Racconto di Riccardo Cervero

(Prima pubblicazione)

 

Il buio dipinge figure confuse, stordendo i sensi. Il nero è talmente intenso da riuscire ad avvolgere il corpo, da poter strozzare i respiri in gola, da addensare il battito cardiaco in un ritmo vigoroso. O forse è la paura. Da qualche parte, la lancetta di un orologio scandisce nitidamente i secondi. Un sussulto alla mia destra spezza la quiete. Uno sforzo improvviso congelato nel rumore di un oggetto pesante che strascica sul pavimento. Ancora un altro colpo. Sembra ferro. Il terzo urto, più potente rispetto ai precedenti, detona in un rimbombo. Non sono più solo. Il suono pare colpire pareti vicine. Mura di una piccola cantina, a giudicare dall’umidità che tortura le narici. Dal lato da cui provenivano le botte, si sparge un leggero bisbiglio. Il lamento di una voce maschile. Parole indistinguibili, annegate nei gemiti di nuovi sforzi, inutili per liberarsi dalle stesse catene che legano le mie caviglie a una sedia gelida. Il sibilo vicino si fa più chiaro:

«Dove sono?»

Ho paura di rispondere. Chi sta parlando? Perché mi trovo qui, legato in una cantina completamente buia, con un altro sconosciuto? Il mormorio dolorante dell’altro muta in un rantolo, poi risorge più veemente:

«C’è qualcuno?»

Trattengo il fiato, anche se i polmoni faticano. La pulsazione pompa ancora più netta nelle tempie, finché interrotta dal grido di una donna:

«Aiuto! Che cos’è questo posto!?» – un accento inglese rimbalza fra i singhiozzi – «Chi ha parlato?» –  ancora una volta il raschiare della ferraglia a terra, ma stavolta alla mia sinistra.

«Allora non sono da solo! Chi sei?» – risponde immediatamente l’uomo.

«Lasciami andare, please… » – lei pare soffocare nel pianto – «Perché mi hai rinchiuso qui? Che cosa vuoi?»

«Io non ti ho fatto niente. Sono legato, non riesco nemmeno a muovermi. E ho un fortissimo dolore alla gamba destra. Penso di essere ferito.»

«Anche io sono bloccata da una catena!»

«Sei ferita?»

«Sono incinta… » – la disperazione esplode di nuovo in un singulto – «di otto mesi.»

Forse, continuare a rimanere in silenzio non ha più senso.

«Ci sono anche io» – esordisco, provocando un urlo alla mia sinistra e un’imprecazione alla destra – «Mi chiamo Lorenzo. Non ho idea del perché mi trovi qui. Non penso di essere ferito.» – un colpo di tosse mi blocca – «Posso sapere i vostri nomi?»

«Sei legato?» – mi domanda la voce maschile.

«Sì, proprio come voi.» – scatto in avanti per far loro udire lo schianto delle catene. Un bruciore insopportabile macera la pelle. Il dolore è cieco, l’oscurità nei miei occhi scompare per un secondo in chiazze grigiastre. Calo le palpebre e resisto.

«Io mi chiamo Simone.»

«Io sono Annie…» – fatica a parlare – Ho molta paura, ditemi cosa sta succedendo, vi prego. Quanto ancora ci terranno qui dentro? Non posso resistere molto, il mio bambino potrebbe…» – lo sconforto si sfoga in un urlo – «Help! Please… Help me!» – è l’ululato di una madre disperata verso una luna che non esiste più, verso un cielo che, nel frattempo, potrebbe anche essere stato ridotto in cocci.

«Annie, no! Per favore, zitta!»

Lei non cede. Il riverbero ottura le orecchie.

«Basta!» – anche l’altro, cerca di placarla.

