorava presso la casa di riposo del paese, un lavoro di tutto rispetto e buona retribuzione, tale da potersi permettere di metter su famiglia.
Che fosse quest’amore un fatto tutto suo gli altri lo sapevano, ma non potevano capire. Per lui era più che normale amare e non essere ricambiato. In verità dell’amore non ne sapeva un granché, ma era strenuamente convinto che quello vero potesse smuovere le montagne.
La montagna granitica, che tutti definivano strana e inaffidabile per non dire altro, faceva la callista in uno stanzino appena fuori dal centro del paese, dove, visti gli orari insoliti che il bugigattolo osservava, era facile pensare che non si offrisse solo consolazione al mal di piedi, ma un pronto intervento per altri mali parimenti comuni.
Lui che l’aveva conosciuta in quell’angusto contesto, da quel giorno avvertiva ogni callo come un segno divino. Già, perché con il trascendente sapeva d’ avere un rapporto particolare, che andava al di là del familiare, spingendosi fino all’amicizia sincera. Dio per lui era più di un padre: gli era stato amico fraterno. Mai l’aveva abbandonato quando dopo molta sofferta indecisione aveva svestito il saio e si era aperto al mondo per colpa o merito di un callo; per visione estatica di una zazzera rossa che gli era parsa come il manto della Madonna; per quelle mani bianco luna intente al lavoro che sentiva quasi come imposte dall’alto.
Gli era costato abbandonare il convento che era diventata la sua casa da quando, nel suo giorno perfetto, i frati l’avevano amorevolmente raccolto dai gradini della chiesa.
Ognuno ne aveva un po’, nella vita, di giorni perfetti, ma non molti, forse due o tre. Potevano passare senza che ci si accorgesse di loro e quello dei gradini era un caso. L’altro suo giorno perfetto era stato quello del callo e il terzo poteva essere questo di novembre pieno di bruma e di fiori opachi, che lui aspettava, forse da sempre, in cui furono dichiarati marito e moglie.
Per lei nulla cambiò. E nemmeno per lui, sempre solido, fermo nella certezza, poiché era infermiere, di poter curare amorevolmente i dolori del corpo, quanto similmente quelli dello spirito, che in lui andavano crescendo di giorno in giorno.
Scorreva la vita e cresceva la mole del suo lavoro: se prima aveva lavato, stirato, cucinato per uno, ora avrebbe dovuto farlo per due. A lei, questo lui lo sapeva, non piacevano i lavori di casa: parlava poco, lavorava molto, toglieva calli, ma non la polvere. Di lì a poco il loro nido d’amore avrebbe potuto tramutarsi in un ricettacolo di cose da non dire, se non ci avesse pensato lui. Ma non gli dava fastidio: gli bastava di vederla rientrare, con la sua zazzera rossa e gli occhiali e mezz’asta. Adorava che lei mandasse le scarpe per aria e si catapultasse sulla poltrona, rimanendo a occhi fissi, guardando non si sa cosa. “E’ per la grande stanchezza” ripeteva dentro di sé, “è solo stanca”.
Una volta presa la decisione più difficile e cioè quella di dovere essere ogni giorno di buonumore, aveva preso, più o meno, anche tutte le altre e non si poteva lamentare, doveva tirare dritto. Ogni tanto, però, si abbandonava ad un consolatorio sconforto. Allora usciva fuori alla chetichella e si metteva seduto per terra sotto una finestra che dava sul retro, si copriva il viso per nascondersi da quel mondo che tanto non lo avrebbe potuto vedere e piangeva. Piangeva con un pianto disperato di bambino, che gli sussultavano stomaco e cuore.
Ma accadde qualcosa in una sera d’estate che lo sgabuzzino era chiuso per ferie, lei ebbe modo di sentire quel pianto di bambino e di avvertire chiari i sussulti di un uomo.
Lui, che non la vide, non l’avrebbe saputo mai. Lei, che mai glielo avrebbe rivelato, rientrò in casa. Scosse la testa, si passò le mani nella zazzera rossa e si mise a lavare i piatti di casa sua, per la prima volta.
Sarebbe ora molto interessante conoscere del come e del perché ad alcuni basti poco per capire che chi gli vive accanto stia piombando in una rovinosa infelicità, mentre ad altri debba rendersi necessaria una folgorazione. Poco o tanto fino a folgorarsi non importa, l’importante è capirlo. E lei capì.
