Racconto di Veronica De Gregorio

(Prima pubblicazione – 23 dicembre 2018)

 

 

 

Per la mia famiglia la vigilia di Natale è la festa delle feste. Si svolge a casa di mammà, nessuna alternativa, ed è tutta un’ *ammuina generale. Più che una casa, sembra la stazione centrale all’arrivo di un treno regionale. Armati di figli, nipoti, coniugi, cani, regali, bottiglie di vino e di prosecco infiocchettate, *tiane e *caccavelle ricolme di partenopee prelibatezze e che ciascuna delle femmine di casa ha amorevolmente preparato a casa propria, sbarchiamo da una variopinta serie di automobili che parcheggiamo tutte in coda, perché di stare insieme ci piace così assai che anche le nostre automobili devono stare vicine. Noi non siamo una famiglia. Siamo un esercito. Tra figli, cognati e nipoti arriviamo a ventidue, ma se aggiungete i cani, che a casa mia hanno la stessa dignità dei *cristiani, il numero sale a venticinque. E’ un totale approssimativo e per difetto. Qui a Partenope siamo gente ospitale e chiunque si trovi dalle nostre parti, bussa alla porta e si siede a tavola con noi, accolto benevolmente anche dai cani. Nessun problema per i posti a sedere, siamo attrezzati per ogni evenienza di sovraffollamento. Esauriti i tavoli presi in prestito dal vicinato, li affittiamo da “Giggino” Sprint, chiamato così per la velocità dei suoi servigi. Ex operaio, “Giggino” Sprint è un disoccupato che per sbarcare il lunario affitta i tavoli di casa sua. In cerca di fortuna, i sette figli sono emigrati all’estero insieme alle famiglie. Il Natale lo festeggia soltanto con la moglie, un tavolino da colazione e due posti a sedere gli sono sufficienti.

 

La mia famiglia a Natale sembra che giochi in una gara a premi. Bisogna superare molte prove prima di raggiungere il traguardo del cenone. La prima tappa consiste nell’appropriarsi dell’ascensore, per non spezzare la continuità del nostro arrivo. Battere la concorrenza di altri parentadi pretendenti, richiede affiatamento e una precisa strategia, la nostra è collaudata ed efficace. Disposti in fila, insieme a pacchi, tiane, bestiole e *criature, ci agganciamo stretti stretti, come piccoli vagoni di un trenino. I commenti dei contendenti alle nostre spalle sono poco lusinghieri, ma mammà e mio padre, che, purtroppo, non c’ è più da una decina di Natali, ci hanno educati a non raccogliere, sicché rispondiamo sorridendo e facendo gli auguri. Arrivati sul pianerottolo, in gruppi indipendenti dai vincoli degli status anagrafici, e in tempi variabili e dipendenti dalla capacità di carico dell’ascensore, irrompiamo vociando a casa di mammà. Di bussare il campanello non c’è bisogno. Mammà è abituata a destreggiarsi con i problemi di una famiglia numerosa, ha un forte senso pratico, non potendo permettersi un portiere che gestisca la situazione, lascia la porta aperta. L’occupazione della magione sembra l’allestimento di un campo di battaglia. Ogni entrata si suddivide in due parti. La prima corrisponde all’ingresso, in fila indiana come Re Magi replicati, dei convenuti. Gli adulti hanno entrambe le mani occupate da vassoi, contenitori per alimenti e piatti da portata che, senza neanche togliersi i cappotti, vanno a posare su una tavola apposita e che mammà ha preso in prestito dalla vicina. Tartine, cremine e salsine d’ogni sfumatura di colore, fantasiosi antipasti, sfiziosità di tutti i generi, briosche e pizze rustiche, delizie vegetariane per chi non mangia altro (apprezzate anche da chi vegetariano non è), formaggi, mozzarelle salami, cotechini e prosciutto, uno, con tanto di affettatrice, fanno bella mostra su un’allegra tovaglia natalizia. Poi ci sono i dolci. Quelli natalizi per noi partenopei sono una religione. Guai a dimenticarne uno, non sembrerebbe più Natale. Struffoli, mustacciuoli, roccocò, pasta reale, raffiuoli, susamielli e sapienze in quantità si aggiungono a cioccolatini, a un paio di torte, al panettone, al pandoro alla cassata e ai cannoli siciliani, perché noi partenopei non discriminiamo nulla, ne abbiamo il senso e coltiviamo l’accoglienza, anche per i dolci di altre tradizioni. La pittoresca esposizione culinaria, al confronto della quale la tavola di Pantagruel apparirebbe come quella di un anoressico a dieta, è arricchita dall’immancabile tocco finale di datteri e fichi secchi. Ah, dimenticavo, c’è anche ‘o spass “. Sintesi partenopea di taralli e frutta secca, derivante dall’antico mestiere del “nocellaro” ( venditore ambulante di noci, nocciole, mandorle, noci sorrentine e taralli), inattaccabile dagli assalti americani delle noci californiane, è un punto fermo della nostra tradizione. Armati di schiaccianoci, martelli, basi di caffettiere ( perché siamo tanti e gli schiaccianoci son pochi) e fantasiosi oggetti contundenti, lo consumiamo a mo’ di digestivo, alla fine della interminabile maratona culinaria.