Il ticchettio dell’orologio cessa, coperto da un breve allarme assordante. Una porta si spalanca dal fondo della cantina, lasciando correre uno schizzo di luce sul mio viso per un solo secondo, prima di richiudersi. Lo schiamazzo della donna s’interrompe. Il tacco pesante di due stivali si avvicina nell’oscuro, poi s’arresta. La presenza pare scattare in una direzione, muovere un braccio. Un ansito strano, improvviso, precede il tonfo di un corpo a terra, a pochi metri da me. L’intruso ha pugnalato qualcuno. Sento lo sforzo per trattenere le lacrime, alla mia sinistra. Percepisco le vibrazioni del panico, alla mia destra. Gocce di sudore scivolano dal collo e inumidiscono la camicia. La lama si schianta ancora su quel corpo: rantolii raccapriccianti si alternano ai gemiti dell’assassino. La violenza taglia l’ombra. Posso quasi vedere gli strappi della pelle che lanciano fiotti di sangue.

«Stop, please…»

Il boia si rialza. Il varco si riapre per un altro attimo e infine sbatte. La lancetta ricomincia a girare. L’odore del carcame ai miei piedi cancella quello della muffa.

«Quante altre persone ci sono, qui?»

«Non lo so, ma dobbiamo evitare di attirare ancora l’attenzione in questo modo» replico all’uomo al mio fianco.

«E se ci uccidessero lo stesso? Che differenza farebbe stare zitti o urlare? Magari qualcuno potrebbe sentirci!»

«Non penso, Annie. Se la loro intenzione fosse quella di eliminarci, avrebbero potuto farlo prima. Evidentemente, vogliono che rimaniamo in vita.»

«Perché? Per farci morire di fame?»

«Se volessero torturarci?» – ancora lui.

«E, allora, perché lasciare slegate le nostre braccia? Per quale ragione permetterci di fare resistenza?» – sospiro – «Forse vogliono ottenere qualcosa da noi.»

Mi chiedo se possa esserci stato un errore, uno scambio di persona. Chi sono, veramente, le persone con cui condivido il silenzio e l’oscurità di questo sotterraneo? A chi appartiene il cadavere abbandonato ai miei piedi? All’esterno, una mitraglia comincia a latrare, decimando sciami di strilli. Uno stormo di passi svelti si muove sopra le nostre teste. La guerra, di cui noi riceviamo soltanto segnali sfocati, potrebbe aver già distrutto il mondo intero, oppure sterminato la popolazione. O magari, per quanto ne so, io potrei anche essere già morto. Questo sarebbe il mio aldilà, il mio paradiso. O meglio, il mio inferno. Che differenza fa?

Mentre la confusione imperversa là fuori, pensieri si attorcigliano, senza portare a nessuna conclusione. Maree nell’oceano, finché:

«Why us? Perché proprio noi?»

«Qual è l’ultima cosa che ricordate, prima di esservi risvegliati qui?» – mi sforzo di rimanere lucido.

«Stavo visitando un paese qui vicino: Sesto San Giovanni. Volevo soltanto fare delle fotografie, come una turista qualsiasi. Ero da sola. E… c’era un uomo. Indossava un’uniforme. Camminava alle mie spalle. Voleva inseguirmi: se cambiavo direzione, anche lui faceva lo stesso; quando invece provavo ad accelerare, lui affrettava il passo per non perdermi. Arrivammo in una piazza, completamente deserta. Dopo di ciò, è come se la mia mente si fosse spenta.»

«Io non ricordo nulla. Ci sto provando, ma…» – espira l’altro, affranto – «E tu, Lorenzo?»

«Ho un suono, stampato nella mia mente: il marciare di un gruppo di militari, il battito regolare dei loro stivali.»

«Solo questo?»

«No, anche il fracasso di vetrine rotte, forse degli spari. Qualcuno urlava.» – la memoria riaffiora in piccole scintille – «Urlava “Vi state sbagliando! Non sono io!”»

«Chi era?» – interviene la donna.

«Non lo so. Era un grido disperato. Lo ricordo come un’esplosione. Per un attimo ha coperto il frastuono della strada.»

«Oh, my god! Che cosa sarà successo?» – ancora lei – «Dove ti trovavi?»

