Racconto di Filippo Rigli

(Quinta pubblicazione)

 

E ancora non riesco a fermare le lacrime. Tornavo dalla campagna, ero stato a trattare i miei affari poco fuori Gerusalemme. Ero stanco, volevo solo festeggiare la Pasqua, anche se ero lontano dalla famiglia, dai miei figli. Mi imbattei in una folla, senza capire sul momento. Solo in seguito mi accorsi che non era una processione. Era un’esecuzione. La folla osservava un picchetto di soldati romani che stava trascinando un brigante. Era coperto del suo sangue, era stato flagellato a morte. Pensai che doveva essersi macchiato di colpe terribili. Pensai anche che non sarebbe arrivato vivo alla collina del cranio. No, senz’altro era troppo malconcio, ero sicuro che non sarebbe morto sulla croce. Eppure a vederlo, anche così orrendamente sfigurato, non mi parve avere l’aspetto del brigante. Troppo indugiai nei miei pensieri; la curiosità è una brutta bestia, non si addice a un uomo perbene. Il brigante, proprio nel momento in cui mi passava davanti crollò al suolo, sotto il peso del patibulum. I soldati presero a schernirlo, a prenderlo a calci. Notai un gruppetto di uomini che sembravano più partecipi degli altri. Assistevano al corteo come angosciati, alcuni sembravano sul punto di piangere. Tutto questo in mezzo alla folla che urlava e lanciava sassi e manciate di terra. Mi feci largo e mi avvicinai a quegli uomini. Chiesi al più giovane, che era appena un ragazzo, chi fosse quel malfattore. Il ragazzo mi volse uno sguardo colmo di terrore. Non lo conosco, mi disse, e lui e i suoi compagni si dileguarono nella folla. È un ciarlatano, mi disse allora una vecchia, ridendo. Un aizzatore di folle che andava predicando contro i romani, fece. Indicò con la mano ossuta gli uomini che erano fuggiti. Quei codardi sono i suoi seguaci, continuò. Li arresteranno tutti, disse, e rise più forte. Disgustato da quella vecchia mi avvicinai allora al corteo. Dietro il brigante ve ne erano trascinati altri due, ma non mi colpirono. Gli improperi della folla e le angherie dei militi erano riservati solo al primo. Provai una grande pena per quel brigante che non sembrava un brigante. Ma feci in tempo a pentirmi della mia compassione. Mentre i militi tiravano il fiato quello alzò la testa e guardò nella mia direzione. Sono sicuro che incrociammo gli sguardi. Fu allora che due romani si staccarono dal picchetto e mi vennero incontro. Loro sì che non avevano facce rassicuranti. Gli sgherri mi puntarono come se mi avessero riconosciuto, e mi chiesero il nome. Dopo che ebbi risposto mi trascinarono per le vesti accanto al brigante e mi intimarono di prendere il patibulum. A nulla valsero le mie rimostranze, dir loro che ero forestiero, che ero solo intento a tornare dai miei modesti commerci, che dopo aver portato uno strumento di morte non avrei potuto celebrare la Pasqua. Quelli misero mano alle spade, fui costretto a cedere. Tirai su il patibulum, mio Dio, se era pesante, e quel disperato aveva dovuto portarlo dopo una fustigazione. Lo trascinarono in catene dietro di me. I soldati lo colpivano coi frustini e lo insultavano, e aizzavano la folla perché facesse altrettanto. Nessuno si tirava indietro. Perfino uno dei due condannati protestò, non gli andava giù che al compagno di agonia avessero tolto di dosso il patibulum. Il fatto che fosse moribondo per i colpi inferti non lo toccava. Fu l’altro brigante a dissuaderlo a male parole. Poi i militi zittirono entrambi, con qualche schiocco dei nerbi. Riprendemmo il cammino fino alla collina del cranio, fuori le mura. Arrivato alla cima ero piegato dalla fatica. Il sudore mi impegnava le vesti, il vento me le schiacciava contro il corpo. Gettai il legno ai piedi del palo. La spalla su cui era appoggiato mi doleva, e quando mi abbassai il lembo della tunica la scopersi coperta da un livido viola. Il brigante dal volto buono mi si avvicinò. Mi posò una mano sulla spalla dolorante e contusa e mormorò un ringraziamento. Mi guardò diritto negli occhi e provai ancora una pena infinita. Poi i militi lo trascinarono al palo, e mi scacciarono. Io non me ne andai. Non potevo più festeggiare la Pasqua dopo il contatto con il patibulum, ma non per quello non mi sentii di lasciare quel luogo di supplizio. La verità era che non mi sentivo di abbandonare quello sconosciuto, quel brigante che non sembrava un brigante, del quale mi avevano costretto a portare la croce. I militi legarono i due altri briganti con delle corde e li issarono. Per quello con il volto buono presero dei chiodi. Lo strazio che ne seguì fu anche, assieme alle sue, lo strazio delle mie carni. I militi piantarono i chiodi nei polsi e nei piedi dell’uomo, fino a ben conficcarli nel legno. Poi dopo averlo issato si misero a bere del vino, e una volta ubriachi cantarono sguaiati e si spartirono le sue vesti e i suoi calzari al giuoco dei dadi. I giovani uomini che avevo notato in precedenza, avvolti nei mantelli, arrivavano fin quasi sotto la croce per poi dileguarsi in lacrime in mezzo alla folla. Erano, li riconobbi, quelli additati come discepoli del brigante dalla megera. Arrivò un centurione e mise in riga i suoi sottoposti imprecando e sferzandoli con un vinco. Li mandò a ritrovare il decoro dei soldati immergendo le teste nei catini dell’acqua poco lontano. Poi si rivolse all’uomo, crocefisso in mezzo agli altri due, insultandolo perché ancora non aveva reso l’anima agli dei. Neanch’io mi spiegavo come non fosse ancora morto. Poi il centurione, forse anche lui mosso a pietà, versò della posca su uno straccio pulito e legatolo in cima a una picca glielo portò alla bocca, perché dissetandosi potesse trovare conforto innanzi alla morte. Una donna si avvicinava ai piedi della croce, si protendeva verso la croce, le urla rotte dal pianto. Era la madre del brigante, disse qualcuno. Una giovane la raggiungeva e la trascinava via anche lei in preda al pianto. Questa scena si ripeté per tre volte, poi la pazienza del centurione si esaurì e intimò alle donne di farsi da parte. Il brigante raccolse le forze, e con voce tonante urlò alla madre di obbedire ai soldati. Quelle, meste, se ne andarono. Fu allora che il bandito suppliziato alla sua sinistra prese a insolentirlo, urlandogli contro e accusandolo di essere altro che un ciarlatano. Se era quello che era, gli urlava, perché non li tirava giù dalle croci? Fu l’altro bandito a interromperlo. Allora l’uomo si rivolse a lui, con parole che non riuscii a comprendere. Quelli si quietarono. Poco dopo l’uomo spirò. Allora accadde quello che mi parve un prodigio. Il cielo si oscurò, divamparono fulmini, si alzò un vento imperioso, per poi rovesciarsi a terra scrosci di pioggia violenti come i colpi delle fruste di Roma. Una tempesta, senza preavviso alcuno, tanto furiosa quanto effimera, si era abbattuta sulla collina del teschio, come se davvero fosse calata la furia del Dio degli eserciti. Placata la burrasca i militi tolsero il corpo del brigante. Lo poggiarono a terra, aveva un’espressione placata, come di addormentato. Lo avvolsero in un sudario, e lo portarono via per seppellirlo. Mentre tornavo verso la città vecchia mi fermai a una fonte, affaticato, per bere dell’acqua e pulire la spalla malridotta, la stessa ove il brigante aveva posto la mano per ringraziarmi. Quando abbassai la veste il livido era sparito.

