Racconto di Melania Ferrari

(Prima pubblicazione)

 

Avere crisi di identità alla nascita non è da augurare a nessuno. Sono Notte, figlia di Caos probabilmente, perché più di un poeta di quelli bravi e autorevoli lo sostiene, poi a completare alcuni mettono Phanes, altri Caligine. Insomma salto fuori da qualche entità primordiale e solo per questo merito rispetto. Ho anche due figli, Etere ed Emera, e lavoro tanto, anzi tantissimo.
Volentieri farei 40 ore settimanali senza alcuna recriminazione sindacale, ma mi andrebbero bene anche 84 ore con turni di 12 ore 7 giorni su 7 con necessari periodi di ferie. E invece no! Ho un contratto a tempo indeterminato, anzi eterno, senza ore di riposo o pause da poter maturare. Stakanovista? No, mi tocca… Ma, vedendo da qualche milione di anni la vita di questi umani, soprattutto osservandoli negli ultimi secoli, ho capito che una pausa è legittima anche per me. Più si va avanti e più si impazzisce.
Poi però mi ricordo una mitica frase: “Come farebbe il mondo ad andare avanti senza di me?”. Bene: se la pronuncia un bipede umano, è pura presunzione; se lo dico io, mi parte il senso di colpa per il solo aver pensato una cosa del genere. Vengo così sopraffatta dal dovere e dalla responsabilità e quindi via a lavorare!
Riprendo quindi in mano il mio infinito mansionario e, a testa bassa, comincio a spuntare quei compiti che si ripetono uguali da tempo infinito. Le uniche variazioni sullo stesso tema sono il poter nascondere ogni tanto la Luna con delle nuvole e colorarla di rosso giusto per tirar via un po’ di noia da quello che ognuno si aspetta da me. Il mio è un mestiere socialmente utile, sempre a servizio degli altri. Ma fare la “brava bambina”, così dicono gli umani, comincia a pesarmi. Mai un capriccio, mai un accenno di ribellione perché non posso e basta.
Però stando con gli uomini, comincio a “umanare”. Porto quell’aria che loro respirano e mi restituiscono ed è come se particelle loro fossero entrate in me che li avvolgo e li osservo sorridendo, compiangendoli, soffrendo per loro e attendendo con loro la nuova luce.
C’è chi mi ama, chi mi teme, pensando che io porti solo mostri, incubi, pensieri che rifiutano illudendosi che la lama della luce del giorno li sconfigga definitivamente. Ma io non c’entro nulla: fanno tutto questi esseri, formichine del pianeta. Sono veramente strani e forse il motivo per cui non alzo il capo per chiedere uno stop a questo lavoro senza fine è il poterli osservare.
Per prima cosa mi fa sorridere quanti scritti, romanzi e liriche, mi hanno dedicato nel corso della loro breve esistenza. In particolare sono attratti dalla mia Luna. Non conto gli infiniti versi che la vedono come presenza divina, a cui confidare tutto, senza però che lei abbia veramente espresso un reale interesse. Lei deve ascoltare e ispirare gli esseri umani, volente o nolente perché così hanno deciso.
E che dire delle stelle? Una tenerezza quando queste fragili creature umane affidano ai miei astri i loro desideri. Come se potessero realizzare qualcosa che poi invece rimane solo nella loro testa o nel loro cuore. Ma di nuovo hanno deciso così e le stelle ci ridono ormai sopra. Forse è un modo per esorcizzare la loro finitezza, la loro incapacità di superare il limite, ovvero loro stessi piccoli individui s tempo limitato. Quindi guardare ciò che è infinitamente più grande li rincuora e gli dà la forza della speranza.
Speranze meglio… Quante storie ho permesso di vivere che potevano essere tali, illusoriamente speranze, solo grazie al mio buio.
Me ne vengono in mente alcune. Qualche granello di tempo fa c’era una donna in preda alle doglie perché la sua bambina aveva fretta di nascere, ma aveva anche la necessità di annunciarsi con dolori sopportabili solo con gran fatica, giusto pensando al risultato. Il personale del reparto l’aveva lasciata in una stanza da sola e il marito se n’era tornato a casa a dormire perché tanto, secondo lui, non era ancora il momento. Sentivo tutta la solitudine di lei che non voleva leggere quello che il suo cuore stava presentando alla sua mente: che quella nuova vita era solo per lei. Infatti mi ricordo della piccola appena nata sul suo seno e lei che aveva girato gli occhi verso il soffitto come per cercarmi e dirmi che sapeva che era un nuovo inizio, sotto tutti i punti di vista.
Ho ritrovato quella stessa donna quasi 9 anni dopo, qualche mese fa mentre ero, come al solito, di turno. Quante notti passate a girare per la casa per cogliere il respiro della madre che la Morte stava tentando di chiamare a sé prima possibile. Quanto sollievo quando vedeva quel petto alzarsi segnalando che c’era ancora. Ma sempre durante uno dei “giorni”, anzi in quella mia notte, squillò il telefono e quella madre, che era ormai il ricordo di sé stessa in una stanza d’ospedale, aveva preferito afferrare la mano della Morte e andarsene. Per sempre.
Le ho portato la vita e la morte di due persone essenziali della sua vita e la solitudine in entrambe le situazioni. Ma alla fine non ho fatto nulla perché ci sono forze più grandi me, a cui faccio da sfondo, antitetiche, l’una escludente l’altra che si contendono l’intera umanità: Vita e Morte. Io sono spettatrice di una dialettica che vede la presenza di tutte e due nello stesso mondo, nello stesso tempo, ma non negli stessi fragili soggetti.
E pensando ciò, mi convinco a smetterla con le lamentele e a sentirmi fortunata rispetto a chi umanamente avrà sempre la data di scadenza.