Racconto di Eleonora Capomastro Orofino

(seconda pubblicazione – 25 novembre 2020)

 

 

La piccola Teresina aveva nove anni e sempre più sognava il giorno in cui si sarebbe fidanzata e sposata.

Accovacciata ai piedi di un rigoglioso sambuco carico di fiori bianchi, in cerca di frescura, con un cestino pieno di gomitoli di cotone e l’uncinetto tra le manine veloci, sferruzzava determinata, nonostante la vista scarsa, l’ennesimo pizzo che avrebbe un giorno fatto parte del suo ricco corredo immaginario.

Di punto in punto il lavoro cresceva e per impedire che si svolgesse lo teneva ben fermo con uno spillone; avendo il vizio di tener la linguetta tra le labbra ogni tanto la mordeva involontariamente arrabbiandosi per l’essersi deconcentrata, per poi riacchiappare il filo farfugliando tra sé e sé, compiaciuta nel riassettarsi, coi suoi irresistibili e insoliti occhi a mandorla.

Padron Libòriu e Donna Rosa, proprietari di molte terre, avevano tanto desiderato un erede – se non più di uno – a cui in futuro lasciare i loro beni, ma, per quanto lo cercassero, non arrivò, e ormai avevano finito col rassegnarsi.

Alcune comari iniziarono a insinuare che la donna potesse essere vittima di malocchio, così le suggerirono di rivolgersi all’anziana brebadora che viveva nei pressi de Sas Puntas e da cui avrebbe certamente trovato rimedio.

In pochi si avventuravano in quelle zone; la maggior parte erano pastori, che ben si assicuravano di passare il più possibile veloci e inosservati – un po’ per rispetto, un po’ per timore reverenziale – in quei luoghi in cui, tra le pietre e l’improvviso frusciar del vento fra le foglie, sussurravano spiriti antichi che non andavano disturbati.

La vecchia si era ritirata da tempo e viveva in un modesto eremitaggio, ottenuto in parte da una cavità della roccia chiara che facendosi spiovente offriva un tetto naturale; l’ingresso era poi rivestito da uno spesso strato di arbusti sapientemente intrecciati tra loro.

<< Non temere fiore bello, avvicinati, ti aspettavo! La mia amica pennuta mi ha avvisato del tuo arrivo! >> disse, mostrandosi e facendole cenno di avvicinarsi, mentre sull’altra mano, dall’indice ossuto teso a mo’ di trespolo, una graziosa ghiandaia dalle inconfondibili piume azzurrate si librava nuovamente in volo, lasciando Rosa meravigliata.

<< Non aver paura di dove ti trovi… molti ne hanno! I luoghi in cui l’uomo è assalito dallo spettro della fine sono anche quelli in cui tutto può rivelare un nuovo inizio! >> aggiunse sibillina, invitandola a sedersi su un sasso all’ombra.

<< Oh, la vedo… di luna vestita… che immensa ricchezza avrete da lei! >>

<< Ma allora sarà femminuccia? >>

<< Oh… che sposa incantata e fiorita! >> continuava a ripetere quella, recitando preghiere sulla testa della donna, mentre gli occhi lattescenti, quasi allucinati, seguivano sconosciute immagini nel vuoto in un mondo fatto solo di luci e ombre, invisibili ai più.

<< Davvero sarà così bella? >> chiedeva Rosa, col cuore carico di speranze.

<< Quanti nodi, Rosabbella! Quanti inutili nodi… già vi attorcigliate poco con quest’anima! …SARÀ COME SARÀ! >> tuonò secca la vecchia, rimettendo a fuoco l’ambiente circostante come ridestatasi bruscamente da una visione fumosa, con un tono tra il severo e il chi, conoscendo già le trame del fato, lascia che il tempo le riveli da sé.

Arrivarono le nausee, i primi desideri e, luna dopo luna, il ventre e la figura di Rosa si arrotondarono sempre più morbidamente, così come il sorriso sul viso di Libòriu.

Così, in una notte di plenilunio, mentre le serve e la levatrice si affaccendavano in apprensione perché il tutto andasse al meglio, venne al mondo la creatura tanto attesa. Le facce scurite dal timore lasciarono spazio allo stupore: era ancora avvolta nel suo sacco, come in un bozzolo, che fugacemente riluccicò prima di esser rotto, quasi a malincuore, spezzando l’incanto.

