Racconto di: Vincenzo Sottile

(Prima pubblicazione – 8 gennaio 2020)

 

Ettore Meravigli era un uomo di poche parole. Lo era sempre stato fin dai tempi giovanili del liceo. La sua poca loquacità non era il prodotto artefatto di una posa, come spesso aveva osservato in svariati campionari di persone che gli era capitato di vedere nel lungo arco della propria esistenza, bensì di un’inerzia psichica che aveva riscontrato di possedere dentro di sé sin dai tempi dell’adolescenza.

Non che fosse stato mai un disadattato. Anzi! In un certo senso, anche se non amava che glielo si ricordasse, era stato un uomo di successo, fin dai tempi della frequentazione con le compagne ed amiche del liceo. Alto intorno al metro ed ottanta, centimetro più, centimetro meno, con due occhi nero carbone che, quasi quasi, trapanavano lo sguardo dei suoi interlocutori e una chioma corvina sempre disordinata per la sua discreta lunghezza ma che richiamava l’attenzione per la bellezza dei suoi folti capelli ricci, Ettore non aveva mai subito l’ostracismo dei suoi coetanei anche per il suo notevole successo con il pubblico di sesso femminile che gli forniva un discreto credito fra i ragazzi, i quali inghiottivano bile e lo invidiavano ma non potevano evitare di ammirarlo segretamente.

A quei tempi, quindi, l’esistenza, se non proprio completamente un castello incantato pieno di fiori profumati, sorrideva al nostro giovanotto che spendeva la sua vita fra scuola, palestre, feste con amici e piscine. A ciò debbasi aggiungere che il padre di Meravigli era un luminare della scienza medica molto conosciuto nell’ambito della sua città natale, Torino, ma anche, con una discreta risonanza,in campo nazionale ed estero. Saverio Meravigli era primario del reparto di cardiologia in uno dei più prestigiosi ospedali torinesi e, considerato questo indubbio dato di fatto, non è che in casa ci fossero rilevanti problemi economici. Inoltre, essendo figlio unico, tutte le attenzioni erano concentrate su di lui e non gli mancavano certo né svaghi e gratificazioni di varia natura.

Nonostante ciò, già in quel periodo, durante il liceo scientifico e, in maniera molto più’ brutale durante il lungo periodo che era culminato con la laurea in economia e commercio, aveva avvertito i sintomi morbosi di un malessere che, per quanto avesse consultato vari testi medici relazionati con aspetti psicanalitici, non era riuscito a focalizzare fino in fondo.

Non che ci fossero problemi di particolare natura. Semplicemente si sentiva sempre vuoto ed apatico, pur sforzandosi di non farlo apparire nella vita di tutti i giorni per non preoccupare inutilmente genitori ed amici. Un malessere oscuro,sempre più profondo, che lo trapanava nelle più profonde viscere del suo essere ma in maniera quasi invisibile e subdola.

Venne, in seguito, la laurea in economia E commercio e, quasi di getto,l’assunzione in un importante istituto bancario della sua città. Nel contempo Ettore continuava a vivere con i suoi genitori nella sua bella casa di Cavoretto, un quartiere molto chic di Torino che si ergeva su una collina.

Il matrimonio era stato quasi una naturale evoluzione di questo stato di grazia. Aveva conosciuto ad una festa studentesca la sua futura moglie, Eugenia Druetti, figlia di un importante industriale laniero del biellese. Non che la ragazza non brillasse per intelligenza o fosse particolarmente incolore. Il fatto era che Eugenia si era laureata in Giurisprudenza quasi con il massimo dei voti ma era intenzionata, se non a ricoprire un ruolo quasi da bella statuina, a godere fino in fondo dei privilegi scaturiti dalla sua condizione sociale e, in un certo qual modo, a non combattere per una sua emancipazione personale a livello lavorativo. La laurea era ben presto finita dimenticata in uno dei tanti cassetti di casa ed Eugenia si era dedicata, senza grossi scrupoli di coscienza, ai passatempi di molte persone del suo ambiente sociale medio-alto costituiti da lunghe sedute presso l’estetista, grandi passeggiate di prammatica con le sue amiche senza mai comunicarsi niente di veramente autentico, qualche circolo culturale e una montagna di vuoto esistenziale!

