Racconto di Leonardo Gliatta

(Seconda pubblicazione)

 

 

“Ma non ti ricordi? Come fai a non ricordare?”

Continuava a ripetermi quella domanda. Insistente. No che non ricordavo, come lo voleva capire? Non lo avevo mai visto prima. Perché non mi lasciava andare? Vai via. Ne girano di pazzi, nelle metropolitane.

Le porte del vagone si erano richiuse, il treno riprendeva la sua corsa. Sulla banchina, al di qua della linea gialla, i miei piedi di fronte ai suoi. Le mie caviglie gonfie dopo nove ore di ufficio e le sue scarpe da tennis nuove di zecca. Quanti anni poteva avere? Non arrivava ai trentacinque. Un mio coetaneo. I faldoni del Tribunale pesavano sotto il braccio, qualche incartamento stava per scivolare via, sui binari. Se non mi sbrigavo avrei perso la coincidenza col 41. Togliti di mezzo. Non vedi che vado di fretta?

“Vuoi che ti accompagni a casa? Prendiamo il 41 per cinque fermate e siamo arrivati.”

“Cosa?” Lo guardai negli occhi, per la prima volta. Cosa c’aveva da ridere? Mi pigliava per culo? No, ero certa. Non l’avevo mai visto prima. Poi con un nome così, me lo sai ricordato. Lillo.

“Come fai a sapere dove abito? Mi hai seguita?”

“Non capisci. Ci conosciamo da tanto tempo.”

La sua voce non mi richiamava assolutamente niente. Intorno, più nessuno. Sulle scale mobili sfilavano gli ultimi passeggeri della nostra corsa. Era la scia del treno appena passato o avevo avuto un brivido lungo la schiena? Strinsi più saldamente il faldone con le unghie laccate. Una donna sola in metropolitana con uno sconosciuto. Che diceva di conoscermi. I miei ex, li avevo tutti ben presenti, una serie di fallimenti non si cancellano neppure affogati da anni di felicità. Un parente, uno di quei cugini che vedi solo ai funerali?

“Anna, guardami negli occhi. Cosa vedi?”

“Senti, smettila. E non provare a seguirmi.”

Quante se ne inventano per attaccare bottone. Non sarai brutto, ma caro mio non è questo il modo.

“ Non ti voglio fare del male. Come potrei, dopo quello che abbiamo fatto?”

“E cosa avremmo fatto? Visto che sai tutto.”

“Quella volta che abbiamo ucciso Sara Vinci. Quella del terzo banco.”

Sara Vinci. Secoli che non sentivo questo nome. Questa sì che me la ricordavo. Aveva aizzato mezza classe contro di me, diceva che avevo i denti da coniglio e le gambe storte. La odiavo, ma non mi sono mai sognata di ucciderla.

O forse sì?

“Oppure quella volta che siamo andati a sciare con le Ruggeri. Le tue amiche Sonia e Daniela Ruggeri. Ricordi dove, vero?”

“A Cervinia.” Mezzo secondo per rispondere. Come facevo a dimenticare la baita delle Ruggeri a Cervinia? Ogni anno invitavano me e Loredana per la settimana bianca. Ci andava solo Loredana, però. Mia madre diceva che sciando si moriva. Che mio padre aveva perso l’uso delle gambe in Val Camonica, dieci anni prima. Volevo fare la sua fine?

Con uno strattone, serrai a me il faldone semiaperto. Un piccolo crampo nella mano. Il palmo sudato, il polso dolorante.

Come faceva a sapere queste cose? Non poteva essere un caso, cristo.

“Come hai detto che ti chiami, scusa?”

“Mi hai sempre chiamato Lillo. Ti sembrerà strano, lo so. Ma non devi avere paura. Non ti farò del male.”

“Che cosa vuoi? Cioè, chi…”

Era rimasto lì, fermo. Non osava avvicinarsi. Sembrava più spaventato di me. Lo guardai a bocca aperta: era bello. Polo verde, il risvolto spiegazzato del colletto. Braccia tornite. Mani nodose, sospese a mezz’aria.  Sentivo la vena al centro della fronte pulsare all’impazzata. Il mio ex marito diceva che quella vena era il termometro del mio umore. A momenti sarebbe esplosa. Il sangue affiorava in mille rivoli sul reticolato della mia faccia.

Dovevo stare sognando.

