Racconto di Gigi Pietrovecchio

(Quinta pubblicazione – 9 ottobre 2019)

 

Kòros 2, la terra natale di Ran Thuryan, con altri quattro pianeti fa parte del sistema binario di Uniyiar, ma è strettamente collegato a Kòros 1 (molto, molto più piccolo benché abbia la stessa massa) ed interseca la sua orbita in un moto di rivoluzione di 267 giorni, di 31 ore terrestri ciascuno. D’altro canto Uniyiar, una stella molto vecchia, è in coppia con Delìmir Alpha, un’esuberante mini azzurra con un’incommensurabile riserva di gas, pronta ad inglobare e sostituire in qualunque momento la sua attempata collega, prima ancora che si trasformi in una gigante rossa. Situazione molto intrigante e dall’equilibrio tutto da studiare…

La morfologia di Kòros 2 è quanto di più bello e vario si possa desiderare. I paesaggi digradano da alte colline coperte di boschi lussureggianti a pianure di muschi verdi ed erbe fiorite, sino alle spiagge di sabbia multicolore del grande oceano e dei laghi interni; su tutte queste distese di acqua dolce, esclusivamente dolce, e sui pigri larghi fiumi si naviga ad alta velocità con imbarcazioni a più scafi armate di grandi vele dorate che catturano anche la più leggera bava di vento solare.

Tra tutte le più impressionanti sono senz’altro i tetramarani da crociera con i due scafi interni più lunghi dei due esterni; le losanghe abitabili simmetriche, una a dritta e l’altra a sinistra, fanno corpo unico con la rispettiva coppia di marani. Normalmente la lunghezza fuori tutto di queste barche si aggira intorno ai 20-30 metri terrestri ed il baglio massimo sui 12-18 con la capacità di prendere a bordo dalle otto alle quindici persone, ma la caratteristica più evidente sono le due alte vele tubolari, disposte una dietro all’altra in senso longitudinale, che costituiscono il sistema propulsivo e spingono le piccole navi fino a 170 nodi, sempre terrestri, quasi 315 chilometri orari.

Appena prendono l’abbrivio iniziano a sollevarsi dall’acqua e gradatamente lasciano immerso solo il foil sottovento ed il relativo timone; letteralmente volano a tre-quattro metri dalla superficie!

La stabilità è assicurata anche da uno spoiler biplano poppiero, che lavora in sinergia con i foils e i timoni; inoltre da ognuna delle due tughe può essere alzata un’elica solare quadripala a passo variabile e reversibile per effettuare le manovre più lente.

Anche ai Kodd piace veleggiare, però loro si costruiscono da sé i mezzi adatti alle loro dimensioni ed alle loro specifiche esigenze. Si potrebbe anche parlare della sfida annuale tra i due popoli, ma chi vuole può andare direttamente a Kòros 2 a godersi la tremenda ed entusiasmante competizione.

Una singolare ed importante eccezione è il Capitano Thòran Kray: lui, la sua compagna ed i loro tre figli, una bella banda di similorsi, amano imbarcarsi sul quadriscafo di Ran e Mìneren – in versione umana… – e cimentarsi in velocissime planate sulle onde del Kòrosian Oceano e condividere fantastiche avventure nautiche che gli altri possono solo sognare.

Durante le soste fuori porto viene alzato un grande tendalino, che ripara dalle variazioni di temperatura e di umidità notturne, malgrado queste su Kòros siano abbastanza insignificanti; ciò semplifica la vita alla famiglia Kray, ma è anche molto apprezzato dalla coppia di armatori.

Sull’amena superficie di Kòros 2, nella fascia di territorio che corre tra le foreste ed i prati, si incontra spesso la miràba, una liana gigante grossa come il doppio di un braccio d’uomo, strisciante, incredibilmente lunga e ritorta a spirale su se stessa. Una volta all’anno produce dei bei grandi fiori rossi, venati d’azzurro intenso; dopo alcune settimane, mentre essi sono ormai disseccati, il fusto legnoso inizia a secernere un liquido denso, turchino e trasparente, che viene raccolto in ampi bacili posti sotto alla pianta. Non serve praticare nessuna incisione: il succo si avvia da sé nei contenitori e nulla viene sprecato; e già questo lascia intuire che non si tratta di un vegetale qualunque.

Alla fine della secrezione, e prima che si rapprenda e solidifichi, immediatamente iniziano le lavorazioni per ottenere il sorprendente liquore.