Si era verso la metà degli anni sessanta e la società era ancorata ancora a vecchi convenzioni, anche se si avvertivano già i primi focolai di un discreto risveglio di coscienza che avrebbe poi stravolto l’intero universo. Tuttavia, per quei tempi, era la prassi che le donne, dopo il matrimonio, se non propriamente costrette dalla necessità, non lavorassero. Niente di strano, quindi. Solo che ad Ettore la cosa dava fastidio, non tanto per il quasi vegetare della moglie, spesso e volentieri sul divano di casa, quanto anche per la totale impossibilità di trovare dei punti d’incontro nella vita di tutti i giorni che esulassero dalle normali e improcrastinabili necessità della vita quotidiana. Eugenia, per esempio, pur essendosi brillantemente laureata, non aveva quasi più aperto un libro da quel giorno, se si escludevano alcune riviste di gossip e di moda. L’unico lato discreto in mezzo a quell’intrico di sensazioni contraddittorie era che l’aspetto sessuale, tutto sommato, non difettava anche se Ettore non ne era pienamente soddisfatto. Difatti l’uomo percepiva una freddezza di fondo della consorte che, sia pur adempiendo senza grossi svarioni a tutti i suoi doveri di moglie, rimaneva sempre distante dal punto di vista dei sentimenti. Praticamente era come se recitasse un ruolo!

Poi, erano venuti i figli e l’unione, almeno in parte, si era rinsaldata. Senza con ciò enfatizzare eccessivamente il merito dei due rampolli Meravigli, non si poteva affermare in alcun modo che i ragazzi non fossero stati fonte di soddisfazione per i genitori, sia durante l’infanzia che durante il difficile passaggio all’adolescenza. Ragazzi quasi d’altri tempi e senza particolari fisime per la testa. Mirco, il maggiore, era divenuto un brillante professore di fisica nucleare al Politecnico di Torino ed era molto quotato fra i colleghi del suo ateneo. Era ancora single per sua libera scelta malgrado avesse avuto varie relazioni. Giada, di tre anni minore che il fratello, si era laureata in archeologia ma, anche lei, sia pur per distinte ragioni rispetto a quelle della madre, o almeno così sperava suo padre, aveva rinunciato al lavoro per amore sposando Igor, un brillante professore di diritto che insegnava in un istituto tecnico dell’hinterland torinese. Quasi in un batter d’occhio era poi nato il figlio di Giada ed Igor che aveva attualmente dieci anni e che si chiamava Alessio. Il bambino era il balocco dell’intera famiglia, essendo anche l’unico nipote e, più passava il tempo e più tutti riconoscevano un accentuarsi di somiglianze fisiche e comportamentali con il nonno. La stessa bellezza violenta, quasi altera di nonno Ettore, ma anche la sua medesima ombrosità con bruschi cambiamenti d’umore.

Con il passare del tempo, soprattutto negli ultimi due anni dopo la morte della moglie Eugenia, uccisa prematuramente a settantacinque anni da una malattia tumorale, Alessio, un po’ per sua scelta ed un po’ anche per merito della mamma, veniva sempre più spesso a casa del nonno. Non che ad Ettore la cosa infastidisse! Al contrario! Gli faceva molto piacere occuparsi del nipote e, certamente, si rendeva pienamente conto che Giada cercava di evitare che il padre si rinchiudesse sempre più in uno stato di totale abulia, Però, nel fondo non è che facesse molti sforzi per sfuggire a questo stato di cose. Era ormai in pensione, quasi sull’onda dell’ottantina e ritornava prepotentemente allo stesso stato di apatia dei suoi 15-20 anni! Odiava che le persone volessero scuoterlo dal suo torpore! Per colmo, se vogliamo dire, di fatalità, come tutte le persone anziane, anche lui non sfuggiva a varie fissazioni. L’ultima, in ordine di tempo, era relazionata con un vecchio orologio a cucù in legno intarsiato e di foggia barocco-veneziano: questo pezzo di antiquariato era appartenuto alla famiglia dei suoi nonni paterni ed era tradizione si dovesse tramandare di generazione in generazione. Solo che, in quel periodo, Ettore odiava il suo lento e implacabile scandire delle ore con i suoi battiti ripetuti. L’Anormalità della questione, per un uomo molto quadrato e rigido di vedute come era stato lui, non era tanto la sua ossessione per il fluire del tempo quanto il fatto che stava iniziando ad odiare quell’orologio perché gli evocava dei ricordi dolorosi collegati con quei due nonni tanto venerati.

Ettore, che sempre aveva mal digerito la triste solitudine sociale che pativano quasi tutti i suoi simili nel senso di incomunicabilità, era ora in procinto di domandarsi se non avrebbe fatto un mare di bene a regalare quel prezioso reperto quasi archeologico che, al di là di ogni considerazione puramente accademica, lo manteneva ancorato ad un triste passato che stava accentuando drammaticamente la sua apatia. Per questo motivo, ogni mattina diceva a se stesso che avrebbe dato via il cucù a quella coppia di vicini simpatici del piano inferiore al suo, Carlo e Laura che, spesso e volentieri, lo avevano invitato a cena.

Gli sposi erano due trentenni senza figli che lavoravano entrambi in una grande impresa di import ed export. In una di queste cene il discorso era anche scivolato per abilità diabolica del vegliardo sul possibile dono di quell’oggetto tanto prezioso e i due novelli sposi, pur negando amabilmente la gentile offerta del loro maturo vicino, non avevano fatto mistero di apprezzare quel “cosiddetto rudere”.