«Non riesco a intuire il luogo preciso di quegli ultimi momenti.»

L’orologio si congela per la seconda volta. Quando la sirena rimbomba, di nuovo, la porta dal fondo si riapre sotto la spinta dell’assassino. Un altro fendente nel nero. Un altro corpo che cade, stavolta più leggero. Forse una donna, una ragazza, o un bambino. Siamo già a due morti. Chissà quanti altri devono patire la stessa condanna. Tranne noi.

L’ingresso si richiude. Rimaniamo in una quiete elettrica, circondati da un cimitero cieco.

«Please, let me go…Sono solo una turista!»

«Che cosa volete!? Che cosa dobbiamo fare!?»

L’agitazione si arrampica sul petto.

«Ascoltate…» – ho paura di dire ciò che sto pensando – «Riuscite a sentire le lancette dell’orologio?»

«Sì… Stanno rispettando un ritmo per le esecuzioni.» – la voce alla mia destra interviene – «Ogni minuto che passa ci avvicina a una nuova vittima. Dobbiamo evitare che l’allarme suoni, che quella porta si spalanchi ancora. Dobbiamo dar loro ciò che vogliono…»

«Ma che cosa!?» – cerco la risposta a tentoni, nel buio.

Attimi incespicano, infiniti, quando l’uomo al mio fianco:

«Annie… Qual è il tuo Paese di origine?»

«Ha importanza, adesso?»

«Ti prego, rispondimi. Dobbiamo capire quale sia il nesso che ci lega a questa storia.»

«What? Non capisco cosa c’entri la mia provenienza con tutto questo.»

«Sapere da dove vieni potrebbe aiutarci a capire perché sei stata rapita. Tra pochi minuti, quell’individuo potrebbe entrare e uccidere per la terza volta. Abbiamo bisogno di un punto da cui partire… »

«Sono inglese, di Liverpool. E adesso?»

«Il tuo italiano è perfetto, Annie

«Che cos…»

«Dove hai imparato così bene la nostra lingua? È davvero ammirevole.» – lui incalza.

«Non capisco dove tu voglia arrivare, Simone.»

«Dall’accento, deduco che tu sia l’unica straniera dei tre: sto solamente cercando una pista. Dillo, ti supplico: dove hai imparato l’italiano?»

«L’ho studiato per molti anni in Inghilterra.»

«In questo momento ti trovi in Italia per perfezionare la tua conoscenza della lingua?»

«Per quale ragione dovrei dirtelo?» – l’accento inglese pare scomparire dietro un tono aggressivo.

«Non agitarti, per favore. Voglio sol… »

«Perdi tempo! Anziché trovare una soluzione, mi stai trascinando in questa conversazione inutile!»

Avverto i movimenti delle braccia della donna, intente a strattonare le catene dalle caviglie. Tutto inutile.

«Provate a liberarvi. Avanti, fate qualcosa!» – ci ordina.

«Annie… Posso chiederti perché stessi visitando proprio Sesto San Giovanni?»

Lei si blocca, il ferro ricade pesantemente a terra, e:

«Ma stai impazzendo? Di che cosa parli, Simone?!»

«Il tuo ultimo ricordo, prima di accorgerti che quello sconosciuto ti stava seguendo, è di una visita a Sesto San Giovanni. Lo hai raccontato proprio tu, qualche minuto fa…»

«E questo che cosa ha a che fare con il nostro rapimento?»

«A me risulta che Sesto San Giovanni sia una città parecchio… Insomma… una città molto brutta, senza attrazioni. Senza turisti. Che cosa ci facevi lì?»

«Che cosa stai insinuando?»

«Niente… è solo che… »

«Stai insinuando che io abbia mentito?»

«Dico solo che… Ecco, tu stavi facendo la turista in una zona che, specialmente in questo periodo, non è turistica. Non serve certo che te lo ricordi.»

«E con questo?»