Ma, come se questo non fosse stato abbastanza, da meno non fu il suo aspetto: aveva pelle d’albaspina e capelli sottili color dell’avena. Gli occhi schiusi e obliqui, come due piccole mandorle color bacca di lentischio, e le mani minute racchiuse tra le gambe, quasi a voler timidamente nascondere il suo sesso: era davvero una femminuccia!

Rosa, Padron Libòriu e i servi tutti, non poterono che innamorarsene a prima vista.

“ Eh, già… Libòriu Deiana! …con tutte quelle terre! Voleva talmente tanto un figlio e invece ha avuto una femmina. Non solo… una figlia così! Chi mai vorrà maritarsela?”  bisbigliava scaltra la malizia, riaffiorando negli sguardi di alcuni. Nelle pupille a doppio fondo di certi occhi, si potrebbe giurare che si celino covi interi delle più letali serpi.

Passarono gli anni e la bimba crebbe, mentre i suoi pensieri e le sue fattezze rimanevano sempre molto infantili, come se le sue particolarità la tenessero indietro rispetto agli altri coetanei.

Allevata dall’amore incondizionato dei suoi genitori e della servitù, in casa fu da subito chiaro che creature come lei non avrebbero mai potuto avere una vita normale; e in Rosa col passare del tempo aumentavano le domande sul suo futuro:  la sua eterna bambina non avrebbe di certo potuto studiare – neanche avendoselo potuto ampiamente permettere – e non era neppure in grado di aiutare a tenere i conti nella vendita dei raccolti; in più di certo non avrebbe potuto aspirare ad un matrimonio, né ad una discendenza, né a qualunque altra prospettiva conveniente si potesse avere a quei tempi per la propria figlia femmina. Il cruccio che più la angustiava, era il pensare a cosa ne sarebbe stato di lei una volta che loro non ci fossero più stati; tutti questi dispiaceri spesso velavano i suoi occhi di tristezza.

<< Guarda mammina, quanti metri sono? >> rincasò rumorosamente Teresina, evidentemente tornata di corsa, come suo solito. Agitava il grosso rotolo sempre più in alto, saltellando e strattonandolo così forte per l’eccitazione, da far partire anche lo spillone.

Il pizzo volò per aria, ricadendo a terra e srotolandosi, facendo scappare la vecchia gatta che sorniona poltriva in attesa del pranzo.

<< Vieni qua, mandorlina! >> la rimbeccò scherzosamente. << Beni a innoi, menduledda! Che sistemiamo quei capelli tutti annodati, e poi a lavarti che sei tutta zozza e tra un po’ arriva anche babbo! >> e glieli raccolse in una lunga treccia impalpabile e bianca, fermandola sotto un fazzoletto.

Le preoccupazioni svanivano nuovamente, al solo candore di quel sorriso.

<< E babbo dov’è? >> chiese, mentre si lavava le manine nel catino di ferro smaltato.

<< Stamane è andato a Sassari e ha detto che per pranzo mangiava con noi, ricordi? >>

rammentò Rosa, ripulendola con un panno umido e facendola ritornare al suo colore originario.

<< Hai visto? Sei più bellina ora? Prima sembravi un maialino! >>

<< Eja! >> fece vezzosa, << …e babbo mi ha detto che se facevo la brava mi portava anche un regalo, lo sai? >>

<< Allora mi aiuterai a fargli le frittelline di sambuco? >> chiese, rivestendola con un grembiulone quadrettato di rosso e di bianco. La bambina annuì, impaziente di iniziare.

<< Ma a mamma ne lasciamo? >>

<< No, no! Le mangio tutte io! >> cinguettò vispamente.

<< E a babbo non ne lasci? Poverino, avevamo detto che le facevamo per lui! >>

<< A BABBO SÌ! Poco poco! >> si compiacque, sorridendo con le bollicine tra la linguetta e le labbra.

Per non farla annoiare, le serve le avevano insegnato a lavorare all’uncinetto e, man mano, vennero fuori dei veri e propri piccoli capolavori; li ammucchiava nella pesante cassapanca dove custodiva le sue cose e su cui stavano disegnate alcune pavoncelle, insieme ad altre figure, con le quali di tanto in tanto la sorprendevano intrattenere conversazioni incomprensibili.

<< Guarda mamma! Questo pisso è per quando mi sposo! >> non faceva altro che cantilenare sognante.