Come ogni giorno, a parte pochi, anche in quella calda e tranquilla mattina d’agosto il giornalaio stava seduto sullo sgabello, masticava uno stecchino che non finiva mai e aspettava i clienti abituali del quotidiano. Non si sarebbe di certo immaginato di trovare in mezzo alla profana processione proprio lei, vestita come solo lei sapeva vestirsi, e non credette ai suoi occhi e alle sue orecchie.
“…ce l’hai un libro di cucina?”
“Quale vuoi… signora? ”
“Uno… con tante figure”
“ Ecco, madame… qui c’è anche la ricetta dei casoncelli bresciani”.
Pagò, si mise il libro sottobraccio, inforcò la bicicletta e prese, pedalando svelta, la direzione di casa, col vestito che s’era gonfiato all’aria e mostrava tutto ciò che non si doveva mostrare. Ma oramai, a lei, nulla importava, se non di poter rendere suo marito un po’ più felice.
Era già buio, quando lui entrò nel garage con la bicicletta. Scese. Stanco di una giornata calda e impossibile, come solo sa esserlo una giornata di lavoro mentre tutti sono in vacanza, s’avviò verso casa asciugandosi la fronte con il fazzoletto e pensando a cosa avrebbe preparato per cena. Come poteva essere lei: tranquilla? arrabbiata?
Era pur vero che da qualche giorno a questa parte, aveva notato nei suoi occhi un’espressione leggermente persa; aveva ammirato i suoi gesti quasi dolci, ne aveva apprezzato le sincere intenzioni vedendola lavare i piatti e tentare lo spolvero. Fosse che il suo amore, quasi perduto, cominciasse proprio ora che stava perdendosi del tutto a provocare smottamenti alla montagna? Meglio non pensarci, non illudersi, che poi alla sofferenza della delusione nessuno si abitua facilmente. Così era la sua vita, così aveva scelto di viverla: mal-lavato, mal-nutrito, mal-stirato, non amato. Che era il peggio.
Aprì la porta. Nessuno gli venne incontro, come al solito, ma in quei due metri che separavano l’ingresso dal salottino “buono”, avvertì un profumo inconsueto, che gli ricordò quello del convento nei giorni di festa. Tutto buio. Solo la luce fioca della sera che entrava dalla porta aperta lasciava intravedere quel poco che per lui produsse lo stesso effetto di un miraggio dopo giorni di deserto. Si strofinò gli occhi per poter guardare meglio: casoncelli dappertutto… c’erano casoncelli dappertutto. Ce n’erano sopra il tavolo, sulle seggiole, sul divano, sulle poltrone e sui pensili, sulle mensole e nella credenza semi aperta dove c’era posto; perfino sul piccolo televisore. Era chiaro chi fosse l’artefice di tanta abbondanza, pari ad una moltiplicazione divina di pani e pesci: indossava un grembiule troppo grande e… farina dovunque. Aveva farina dovunque.
“Ti sono sempre piaciuti, lo so” e gli buttò le braccia al collo.
Preso così, alla sprovvista, riuscì solo a pensare alle devastanti conseguenze climatiche che il fortuito abbraccio avrebbe potuto causare: piogge, neve, trombe d’aria, uragani, persino terremoti. Si divincolò con dolcezza.
“Perché è tutto buio?”, chiese con un filo di voce.
“Dose per 30 persone. Lasciare riposare la pasta in un luogo fresco e buio. Questo c’era scritto sul libro”.
Si accasciò sulla poltroncina, preso da quello che attualmente potrebbe essere definito un calo dello stress, srotolando tutta la sua vita, come si fa con un rullino fotografico: i gradini, i frati, il saio, i giorni perfetti, le chiacchiere, il freddo di novembre, l’amore che smuove, il non amore che fa piangere, la finestra sul retro, i casoncelli. Già, i casoncelli. Dove li avrebbero potuti mettere? Erano così tanti?!
Si racconta che da quel momento preciso iniziò a piovere e piovve insistente per giorni, tanto che pochi ebbero il coraggio di uscire di casa. Non vi furono catastrofi, ma quella pioggia era comunque strana per quel tempo estivo, tanto strana che fu degna di memoria. Poi la pioggia finì e finirono i casoncelli, solo una cosa, che iniziò quella sera, non ebbe fine.
A quell’abbraccio fortuito di quel giorno perfetto, ne seguirono altri, lunghi come il tempo che li aveva preceduti. E furono tanti, ma così tanti che davvero non si sarebbero potuti contare.

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