«Inizio a pensare che forse potessi non essere sorpresa che qualcuno ti stesse seguendo. O addirittura, che avessi, diciamo, una sorta di appuntamento con quel tizio in divisa.»

«Oh my god! Ma che cosa stai dicendo!»

«Forse qualcosa poi è andato storto, e ti sei ritrovata in trappola.»

«Voi, allora? Voi che cosa avete di diverso da me?»

«Allora dicci: da quanto tempo soggiornavi in Italia? Perché, tra tutti i luoghi turistici, proprio Sesto San Giovanni?»

Tutto sommato, questa voce potrebbe avere ragione: Sesto è, specialmente adesso, una zona tristemente nota per certe inclinazioni politiche, poco gradite dal Governo attuale, e da tutti quei giovani infervorati dalle ideologie radicali. Per quale ragione una giovane signora inglese dovrebbe intraprendere un viaggio dalla magnifica terra del liberalismo fino a un borgo industriale senza storia? Oltretutto, nel Nord Europa, che io sappia, una tale conoscenza della nostra lingua è assolutamente straordinaria. In tempi come questi, un simile talento non andrebbe sprecato, lasciandolo nelle mani di una semplice civile. Annie, la turista di Liverpool, forse, non è stata sincera con i suoi compagni di cel… La sirena tuona per la terza volta.

Il sicario fa il suo ingresso in scena. La pugnalata secca. Il cadavere martoriato a terra, ed infine abbandonato. Tremo. Anche gli altri due.

«See…Guarda che hai fatto. Hai perso tempo ad accusarmi, anziché… »

«Anziché fare cosa, Miss Annie?» – rompo il mio mutismo – «Che cosa pretendi che facciamo? Siamo legati, nel buio più completo: non possiamo fare niente. Dobbiamo solo aspettare che arrivi la nostra ora. A questo punto, spero il più in fretta possibile: di certo non preferisco la fame al dissanguamento. Se la coltellata viene inferta nel punto giusto, per esempio da un orecchio all’altro, la morte può sopraggiungere in pochi minuti.»

«Sei un medico, Lorenzo?»

«Lo ero.»

«Lo eri? Sei in pensione?»

«Non proprio. Sono stato costretto ad abbandonare la professione, dopo molti anni.»

«Ok, ok, well… » – la donna riprecipita nella disperazione – «È vero. Ho mentito. Non sono una turista. È troppo tardi… Non ha più senso fingere.»

«Chi sei tu?» – la mia domanda anticipa un silenzio pesante, bucato dal balbettio ordinato della lancetta.

«Il mio vero nome è Audrey. Sono una giornalista del Times. Lavoro in Italia da diciotto mesi. Per questo… » – sbuffa – «… Conosco così bene la vostra lingua.»

«Chi ti ha mandato qui?»

«Se dovessi riassumere la mia professione, direi che mi occupo di raccontare le vicende italiane ai lettori del nostro giornale. Ciò che sta succedendo in questo Paese è d’interesse mondiale. Questo è ciò che faccio, niente di più. Non sono una spia mandata dal governo inglese.»

«Perché ci hai mentito?»

«Ho paura.»

«Sei davvero incinta?»

«Sì.»

«Quindi, Audrey, suppongo che tu abbia una ragione per essere qui.»

«What?! Io stavo facendo solo il mio lavoro! Non rappresento una minaccia per nessuno.»

«Come hai potuto credere che saresti rimasta impunita per sempre? Intromettersi in faccende così grandi ha sempre delle conseguenze.» – continua Simone – «Ma… Noi due? Che cosa c’entriamo con lei?»

«Il tuo cognome… » – la voce femminile zoppica, affannata – «Tu sei Simone Böhm

«Come fai a saperlo?!»

«È questo il tuo cognome? Böhm

«Sì, lo è… Ma come… »

«Allora, Simone Böhm, anche tu hai un motivo per essere rinchiuso qui.»

«Come hai fatto a riconoscermi?»

«Ho sentito altre volte la tua voce.»

