Racconto di Enza Graziano

(prima pubblicazione – 28 agosto 2020)

 

 

 

Ieri ho incrociato un ragazzo in montagna, lungo il sentiero che porta alla Vetta delle Cinque Punte. Camminava a passo sostenuto, aiutato dalla discesa.

Procedeva da solo, con gli scarponcini da trekking ed il bastone da montagna, un bermuda con tanti tasconi, cappello con visiera e zaino in spalla. Aveva l’aria di un’anima in pace con il mondo.

«Hey, solitario, dove te ne vai?» gli ha chiesto Carlo, con la solita curiosità invadente.

Lui si è voltato, sorpreso; probabilmente, non si aspettava che qualcuno fosse interessato alla sua presenza, così come lui non si era affatto mostrato incuriosito dalla nostra. Infatti, nonostante fossimo un gruppetto tutt’altro che silenzioso, il ragazzo aveva continuato a camminare senza neppure posare per un istante lo sguardo su di noi, evidentemente perso nei suoi pensieri.

«Faccio una passeggiata in montagna!» ha esclamato, con un tono che sottolineava volutamente l’ovvietà della risposta, conseguente ad una domanda impertinente nella sua disarmante spontaneità. Ho pensato che uno che cammina da solo in montagna difficilmente è interessato agli approcci sociali, almeno in quel frangente. Per la prima volta ho visto Carlo arrossire: credo che si sia sentito inopportuno.

«Beh, questo lo vediamo» è intervenuta Maria, come una mamma che d’istinto accorre a difendere il suo cucciolo. Ha pronunciato quelle parole con un sorriso a metà tra il beffardo e l’infastidito. «È quantomeno insolito imbattersi in una persona che si avventura da sola in alta quota» ha continuato, tentando volutamente di utilizzare un linguaggio forbito per impressionare il giovane. La conosco, quella donna, e so bene che in ogni contesto ha bisogno di ostentare la sua posizione sociale attraverso il modo di parlare.

Ho colto una smorfia sul viso del ragazzo, la quale comunicava la sua crescente insofferenza nei confronti di una conversazione che non solo non aveva cercato, ma che cominciava a stancarlo. A quel punto sono intervenuta, senza pensarci, per evitare che si rischiasse di degenerare. «Non hai paura di affrontare la montagna da solo?» ho chiesto, sorridendo amichevolmente, mentre avrei voluto essere più schietta e dirgli apertamente: «È da folli salire da solo quassù! E se ti succede qualcosa?»

«Perché dovrei? Siamo natura nella natura; di conseguenza, non può accaderci nulla che non sia naturale. E poi, la vicinanza con Dio, in questi luoghi spettacolari, è palese: sono sicuro che Dio mi assista» e ha voltato le spalle per riprendere il suo cammino. Mentre si dileguava, addentrandosi in una vegetazione così fitta che schermava i raggi forti di un insolito settembre, l’ho sentito proseguire: «Se hai paura di morire, muori ogni giorno». Le sue parole erano volate verso le chiome degli alberi, confondendosi con il canto intenso degli uccelli ed un tenue muggito, appena percepibile, di vacche in lontananza. Si era dato letteralmente alla fuga ed io ero rimasta lì, impalata, mentre i miei compagni avevano proseguito la salita, inquietati da quella presenza solitaria.

Li ho raggiunti, infastidita dal loro atteggiamento snob e dalla loro mentalità non abbastanza aperta da riuscire ad accettare una voce fuori dal coro. Li ho superati, senza proferire parola e sono arrivata per prima in vetta, con un fiatone difficile da tenere a bada. Avevo bisogno di godermi qualche istante di silenzio mentre i miei occhi si perdevano in quello spettacolo senza orizzonti ed il mio corpo elaborava l’illusione del vuoto sotto i piedi, al contrario ben saldi su un dirupo. Un istante per una profonda boccata di libertà e l’ho visto: un quadernetto malandato appoggiato sull’erbetta. L’ho preso e l’ho infilato velocemente nello zaino. Non avevo alcuna voglia di sentire commenti sullo sconosciuto che, sono sicura, sarebbero arrivati di lì a poco. Così, una volta recuperato il fiato, sono scappata, urlando ai miei compagni, sgomenti «Ci vediamo giù!», nel tentativo di raggiungere quel ragazzo scontroso e restituirgli il quadernetto. Ero sicura che fosse suo.

