Racconto di Giancarlo Cotone

(Prima pubblicazione)

 

 

Il ding del messaggio sorprese il bambino di mattino presto. Lo lesse, anche se già sapeva che non poteva farlo subito, stava per andare a scuola, poi doveva fare i compiti, accidenti. E poi la mamma non gli avrebbe certo permesso di uscire di casa alle sette del mattino senza poterle dire dove andasse.
Il bambino si mise a pensare a una scusa per uscire presto e andare all’appuntamento; pensa che ti ripensa, non gli venne in mente altro che marinare la scuola. Era troppo importante per lui, non mancava mai da quattro anni a questa parte. Il testo del messaggio era molto semplice, si componeva di una sola parola: “Stracca!” Col punto esclamativo. Il numero da cui proveniva il messaggio non era memorizzato sul suo cellulare, ma lui lo conosceva benissimo, anzi era lui l’unico al mondo ad avere quel numero. Alla Vodafone avrebbero detto che l’utenza era stata scollegata qualche anno prima. A Viareggio, “stracca” era l’espressione che si usava per dire che c’era una libecciata in corso e che di lì a poco il mare avrebbe “straccato”, cioè ributtato sulla spiaggia di tutto: conchiglie, pezzi di legno di varie fogge e dimensioni, oggetti provenienti da chissà dove, e ogni altro ben di Dio che potesse stimolare la fantasia di un bambino di nove anni come lui. A colazione il bambino fece di tutto per mascherare l’eccitazione, la mamma non si accorse di nulla, troppo impegnata nei preparativi della colazione per lui e per il suo papà. Con la cartella sulle spalle, raggiunse la spiaggia in un punto che a lui piaceva particolarmente: la foce del canale, dove a quell’ora c’erano solo pochi pescatori alla caccia ostinata di qualche cefalo che il libeccio spingesse verso la riva. “Strano” – rifletté il bambino – “lui non mi dice mai dove ci vediamo, eppure dovunque io decida di andare, lui è già là che mi aspetta.” E infatti come ogni volta lo vide da lontano, seduto sulla sabbia a guardare il mare, con il vento salmastro che gli sferzava il viso e gli scompigliava i pochi capelli ormai bianchi.

“Ciao, nonno.”

“Ciao, nipote. Ma che hai fatto, hai marinato la scuola?”
“Eh certo, non potevo mica mancare, no? Tu mi hai mandato il messaggio, ed eccomi qua. Piuttosto vedo che non è ancora arrivato niente.”
“I giovani, sempre impazienti! Aspetta che finisca la libecciata” disse il nonno raccogliendo una manciata di sabbia e lasciandosela colare tra le dita, per raccoglierla nell’altra mano e ricominciare daccapo. Era come una clessidra con le mani al posto dei bulbi. Una clessidra dove il tempo era solo dettato da chi guardava la sabbia scivolare via. Il giovane avrebbe voluto che il tempo scorresse via veloce per andare incontro al proprio futuro. Il vecchio invece… beh, a lui non importava che il tempo scorresse lento o veloce, lui era comunque fuori dal tempo.
“Ti ricordi quando venivamo sulla spiaggia a fare le arselle?”
“Certo, nonno – rise il bambino – come potrei dimenticarlo?”
“E quando tu stavi seduto sulla sabbia e io ti tiravo per le mani per fare la pista delle palline?”
“Poi però vincevo io!” trillò il bambino.

Il nonno fece cenno al nipote, che posò la cartella e si sedette sulla sabbia accanto a lui. Poco lontano, alla foce, un fugace balenio argenteo seguito da un’esclamazione soddisfatta indicò che un cefalo aveva abboccato. Il cielo era coperto, minacciava pioggia ma per ora teneva.
“Quanti anni sono che ci vediamo sulla spiaggia quando stracca?” chiese il vecchio. Il bambino si fece serio, aggrottò le sopracciglia, poi sorrise “Quattro, nonno! Quattro, da quando tu…” alzò gli occhi inumiditi verso il nonno che gli sorrise a sua volta, e con la punta di un dito rugoso e salmastro asciugò la lacrima che si
faceva strada sulla guancia del bambino.
“Sì, da quando io… Sai è strano, da quando ci vediamo qui abbiamo parlato di tutto, ma non di quello. Ne vuoi parlare adesso?”
“No, nonno” il bambino scosse vigorosamente la testa e si strinse al nonno, il suo braccino attorno alla vita del vecchio. “Ma com’è che proprio oggi ti viene in mente?” aggiunse, tirando su col naso per evitare che una seconda lacrima sfuggisse al suo controllo. Il nonno non rispose subito. Passò a sua volta un braccio attorno alle spalle del nipote, sospirò, poi sospirò ancora un po’ più forte.
“Non mi è permesso venire qui per sempre, lo sai, vero?”
“Non mi starai mica dicendo che non vieni più, eh?” gli occhi del bambino erano spalancati e pieni di apprensione. Dietro a quegli occhi un mare di lacrime aspettava solo di sgorgare, mentre lo smarrimento aspettava di impossessarsi di lui e togliergli il fiato. “Vediamo di riparlarne, vuoi? – poi, senza aspettare una risposta – Tu sai bene, te l’ho spiegato fin dalla prima volta, che io ho avuto un permesso speciale, e questo non può essere per sempre. Tu lo sai perché l’ho ottenuto, vero?”
Il bambino non aveva il coraggio di parlare perché era sicuro che ne sarebbe venuto fuori un pianto disperato, e cercò di trattenere le lacrime. Tirò ancora su col naso, poi annuì a fatica.
“Quando… sì insomma quando è successo, io ho fatto presente che un nonno non se ne può andare così. Andandomene via quando tu avevi cinque anni, ti saresti dimenticato di me, e allora la mia morte sarebbe stata, come dire… definitiva.”
“Mai, nonno, non ti dimenticherò mai” la voce era strozzata, e le parole uscirono in un unico getto disperato.
“Dai, su, è una legge di natura. Io stesso non ricordo nulla di mio nonno, è morto che io avevo quattro anni e ne ho un ricordo così vago… solo per sentito dire dalla mia mamma. E non volevo che anche tu dovessi ritrovarti da adulto a chiederti come ero fatto io. Ed ecco che mi è venuta in mente questa bella idea. Ogni volta che il mare stracca, insieme alle conchiglie e ai legni venuti da lontano, arrivo anch’io. E parliamo, io ti racconto di me, della nonna, della tua mamma quando era piccola, di quando ti portavo a pescare o ti venivo a prendere a scuola. E così adesso, dopo quattro anni, la mia missione è compiuta. Adesso mi conosci proprio bene, non ti dimenticherai mai più di me.”
“E quindi?” la domanda era poco più di un sussurro.
“E quindi, caro nipote – sospirò il vecchio – da adesso in poi il ricordo di me te lo dovrai coltivare da solo. Ma oramai io so che finché vivrai tu, vivrò anch’io.”
Il vecchio si alzò con la fatica ossuta della sua età, il bambino si alzò accanto a lui e lo abbracciò forte.
“Vedi? – disse il nonno indicando il cielo – il vento sta cambiando, la libecciata è finita. Io devo andare. Non ti manderò più messaggi quando stracca; però se vuoi puoi lo stesso venire alla spiaggia a cercare me tra le cose portate dal mare.”
Il vecchio abbracciò ancora il nipote, lo guardò negli occhi di bambino, rivide se stesso tanti anni prima, sospirò ancora e si incamminò nella direzione del vento.