Sopraggiunge allora il “bruco”: un treno robotico di cinque carrelli, ognuno dotato di sei ruote sferiche ammortizzate e sterzanti; le sue funzioni consistono nell’aspirare il secreto dai contenitori al suolo e, dopo un preliminare controllo, stoccarlo nei serbatoi mobili alla temperatura di 50° C, al fine di impedirne la condensazione, e, a carico completato, trasferirlo agli impianti di trasformazione.

Qui il liquido, ancora tiepido, viene distillato una prima volta e lasciato riposare per un paio di giorni, dopo di che, da freddo, lo si avvia alla seconda distillazione, cui segue una settimana di quiete.

Trascorso questo tempo, si aggiunge lo sciroppo di dzéma  – ed in proposito torneremo fra poco – in ragione di una parte su venti ed ha finalmente luogo l’ultima distillazione, molto lenta ed al minimo calore utile per mantenere separati i due ingredienti; il tutto, che intanto appare incolore, una volta raffreddato di nuovo, va conservato nelle tipiche anforette dal lungo e sottile becco ricurvo e della capacità di mezzo litro ciascuna.

La dzéma, nome completo dzemarràf tùm’ in lingua kòrosian arcaica, è un’alga verde fluorescente e filamentosa che cresce nelle acque alcoholate di Avirdall, il mondo più esterno del sistema di Uniyiar, un luogo disabitato, abbastanza freddo anche se non gelido, privo di grosse manifestazioni meteo, ma comunque inadatto a qualsiasi forma di vita che non sia vegetale; là, con somma cura e cautela, è recuperata da apposite navette-droidi resistenti alla discretamente tossica atmosfera del pianeta.

Lo sciroppo di questa pianticella ha la proprietà di circoscrivere ed equilibrare le stupefacenti reazioni collaterali della sarmentosa di Kòros, altrimenti pericolose ed, anzi, esizialmente incontenibili: scagliare se stessi dentro allo specchio, evidenziando il proprio lato oscuro e provocando crudeli profonde allucinazioni. In tali frangenti il rischio più tremendo che si può correre è esattamente quello di porre tragicamente fine alla propria storia…

Chi ama la miràba, invece, quasi con affetto, prende la piccola anfora e molto lentamente mesce il potente liquore nel bicchiere alto e stretto e gode della spettacolare visione che si manifesta ai suoi occhi: non appena toccato il fondo il liquido trasparente inizia a colorarsi di azzurro e da più punti il verde fluo della dzéma incomincia sinuosamente a salire ramificandosi sempre di più e fermandosi, senza più modificarsi, solo quando raggiunge il piano dell’aria.

La forza ed il gusto sono fuor di dubbio; sul ben conosciuto pianeta Terra la bevanda, una via di mezzo tra il liquore e l’elisir, potrebbe vagamente assomigliare al migliore dei rhum aromatizzato con una vena di peperoncino piccante, e questo è l’apporto della kòrosian liana, rigorosamente a 60° gradi alcoholici, e questa è la potenza dell’alga avirdalliana, e decisamente molto invecchiato! Inoltre i due componenti, sempre ben distinti, vengono catturati dal palato in tempi leggermente sfalsati offrendo così la possibilità di gustare ogni volta un’esperienza diversa.

Tra gli effetti principali vanno evidenziati l’aumento di tutte le forze, l’eccellente sublimazione di coscienza e l’impietosa esposizione alla verità, soprattutto alla propria verità; ed è per tutto questo che si consiglia, a chi vuol bere il succo di miràba, di assimilarlo adagio a piccoli sorsi; solo così se ne possono godere tutti i benefici senza incorrere nei risvolti indesiderati.

Comunque, indipendentemente dall’appartenere ad un popolo piuttosto che ad un altro, il triplo distillato è gradito a pochi e tale predilezione non è nemmeno connessa a particolari livelli di elevazione spirituale; probabilmente si tratta di una misteriosa sincronicità fra i due ingredienti vegetali e l’anima degli esseri senzienti.

Prova ne sia che riscuote l’incondizionato apprezzamento di Ran e Mìneren, ma è invece accuratamente evitato da un tipo eccezionalmente evoluto come War Tryar, che per nessuna ragione degli universi cederebbe all’idea di dover assaggiare quello che lui, con poca delicatezza, definisce “intruglio”.