Per tre giorni e tre notti pensai e ripensai all’esecuzione del brigante con la faccia buona, come se il patibulum che mi avevano costretto a portare mi fosse rimasto sulle spalle. Decisi infine di cercare quelli che la folla aveva additato come discepoli. Sapevo cosa rischiavo a contattare degli adepti di una setta sovversiva. Ma lo stesso mi decisi, e uscii per parlare a quegli uomini, o alla madre del brigante. Da capo percorsi la via del colle del teschio per cercare traccia di quella gente, e mi feci indicare dai vecchi ove avessero sepolto il brigante crocefisso. Mi dissero che un tale Giuseppe, un suo ricco sostenitore, forse anche membro del Sinedrio, gli aveva allestito nei dintorni un sepolcro, e le gambe e il cuore poco dopo colà mi condussero. Ma quando infine vi giunsi trovai la sepoltura aperta, e quelli che riconobbi come i discepoli, fuori, come in preda al delirio. Mi avvicinai a uno di loro e privo di pudore gli chiesi se avessero trafugato il corpo del loro maestro. Quello mi prese per le braccia e con gli occhi sbarrati mi disse che no, non vi era alcun corpo da trafugare, e che il maestro era risorto, asceso al cielo. Allora caddi a terra e piansi, perché sentivo che quello non mentiva.

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