<<Va bene. Allora mamma – quando sarà – ci farà il bordo del copriletto per gli sposi! >> Ribadì, rassicurandola.

<<Ma allora,>> facendo finta di non sapere, <<che cosa ti ha portato ieri babbo?>>

<< Un ombrellino! >> fece la bambina, gongolandosi.

<< Un ombrellino? Oh, che bello! >>

<< Di pisso! >> specificò, arrossendo.

<< Un ombrellino di pizzo? Ma allora non serve per la pioggia! >> esclamò la mamma, stuzzicandola.  << Ma che pioggia, mamma! Un ombrellino per il sole! >> puntualizzò lei, precisa.

<< Oh, che bel regalo! E non glielo fai vedere a mamma? >>

E la mandorlina sgusciò dalle sue braccia e corse a tirarlo fuori dalla cassapanca per mostrarglielo.

<< Sembri proprio una principessa! >>

<< La principessa di babbo! >>

<< Mi raccomando, babbo l’ha preso per ripararti dal sole, ma l’ha preso anche bellino bellino così il giorno che il fidanzato ti vede, si innamora di sicuro! >>

Inutile dire che da quel momento non se ne staccò più, portandolo sempre appresso insieme al cestino, mentre curiosava per la campagna.

Alcune volte si allontanava più del dovuto e, scavalcando i muretti a secco che delimitavano la tanca, andava a curiosare nel bosco dove diceva di trovare tutti suoi tesori; la maggior parte delle volte si trattava di sassolini, foglie, ramoscelli, gusci di lumaca, ecc.

<< Principessa, dove sei stata? Babbo e mamma erano preoccupati! >> chiese il babbo.

<< Poco poco nel bosco, dai miei amici! Guarda cosa mi hanno regalato! >>

<< Ma bambina mia, se continui così riempirai la casa di cianfrusaglie! >> bofonchiò bonariamente sotto i baffi.

In fondo cos’altro avrebbe potuto fare una bambina così di-… divers-… di quel genere? E allora perché non continuare a fantasticare come se tutto fosse reale, insieme alla loro amata principessa?

<< Ma, allora, l’hai incontrato questo fidanzato? >> bisbigliò, come a chiedere un segreto.

<< Sì, sì! >> rivelò lei civettuola.

<< E com’è? Babbo e mamma sono curiosi di conoscerlo! >>

<< Ha anche la corona, lo sai? >>

<< LA CORONA?! >> esclamò toccandosi la testa.

<< La corona di rami! >> fece lei, imitando il gesto del padre.

<< E che razza di fidanzato è con la corona? Hai sentito Rosa mia? Una corona di rami! Se l’è scelto pure principe! >> rise Libòriu, voltandosi verso la moglie che li ascoltava mentre era intenta a filare, e di tanto in tanto interveniva a reggere il gioco del marito.

Come si poteva contrariare un tale candore?

Teresina così trotterellava per i campi, inebriata dal profumo dei fiori e del grano maturo, all’inseguimento di uccellini e altre voci che solo lei sentiva e cose che solo i suoi occhi di lentischio potevano scorgere, sebbene la sua delicata vista in realtà andasse sempre più peggiorando. Erano suoi amici i piccoli usignoli canterini che adorava ascoltare, i passerotti tutti, e addirittura i ragni, che le solleticavano la pelle candida.

D’un tratto qualcosa attirò la sua attenzione e lo toccò attentamente, per definirne i contorni con la mano. << Oh, che bello! Un ombrellino di pisso piccolo piccolo! >> si disse, tutta imbambolata, e ne raccolse alcuni per portarli al padre.

<< Babbo, che cosa sono? >> attese, tutta incuriosita.

<< Sono dei fiori di carota selvatica, amore mio bello! È pieno in questo periodo!>>

<< Oh… fiori di pisso! >> sorrise, toccandoli con una mano, mentre con l’altra toccava l’ombrellino, quasi a paragonarne mentalmente la forma.

Per l’immensa gioia della bambina, e con la complicità della mamma, il babbo li raccolse delicatamente tutti insieme, a mo’ di mazzolino, mettendoli in un lungo misurino per l’olio ormai inutilizzato, in bella mostra sul caminetto.

<< Così babbo mi pensa sempre! >> sorrise lei, immaginandoli.

Le pecore furono tosate, i granai si riempirono, le scorte di fieno vennero ripristinate e, sullo strascico della calda estate, si fecero avanti i primi veli della bruma.