L’ho ritrovato, lo sconosciuto, che montava in sella a una grossa moto. Mentre indossava il casco, mi ha detto: «Tienilo tu», indicando con un movimento del mento il quaderno, che nel frattempo avevo tirato fuori dallo zaino.

Una volta tornata a casa, mi sono persa in quelle piccole pagine fitte di nero. Le più belle, quelle che parlavano della giornata appena trascorsa: righe buttate giù come pensieri che si affacciano alla mente e, proprio per questo motivo, intrise di quanto più intimo possa esistere.

Ho caricato la mia piccola macchina di tutto l’essenziale: uno zaino, una tenda, degli scarponi da trekking, una tanica di acqua ed un po’ di viveri. Mi sono avventurato verso il luogo ideale dove dire addio al mio celibato, alla mia libertà e sentirmi veramente e vivamente libero: la montagna, la natura. Arrivato sul posto, ho preparato il campo. Per prima cosa, ho montato la mia piccola tenda igloo, amica di tempi passati, per me la casa più bella che un uomo possa sognare nella vita. Poi, ho raccolto della legna per il bivacco, sotto lo sguardo di una pecora solitaria tanto quanto me. E quando il sole è andato a dormire, ho dato il via alla mia festa. Ho acceso il fuoco ed ho gustato delle ottime salsicce cotte alla brace e un caciocavallo  di cui non dimenticherò mai il sapore, ne sono sicuro. Mi hanno fatto compagnia una bottiglia di vino, le luccicanti scintille del bivacco, tanto silenzio e una moltitudine indefinibile di stelle.

È stata una serata che ricorderò come piacevolmente eterna. Ho divagato con la mente, partendo dai ricordi di quando ero bambino. La notte è stata insonne, sia per l’emozione sia perché nel silenzio notturno del bosco un semplice battito di ali può sembrarti uno tsunami.

Nonostante le poche ore, forse addirittura minuti, di sonno, e la sbornia (la bottiglia di vino è finita), stamattina mi sono svegliato come un leone. Il tempo di una colazione fugace e di smontare il mio amato rifugio e sono pronto per la scalata.

Dopo qualche ora di faticoso cammino, sono in vetta, sul dorso di una meravigliosa dolina carsica, circondato soltanto dalla natura. Sono seduto su una roccia, sull’orlo di un precipizio a duemila metri di altezza. Il cammino in montagna, specie quando è fatto in solitaria, è come una confessione, come una seduta di psicoanalisi, semplicemente come ritrovare sé stesso “nudo”, nel senso più profondo. È una sensazione troppo strana: in montagna mi sento così vicino al mondo circostante, direi addirittura che ne sono parte integrante, mentre quando mi trovo in metropolitana circondato da migliaia di persone mi sento tristemente solo. Ma ora non voglio pensarci. Voglio soltanto chiudere gli occhi e godermi la pace dei sensi, la serenità che provo quando sono quassù. Ora farò una preghiera e consumerò un pasto frugale. Poi mi avvierò verso la discesa. Odio la discesa, quella che ogni volta mi sveglia dal sogno e mi riporta alla realtà e alla civiltà.

C’è chi per il suo addio al celibato vuole amici, baldoria e puttane. Io desideravo un momento per me. Il mio cervello è già una baldoria ed è già ampiamente “andato a puttane”… con la vita frenetica, la città che non ho mai digerito e la mia costante misantropia. Volevo semplicemente un momento per me stesso, via da tutti, lontano anni luce da ogni tipo di comfort e vicino soltanto all’essenziale… in poche parole “into the wild”.

 

 

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