 

Mentre i cani abbaiano festosi, si passa alla seconda fase della seconda tappa e che si svolge con una successione velocissima di atti: lancio di cappotti, giubbini, sciarpe e cappelli dei bambini, borse e giacconi su un divano; disposizione di ciotole per i cani lungo il corridoio; assiepamento di decine di doni intorno all’albero. Io e le sorelle, corriamo subito ai fornelli per aiutare mammà che, intanto, è all’opera con gli ultimi dettagli. La mezzaluna per il prezzemolo da mettere sugli spaghetti alle vongole, lo spremiagrumi con il limone da versare sull’insalata di polpo, le olive e le papaccelle* da mettere con il cavolo e le acciughine nella ’ “insalata di rinforzo”, i gamberi e i calamari da friggere, il baccalà da infarinare, le scarole da ripassare in padella con i capperi, le olive, i pinoli e l’uva passa, l’aglietto nei broccoli di Natale, sono i dettagli di quanto finirà nei nostri piatti. Manca soltanto la pentola per la pasta. Per ventidue persone, ottanta grammi di spaghetti a testa fanno quasi un chilo e ottocento. Alla mancanza di una pentola adeguata, mia madre ha sopperito con la virtù della necessità. Tre pentole e relativi coperchi sono pronte sul fornello a risolvere la faccenda. Saliamo l’acqua e caliamo la pasta, in tre, sincronizzando i tempi per evitare differenze di cottura. Finalmente la festa delle feste ci vede tutti riuniti. Intorno a tre tavoli disposti in fila, , ciascuno ha la sua sedia, due bicchieri, le posate, il tovagliolo e il segnaposto, ma nella foga di stare tutti insieme e di non perdersi nessuno, cambiamo posto in continuazione e tutto l’ordine della tavola è stravolto. Il risultato finale di questo gioco ai quattro cantoni consiste nella totale confusione di posate, tovaglioli, piatti, scambio di bicchieri ( siamo tutti sanissimi e, tranne quelli dei figli e dei nipoti, li condividiamo). Intanto, mentre cuoce la pasta, nonostante la reiterata promessa di scartare i regali dopo la mezzanotte, il desiderio d’anticipare le facce stupite dei bambini e gli occhi raggianti di mia madre, è irrefrenabile. E così, nel tacito consenso generale, decidiamo di contravvenire, come ogni anno. E’ il momento più caotico della festa, quello topico. Ventidue per ventidue fanno 484, tanti sono i doni da distribuire. Riccioli di nastri rossi, sfavillanti e variopinte carte da regalo, gli “Oh”, gli occhi sgranati e gli assalti ai pacchi dei bambini; i “Grazie” esclamati dagli adulti; le facce imbarazzate di chi, pur potendosi permettere solo sciocchezze, è ringraziato con gioia; baci, abbracci, affettuose pacche sulle spalle, perché un gesto val più di una parola; sguardi commossi e occhi luccicanti; il volto amorevole di mia madre che ci guarda come se non fossimo cresciuti; la moltiplicazione delle rassomiglianze tra noi figli sulle facce dei figli e dei nipoti; è tutto un quadro di voci, d’amore, di vita, fratellanza, gaiezza e innocenza in movimento. E’ un quadro splendido. E lo si ammira la sera della vigilia di Natale. A casa mia.

 

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*Ammuina: confusione

*Tiane: padelle

*Caccavelle: pentole e casseruole

*Cristiani: persone

*Criature: bambini, figli innocenti di Dio