“Sono stato chiuso per tanto tempo in una stanza buia. La nostra stanza. C’era il letto con la copertina di Mary Poppins.”

La mia cameretta. Il mio copriletto preferito. Nella stessa casa dove abito oggi. Trent’anni più tardi. E al posto mio, in quella camera oggi c’è Andrea, mio figlio. 4 anni.

“Chi sei? Dimmi la verità” sentivo tremare la mia voce, un groppo alla gola che tenevasottovuoto il pozzo delle lacrime. Avrei pianto a dirotto, se non avessi sentito i primi passi. Mocassini, tacchi a spillo, stivali, suole di gomma cominciavano a riempire la banchina.

“Tu sai chi sono. Devi solo ricordare. Vengo da una stanza buia. Quella che ti faceva sempre paura. Di notte. Vengo dalla stanza da cui nessuno è mai uscito vivo. Non c’è ritorno. E’ un luogo dove arrivano tutti i treni in corsa del mondo. Una stazione grandissima. E buia. Con banchine piene di gente, proprio come questa. Nessuno è mai ripartito dalla stanza buia. I treni arrivano, ma non ripartono mai. Io sono riuscito a salire nella cabina comandi di uno di loro. L’avevano lasciata aperta i macchinisti. E’ stato facile. Ho tirato un paio di leve, ho spinto qualche bottone e il treno si è mosso. In un lampo, ero già fuori dal buio. E su quel treno ti ho vista. E ti sono venuto incontro.”

I passeggeri lungo la linea gialla stavano vedendo una donna ancora bella, ancora giovane, in abiti da ufficio, le gambe accostate tra di loro, sul volto un’espressione irriconoscibile di terrore e gioia, stupore e malinconia.

“Anna, sono tornato.”

Non ti ricordi? Continuava a dire. Come fai a non ricordare? Diceva di essere tornato. Di avere preso quel treno per tornare da me. Un amore da un altro pianeta.

La folla cresceva, il prossimo treno era annunciato. Il rumore dei pensieri della gente sferragliava sotto il peso dei vagoni che stavano frenando.

“Anna, hai capito chi sono?”

Le orecchie. Sanguinavano. Raschiate dallo sfrigolio dei freni della metropolitana. D’istinto chiusi gli occhi, come per bloccare ogni altra apertura del mio corpo. Due secondi, tre, quattro, cinque.

Quando li riaprii le porte si stavano richiudendo di nuovo. Tutti stipati contro il vetro. E Lillo? Che fine aveva fatto? Sparito. Da non crederci. Cosa era stato? Un’allucinazione. Un gruppo di turisti si avvicinavano alle scale per risalire. Ok Anna. Sei sotto la metro. E’ un pomeriggio qualunque. Sei uscita dallo studio, sei stanca. Stai lavorando molto. Hai quelle cause che ti tolgono il sonno. Poi c’è Andrea, che ti aspetta a casa. Suo padre arriverà domattina a prenderlo. E starà con lui tutto il weekend.

“Sono a casa. Amoreee!”

Tutto spento. La babysitter dev’essere andata via da poco. Starà in camera sua. Sarà affamato, stella.

“Sono qui, mamma!” E’ in cameretta.

“Amore, ma sei al buio? Che stai facendo?” Avrà avvertito la nota strozzata nella mia voce? Che ci fa al buio? Sul letto. Sotto le coperte. Non avrà la febbre…

“Ti senti bene, Andrea?”

“Sì mamma. Sto bene.”

“Meno male. E Sonia? È andata via da tanto?”

“5 minuti fa”

“Che ci fai lì nel letto, allora? Non sai che avventura è capitata alla mamma. Ora ti racconto. Ma, perché non sei a vedere i cartoni? Tutto solo, qui al buio.”

“Non sono solo, mamma. Sto parlando con il mio nuovo amico, Lillo.”

Anna accende il lume del comodino e lo vede: un orsacchiotto viola, due occhi di vetro che sorridono, stretto tra le mani di Andrea.

“Dove… dove l’hai trovato?”

“Era nella cesta dei vecchi giocattoli, oggi Sonia l’ha tirata fuori per farmi giocare”.

Anna non riesce a staccare lo sguardo da quelle due biglie di vetro che la fissano. La mascella le trema. Va ad accendere l’interruttore principale della stanza.

“Come hai detto che si chiama, il tuo nuovo amico?”

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