<< Teresina, vieni qui! Ci hai fatto spaventare! Non è ora di andare in giro così presto, vuoi ammalarti? >> La rimproverò il babbo, sinceramente spaventato (e in cuor suo dispiaciuto per aver ingrossato la voce) mentre con una mano sulla spalla la indirizzava verso casa.

Ormai era quasi cieca e pensavano distinguesse a malapena la luce dal buio; eppure in quegli occhietti rubini, in una qualche maniera, continuavano a guizzare meraviglie.

Man mano che la sua vista si spegneva, le preoccupazioni di Rosa e Libòriu andavano a riaccendersi: il lavoro e i pensieri erano tanti – presto avrebbero dovuto pensare alle arature, al legname, poi alle olive – ma solo uno era in grado di pesare realmente sui loro cuori.

<< Ma che hai nei capelli? Dove caspita ti sei infilata, Menduledda? >> fece, liberandoli da un nugolo di ragnatele umide.

<< Hai visto babbo, è la corona da principessa! Me l’ha regalata lui! Che bella che è! >> esultò portandosi le mani sulla testolina di candida ovatta.

Questa volta però il babbo si accigliò silenziosamente intimamente turbato e, rientrati in casa, sentì il bisogno di prestarle ancora più attenzione, come se la nebbia che avvolgeva sempre più la vista della sua amata bambina, iniziasse a calare anche sui suoi pensieri.

“ Eppure, Mandorlina, come sorridi sempre leggera!” sospirò in sé.

Tutte le incombenze furono rimandate; presto, infatti, avrebbe dovuto organizzare e istruire gli uomini per procurare legname che gli avevano richiesto in città. Ritardare di una settimana, in fondo, non avrebbe influito più di tanto.

Piovve per giorni interi, tanto che la stragrande maggioranza delle mansioni nei terreni fu a sua volta rimandata.

Vicino al focolare, la bambina a modo suo raccontava di come quella mattina avesse incontrato un cervo. Forse era lui il principe dalla corona di rami di cui parlava sempre?

<< Ma una corona di rami di corna? >> la interruppe il babbo.

<< E certo babbo! >> rispose lei, come se fosse sempre stato ovvio. << Me l’ha regalata lui la corona d’argento e perle! L’hanno fatta i ragni, perché sono amici! Capito? >>

Così descrisse di averlo visto con questo bellissimo gioiello che i ragni avevano preparato per lei, tessendolo tra le sue corna e impreziosendolo di gocce di rugiada, per quello era uscita all’alba.

<< Altrimenti si asciugavano babbo, CAPITO?! >> Puntualizzò a mo’ di rimprovero.

Il principe l’aveva salutata e le aveva fatto un inchino, lasciando che quel prezioso regalo di fili di seta argentata si posasse sulla sua chioma di luna.

Libòriu l’ascoltava cercando di seguirne il senso e dispiaciuto al pensiero di dover toccare quel bosco – con i soldi di quella commissione  avrebbe però potuto portarla in continente, dove gli avevano indicato un illustre luminare che prometteva di restituirle la vista! – pensava che forse sarebbe stato meglio tenerglielo nascosto. Ma come?

Dopo tutto questo susseguirsi di visioni e racconti fantasiosi, la bambina cadde addormentata “continuando il suo sogno” pensò il babbo, mentre il viso ne tradiva una forte stanchezza.

<< Pensi che sia proprio necessario? >> gli chiese Rosa, stringendolo a sé e facendo propri i suoi dolorosi nodi. << Tu sai che nulla di questo mondo potrà restituirle la vista. E poi… guardala! Per lei nulla di tutto questo pare avere peso, guardala come è sempre contenta e libera! Forse dovremmo semplicemente accettare e godere dei doni preziosi che ogni giorno ci concede, senza preoccuparci troppo. >>

Libòriu la strinse forte, sentendo in lei ragione, ma ancor non si dava pace, incapace di fermarsi, annodato nell’inseguir impossibili e false speranze che lo ingannavano nutrendosi del suo cuore, sempre più ardente di disperazione.

Passò circa una settimana; Teresina, col suo inseparabile ombrellino di pizzo, stava a cavalcioni sul muretto, assorta ad ascoltare gli uccellini, mentre gli uomini andavano e tornavano dal bosco, controllata a distanza dalla madre che filava a qualche decina di metri, sotto il sambuco ormai sfiorito.