In seguito la cosa era un pò caduta nel dimenticatoio. Caduta, ma non per questo accantonata. Soprattutto per un uomo di quasi 80 anni la cui giornata era scandita da ritmi ormai blandi.

Quel pomeriggio di fine ottobre Ettore sonnecchiava svogliatamente sul sofà del soggiorno di casa sua. Era un’abitudine che aveva preso da un paio d’anni a questa parte, praticamente quasi in concomitanza con la morte della moglie. Le sue abitudine culinarie erano ormai molto parche e frugali, senza particolari eccessi. Unico stravizio, di quando in quando, una torta mimosa comprata nella pasticceria vicina alla sua abitazione. Quanti pomeriggi aveva “ingannato” con sua moglie gustando molto lentamente i vari bocconi di questa meravigliosa torta.

Perché per i coniugi Meravigli quel mangiare pezzi di torta non era solo una semplice soddisfazione del palato ma costituiva quasi un rito. Tutti e due nutrivano una passione quasi incontrollabile per quel genere di dolce. Al ripensarci, in quel momento, gli occhi dello stimato professionista si riempirono di lacrime che tentò inutilmente d’ingoiare. Precauzione, di per sé, un tantino stupida perché non c’era nessuno! Ma la mente umana è un mistero quasi insondabile! Ettore non era uomo che si perdesse in sentimentalismi ma preferiva trangugiarli dentro il suo essere.

Fra un cucchiaio di dolce e l’altro, Meravigli leggeva o, per meglio dire, tentava di leggere un articolo di Panorama che si riferiva all’ennesimo colpo di stato in un lontano emirato arabo. Il testo sarebbe stato anche interessante se l’uomo fosse riuscito, anche solo per qualche istante, a smettere di rimuginare la sua ossessione “orologio a cucù”. Ma non c’era proprio niente da fare. Era un meccanismo contorto che si scatenava dentro di lui e non gli dava requie.

D’improvviso il telefono suonò una, due, tre volte, quasi con un tono imperioso. Ettore sollevò il ricevitore ma senza particolare enfasi, abituato com’era alle varie conversazioni serali con sua figlia che, ogni tanto, gli proponeva piani per le giornate successive, quasi sempre collegati con l’eventuale presenza di Alessio a fianco del nonno. Questa volta, però, l’uomo sobbalzò perché la figlia, quasi in un sussurro, probabilmente per l’ormai poca forza psichica di urlare e strepitare, gli disse che l’adorato nipote era stato ricoverato in ospedale per essere caduto dalla bicicletta ed aver sbattuto violentemente la testa. Giada era in ospedale con suo marito e reclinò la subitanea offerta di Ettore di prendere un taxi e di recarsi lì. Non voleva che il padre si strapazzasse. Ci fu qualche istante di imbarazzato silenzio ma, alla fine, Ettore disse: «Non voglio solo essere una comparsa nella vita di mio nipote e decido io se venire o non venire!»

Da quel giorno sono passati altri sei mesi. Fortunatamente l’incidente di Alessio non ha avuto gravi conseguenze e, dopo una tac per riscontrare eventuali lesioni nascoste, il ragazzo è stato dimesso in un paio di giorni per ricovero precauzionale. Anche la botta in testa, che tanto aveva allarmato Giada ed Igor, si è poi concretizzata, nella realtà, in un nulla di fatto. Altra cosa è invece la botta psichica che ha scatenato in testa dell’apatico nonno. Ettore ha finalmente compreso che non è un crimine regalare un oggetto tanto amato in famiglia se poi tutto questo serve a riprendere in mano le redini del proprio vivere e a disancorarsi da un passato ormai “morto”. Chiaro che ha dovuto chiedere il permesso ai due amati figli di poter disfarsi del famigerato cucù, regalandolo    ai  suoi  tanto  cortesi  vicini. Inizialmente  i  due  figli  hanno sollevato qualche piccola  remora ma poi, anche a seguito delle        esaurienti spiegazioni paterne che, per la prima volta non sono state oscure ed ermetiche,

hanno compreso le ragioni del padre. E forse in quel preciso istante la fittizia famiglia Meravigli è diventata, non solo sui registri anagrafici, una vera famiglia. Meglio ereditare un orologio di meno ma tornare a percepire dei focolai calorifici che si erano quasi estinti. Ma le sorprese non sono finite con questo: Ettore ha compreso che avere 80 anni non significa “uccidersi anzitempo”, bensì tentare di continuare a vivere accettando tutti gli inevitabili alti e bassi. In conseguenza di ciò ha ripreso a frequentare una piscina vicino casa per non addormentare il suo corpo di vegliardo, si è iscritto a vari circoli culturali e cerca il più possibile di partecipare ad iniziative sociali del suo quartiere. La deduzione che sorge spontanea da tutto questo è che, paradossalmente, la paura di vedere morto il nipote tanto amato ha resuscitato in lui la bramosia di vivere.