Racconto di Enzo Secondo

(Prima pubblicazione)

 

Errol, con il quale passai i sette anni di scuola elementare, era un gingi, un ebreo dai capelli rossi.
Nelle comunità ashkenazite, i rossi sono una minoranza verso la quale si mostra affetto e perfino deferenza: David, re della nuova Israele unita, è descritto nel Libro di Samuele come “rossiccio”, e la mitologia post-biblica celebra una stirpe di guerrieri, di royteyidn, gli ebrei rossi, superuomini capaci di proteggere i figli d’Israele da qualsivoglia disgrazia.
Errol era intelligentissimo. A differenza dell’altro nostro compagno Ivan, un lituano dal viso improbabile ed incongruente, Errol era poco studioso ma, caratteristica allora inusuale per un giovane ebreo, era molto dotato fisicamente. Già nel penultimo anno giocava nella prima squadra di cricket e di tennis e capitanava quella di calcio. Era un ragazzino socievolmente spensierato e mi insegnava insulti e battute sconce in yiddish; dal riservato ed enigmatico Ivan, invece, imparai soltanto le parole della canzone popolare HavaNaghila.
Ho sempre avuto, ed ho tuttora, una spiccata simpatia per le persone dai capelli rossi: se sono femmine, ne subisco il fascino, se son maschi, provo un’istintiva ammirazione per la loro appariscenza ed immancabile, contagiosa vivacità.
Col suo viso pieno di efelidi, Errol il Rosso piaceva perfino a mia madre.
Alla Yeoville Boys’ School di Johannesburg si faceva un lungo intervallo a metà mattinata. I ragazzi attraversavano la Bedford Road per andare a giocare nel campo sportivo, che confinava a nord con la chiesa cattolica della parrocchia Saint Francis of Assisi e ad ovest con la sinagoga Beth Din. Nei primi due anni di scuola mia madre a volte passava di lì a quell’ora, tornando a casa a piedi dopo aver fatto la spesa.
Nel nostro quartiere nessun italiano aveva ancora aperto una panetteria ed il pane a cassetta venduto dai greci ciprioti non ci piaceva: né quello bianco, né tantomeno quello integrale. Per questo motivo molti italiani si facevano il pane in casa. Mia madre, invece, preferiva servirsi da Fiegl’s, – un panettiere kosher a pochi passi dalla sinagoga – che vendeva anche prodotti da forno “continentali”, per noi goyim, non ebrei. Insieme al pane mi comperava spesso un hot cross bun, un panino dolce con l’uvetta, decorato con un taglio a croce, e me lo sporgeva attraverso la staccionata del campo, raccomandandomi di dividerlo con Errol, il quale la vedeva avvicinarsi prima che la scorgessi io, e le correva incontro sfacciatamente, pur sapendo che quel dolce proprio kosher non era.
Invece del solito panino dolce, un giorno mia madre comperò da Fiegl’s una piccola challah, una pagnotta intrecciata e lucida, cosparsa di semi di papavero. La prese dalla sporta e, rivolta più al mio amico che a me, quasi si scusò, nel suo inglese approssimativo:
<< Oggi vi ho portato questa. Niente dolci. Vi guastano i denti. >>
Il Rosso si illuminò.
<< Grazie, signora. A casa mia la challah si mangia durante lo shabat. Posso spezzarla io? >>
Mia madre gli porse la pagnottella, avvolta nella carta velina, e lui la prese con entrambe le mani. Poi, inaspettatamente — per noi — chiuse gli occhi e mormorò alcune parole prima di dividerla in due parti. Mi fece scegliere la mia metà, poi salutammo mia madre e ci allontanammo, masticando fianco a fianco.
Le nostre strade si divisero alla fine della scuola superiore: la mia famiglia tornò in Italia nel ’68 ed Errol lasciò il paese poco dopo, per andare a vivere in Australia.
Passarono quarant’anni prima che riprendessimo i contatti e quasi cinquanta prima di rivederci.
Errol mi aveva proposto di raggiungerlo a Bellagio, dove era in vacanza con la seconda moglie, un’australiana di famiglia ebrea rumena. Finiti gli abbracci e le presentazioni, passeggiammo chiacchierando sul lungolago, seguendo le mogli, che riuscivano a conversare anche se nessuna delle due conoscesse bene la lingua dell’altra. Quando ci fermammo per prendere un aperitivo vicino all’imbarcadero, mia moglie mi disse:
<< Ci vorrà un bel po’ di tempo per raccontare quello che vi è successo negli ultimi cinquant’anni. Come farete? >>
Errol il Rosso si fece tradurre l’osservazione e replicò divertito:
<< Dille che ha ragione. Le cose che ci sono capitate sono certamente interessanti, ma non sono fondamentali. Oggi ci godiamo la nostra amicizia, che ha resistito così a lungo perché noi due non ci siamo mai davvero allontanati. Forse non lo sai, e forse non c’entra nulla, ma tu sei l’unico fra i miei amici goyim con cui io abbia mai spezzato il pane. >>