Racconto di Riccardo Rossi

(Prima pubblicazione)

 

 

In una qualunque sera d’inverno, Aurelio Gallo avrebbe trascorso le ore che precedono la cena nella stanza del camino, sulla sua poltrona preferita, immerso nella lettura. I Fasti di Ovidio, forse, ma quella non era una sera qualunque. Era la Vigilia di Natale.

L’albero addobbato faceva bella mostra nel salone, i bambini della servitù giocavano rumorosamente con i nipoti di Aurelio, mentre i genitori non meno chiassosi davano fondo alle bottiglie della cantina. Suo nipote Lucio e sua moglie Galla Lucilla mescevano vino senza parsimonia nell’insolito ruolo di coppieri, lieti di sottostare alle scherzose imposizioni dei servi, come voleva la tradizione.

Dopo pranzo, Aurelio si era concesso alcune ore di riposo, ma ormai la pendola suonava l’ora decima. Non poteva attardarsi oltre.

Scivolò fuori dalla stanza del camino, prese il cappotto dal guardaroba e uscì ripassando a mente la lista dei regali. I nipoti erano già stati sistemati, ma ci voleva qualcosa per i figli dei servi, una bambola per Ilde, dei soldatini per Gawain, un orsacchiotto per il piccolo Tristan. Lungo la scala salutò il suo vicino, Tiberio, ridendo dell’inconsueta situazione di un Prefetto carico di pacchetti come un mulo. Attraversò il cortile avvolgendosi nel cappotto. Faceva freddo, anche se non quanto ai vecchi tempi.

Da ragazzo erano rari i natali senza neve, a Milano. Aurelio s’infilò tra la folla a passeggio lungo Via delle Terme, sotto la volta delle luminarie dorate. Allegre compagnie di servi in libertà bevevano, cantavano e scorrazzavano in giro i Saturni mascherati sulle sedie gestatorie, intralciando senza riguardo lo sferragliare dei tram. Offrivano a chiunque ne volesse calici di vino speziato, e costringevano gioiosamente a bere anche chi avrebbe preferito declinare. Aurelio si sottomise di buon grado al dovere di ubbidienza. Era pur sempre l’ordine di un Re.
Via delle Terme confluiva nella Piazza di Porta Orientale. L’arco marmoreo faceva da ingresso a Corso Cesare Augusto, la via più frequentata della città. A Natale, il Corso era uno spettacolo del quale Aurelio non si stancava mai. A metà dell’area pedonale, il Corso si allargava in una piazza cullata nell’abbraccio di un maestoso colonnato, su cui le ghirlande di biancospino si arrampicavano come serpenti. Venditori ambulanti e artisti di strada, che riempivano i portici, nella piazza si addensavano in un mercato dei dolciumi, rallegrato dalle gesta di giocolieri, mangiatori di fuoco e ballerini che sfidavano il freddo in leggeri veli di seta, accompagnati da suonatori di flauto dalle guance rubizze per il vino. Come ogni anno da quando era bambino, Aurelio comprò una frittella, godendosi il sensuale spettacolo dei corpi seminudi che danzavano attorno alla statua dorata di Apollo. Le porte del Tempio del Sol Invictus erano spalancate.

L’interno, illuminato dai bracieri, era affollato dai fedeli, molti dei quali militari delle Legioni Galliche in eleganti uniformi, che depositavano offerte ai piedi della statua d’oro del Toro. La statua di Mitra, che affiancava il Toro in un dittico per quasi tutto l’anno, era stata rimossa, in attesa di essere riposizionata durante i riti della Mezzanotte, quando soldati e ufficiali si sarebbero raccolti a festeggiare nelle caserme la rinascita del sole. Aurelio ricordava poco di quei misteri, se non che il vino scorreva a fiumi, e che alle nuove leve sarebbe toccato un gelido bagno all’aperto. Lo chiamavano il battesimo di Mitra. Anticamente avrebbero fatto il bagno nel sangue, ma i tempi dei sacrifici cruenti erano finiti. Si chiese come avrebbe vissuto l’esperienza Lucio, ormai prossimo alla leva, considerata la passione di suo nipote per i giovani nudi maschili, probabilmente piuttosto bene. E come biasimarlo.
Prima di proseguire Aurelio si soffermò davanti alla statua di Angerona, in un angolo del portico. La cappella della Dea dalla bocca bendata era un rifugio di quiete. I fedeli s’inchinavano devotamente, pregando in silenzio affinché l’anno finisse senza angustie per le famiglie e per lo Stato. Le fortune dell’Impero dipendevano dalla benevolenza dei suoi antichi Dei, che lo conservavano potente da ormai quasi trenta secoli. Nonostante l’accidioso veleno delle filosofie moderne, che parevano voler spingere i culti tradizionali verso un pigro e un abbruttito ateismo, Aurelio si rallegrava nel vedere la devozione sempre viva del popolo.