Ma i suoi amici cantavano in un modo diverso oggi… e giurò di averne sentito uno piangere come un bambino.

Approfittando di un colpo di sonno della mamma, si allontanò per inseguirlo.

Era una ghiandaia dalle piume azzurrate, di cui riuscì a intravedere ancora il meraviglioso colore, nella quasi totale nebbia che ormai appannava totalmente i suoi fragili occhi umani.

La ghiandaia, il cervo, i ragni, i passerotti, gli usignoli, insomma, tutti i suoi piccoli amici, piangevano, quando iniziò a sentire la voce degli altri uomini.

<< Teresina, che ci fai qui? >> disse uno di loro avvicinandosi, pensando si fosse persa. La bambina si irrigidì sofferente, senza che ci fosse modo di consolarla o comunicarvi.

<<Dai che ti porto da mamma, che dobbiamo preparare per lavorare con babbo!>>

Sentì un male che non aveva mai provato prima e iniziò a piangere forte, fortissimo, come se qualcosa l’avesse ferita e trapassata profondamente.

<< Il bosco no! IL BOSCO NO! >> gridò con tutto il dolore e le lacrime che aveva in corpo; e la sua voce, come un’onda invisibile, parve passare attraverso ogni tronco, animale e persona che le era vicino.

Gli uomini, spaventati, lasciarono cadere gli attrezzi e corsero a chiamare il padrone ma, al loro ritorno, di Teresina neanche l’ombra.

Calò la notte e si accesero le fiaccole. Nel bosco il nome della bambina riecheggiava; l’unico rumore che si sentiva era il crepitar delle foglie e dei rami, che si spezzavano sotto i passi, e l’unica risposta che ricevevano era il sinistro stridìo di una grande strìa, che nei loro cuori risuonava come un rimprovero per aver varcato i confini di un regno in cui gli uomini non erano di casa.

Lo sconforto si impossessò del cuore di Libòriu, mentre le parole di Rosa gli rimbombavano come pesanti martellate nel petto. Che stupido che era stato, non se lo sarebbe mai perdonato!

Tra i rami inseguiva ombre di cervi, spettri dei suoi sensi di colpa, ma della sua Mandorlina nulla… e crollò in un sonno senza sogni.

Ma il bosco, lo stesso che aveva pensato di ferire, non poteva sopportare la sua sincera sofferenza, e alle prime luci dell’alba lo svegliò, mandando un sottile raggio di sole a sfiorargli le ciglia, mentre gli altri uomini dormivano tutti.

Qualcosa di azzurro guizzò fra le foglie, come a volergli fare strada, e i rami che la notte apparivano come un inestricabile groviglio, parvero pietosamente aprirsi ai suoi passi.

La ghiandaia si fermò in un punto, per poi guardarlo un’ultima volta e volare via silenziosa: l’ombrellino di pizzo della sua bambina stava lì, come se le fosse cascato dalle manine.

<< Teresina! TERESINA! >> Ma nessuno rispose.

Col cuore stretto, si avvicinò a raccoglierlo: nascosto dall’ombrellino scoprì un altro ombrellino: era un candido fiore di carota selvatica, fuori stagione.

Rimase fermo, in ginocchio con le mani a terra, per poi sfiorare quel piccolo fiore solitario: un piccolo puntino rosso lentischio stava al suo centro e, sui suoi delicati intrecci, riluccicava una sottile ragnatela imperlata di rugiada.

<< Menduledda mia, allora era vero che eri una principessa! Quanto è stato stupido e cieco babbo! Lo doveva capire prima che tu eri diversa, perché aveva davanti una jana bella! …ma babbo a queste cose non ci credeva più! >>

Si sciolse in un pianto che gli uomini raramente conoscono: era impotente, nudo, sconfitto di ogni certezza. Le lacrime sincere lavarono via ogni nodo e ad un certo punto, quasi stupito, si sentì di ringraziare.

Un alito di vento parve animare le foglie tutte e lui giurò di averci sentito la sua piccola jana bella, un’ultima volta.

<< Bravo babbo! Grazie! >> Le sorrise dal suo mondo incantato.

Ciò che parve la fine donò un nuovo inizio: il bosco non fu più toccato e da quel giorno Libòriu e Rosa sorrisero di ogni piccolo fiore che incontravano.

Ora vedevano e sentivano e, grazie alle ritrovate candide ali dello stupore, nessuna nebbia soffocò più i loro cuori.

 

 

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