Il Corso confluiva nella Piazza che ospitava la meraviglia architettonica di Milano, il colossale Tempio di Minerva Belisama rivestito di marmo bianco di Carrara, che splendeva candido, illuminato dai fari. Sin dai tempi della sua fondazione, Milano aveva avuto al suo centro un tempio dedicato a Minerva, che i Galli chiamavano Belisama, dea del fuoco delle forge. Durante il Giogo Germanico, i Franchi avevano sostituito il tempio con un sacrario di Freja, la Cerere del nord, sulle sue rovine era stato innalzato il tempio moderno. I milanesi avevano aperto una via di canali che congiungesse la città al Po al solo scopo di trasportare i materiali da costruzione. L’intera mole del tempio era rivestita di statue raffiguranti Dee di ogni angolo dell’Impero. Ce n’erano di assai pittoresche. Nerio, nella sua incarnazione indiana, chiamata Kalì, aveva sei braccia. La più aggraziata era forse quella di Bellona Morrigan, splendida e terribile con i capelli sciolti sotto l’elmo celtico, anche se nessuna poteva sfidare in bellezza la statua d’oro di Minerva Belisama.

Si narrava che, ai tempi della cacciata dei Franchi, l’Imperatore Filippo XII Eleuterio, la cui statua equestre salutava il tempio dal lato opposto della piazza, avesse inviato a Delfi una delegazione, perché offrissero le spoglie della vittoria al Divino Apollo. Secondo la leggenda, la Pizia aveva profetizzato che finché Minerva avesse dominato sull’intera città, avrebbe protetto gli operosi cittadini, suoi favoriti. Da allora era stato stabilito che la statua d’oro della Dea avrebbe dovuto trovarsi sulla cima del più alto edificio di Milano, e così, al crescere degli edifici della città, la guglia del tempio veniva innalzata. Ormai era arrivata a 260 cubiti.

Da lassù, sembrava piccola, un punto d’oro che brillava da lontano. Aurelio si avviò verso la Galleria, dedicata al Divo Massimiano VIII Nicatore, che aveva umiliato l’arroganza dell’ennesima Federazione Germanica. A destra dell’ingesso, una statua di Mercurio attendeva le offerte di acquirenti e venditori, che imploravano di non essere truffati. A sinistra, Aurelio vide la prima cosa spiacevole dell’intera passeggiata.
Qualcuno, nel nome di una non reciproca tolleranza, aveva consentito a un gruppo di Nazzareni, di allestire uno dei loro banchetti.

Aurelio trovava i monoteisti, gente ottusa incapace di dialogo, aggrappata alla stupida e pericolosa idea che la Verità potesse essere una sola, da vendere ad animi semplici, disposti a barattare lo spirito critico con patetiche promesse ultraterrene. Si proclamavano amanti della Pace, fingendo di non sapere che nel momento in cui costringi la Ragione nel vicolo cieco di una Fede indiscutibile, non resta altra possibilità se non la resa, o la guerra.

I Nazzareni erano stati ignorati dai Gentili per molti secoli. Alcune comunità minoritarie della setta, che gli adepti chiamavano “chiese”, con l’espansione dell’impero verso l’India avevano adattato l’immagine del loro Profeta, un certo Gesù Nazzareno, al modello di un Maytreia dai poteri miracolosi, come la capacità di resuscitare i morti. Sull’onda della moda, per le filosofie orientali, alcuni si erano lasciati fuorviare dalle sciocchezze di un Profeta minore e semisconosciuto agli stessi Ebrei Ortodossi. Il banchetto, su cui faceva triste mostra la raffigurazione in legno di un antico e non più utilizzato strumento di supplizio per servi, era tenuto da una donna col velo sulla testa, e dal suo barbuto marito. I bambini tentavano di distribuire volantini ai passanti, che tendevano a ignorarli. Aurelio si avvicinò, prese dalle mani di una graziosa bambina il volantino e lo lesse. Parlava di una petizione da presentare all’Imperatore in persona, perché abolisse la Schiavitù, seguito da alcune sciocchezze riguardanti l’uguaglianza davanti a Dio di tutti gli uomini.
– Vuoi firmare la nostra petizione, signore?- chiese la bimba.

Aurelio sorrise, dandole un buffetto sulla testa –Non credo. E poi qui c’è scritto “davanti a Dio”, ma manca il nome del Dio –

– Dio è solo Dio, signore- disse il papà della bambina

– Perché non viene a una delle nostre funzioni? La cosa potrebbe diventarle…

– La cosa mi è già abbastanza chiara da ritenerla un’idiozia. Perché voi invece non lasciate che questi bambini giochino e si divertano con tutti gli altri, invece di costringerli ad annoiare i passanti con le vostre assurdità? Sarebbe un gesto di bontà, nei confronti dei vostri figli e di tutti gli altri. Provateci, almeno. Buona serata. E, nel nome di Mitra e del Sol Invictus, Buon Natale!

_