«Di che cosa state parlando?» – non ricevo, però, nessuna risposta. I due tacciono.

«Che cosa hai fatto, Simone Böhm?» – ritento.

«Anziché cosa abbia fatto, dovresti chiederti chi sia questa persona. O meglio, cosa sia.»

«Sei una bugiarda.» – e, rivolgendosi a me – «Non ascoltarla, Lorenzo. Sta solo cercando di cancellare le proprie falsità, incolpando qualcun altro.»

Dunque, la giornalista era già a conoscenza del tizio alla mia destra. E se valesse lo stesso per me? Se sapesse chi sono?

Un lato della mia persona, sfiancato dalla reclusione, vede sbocciare una speranza: forse, attraverso lei, sarebbe possibile ricostruire il filo logico che ci lega gli uni con gli altri, e ci incatena a queste sedie. L’altro, però, brucia di un istinto diabolico; è posseduto dal bisogno ipocrita di proteggere la propria identità dall’indiscrezione altrui. Se dovessi morire, forse, preferirei farlo senza rivelare il mio cognome, evitando che possano giudicare la mia vita, rovistare fra i miei sbagli. In quest’epoca più che mai, è giusto che ognuno nasconda i propri peccati, che io possa estinguere il mio inferno privato sotto le rispettabili vesti. Terrò una maschera finché non sarà più necessario. Tuttavia, il mio orecchio coglie lo scoppio di altre pistole in lontananza. Il cosmo vuol farmi capire che è venuto il tempo, per me, di essere finalmente smascherato?

«Basta! Tutto questo non ha senso. Stiamo solo perdendo tempo.» – tossisce l’altro – «Sono esausto, ho sete. Da quanto tempo siamo rinchiusi qui dentro?»

«Da non molto, sicuramente. Saremmo già morti di stenti, altrimenti.»

«Che giorno è oggi?»

«L’ultima data che ricordo è il 10 dicembre» – la mia voce rimbalza sul soffitto madido e ricade deformata.

«Suppongo che oggi sia l’11 dicembre, oppure il 12.»

Non mi arrendo, riprendo a cercare un senso. Tasto nella tenebra di fronte ai miei occhi. I palmi infrangono il vuoto. Non c’è nulla. Provo ad allungarmi, sfiorando il bordo di un oggetto.

«C’è qualcosa davanti a noi!» – esclamo.

Le braccia turbinano, spingendosi in avanti, finché la mano sinistra si aggrappa a una superficie ruvida. Le dita si arrampicano. Un faro si accende sopra le nostre teste. L’illuminazione cinge la scena, al centro della cantina. Audrey lancia un urlo bestiale, terrorizzandomi.

«Che cosa succede?!» – reagisco immediatamente.

Le mie pupille vorticano in un colore giallognolo, senza individuare alcuna figura. Le mani toccano il piano ligneo, ma non ne intuiscono l’ampiezza. Gli altri due non fiatano.

«Ditemi che cosa è accaduto, vi prego!» – ci riprovo.

«Allora, tu sei cieco.» – lei ha il tono sorpreso.

«Esatto. Una gravissima cataratta mi ha portato via la vista. Però, per favore, adesso descrivimi che cosa è apparso alla luce.»

«C’è un…» – sento le lacrime tagliarle il viso – «C’è un tavolo di legno. Sopra, una pistola. Attorno a noi, dalla penombra, spuntano i cadaveri degli assassinati. E poi… »

«Avanti, continua!»

«Seduti a questo tavolo, siamo in quattro.»

«C’è un’altra persona!? Chi è?»

«Non lo so… È un uomo.»

«Chi sei? Perché sei stato zitto finora?»

Lo sconosciuto non reagisce.

«È morto?»

«Non lo so, Lorenzo. Porta una maschera, una camicia bianca, e tiene le braccia conserte. Le sue gambe sono slegate. I suoi occhi sono aperti.»

«Sarà l’ennesima vittim… »

«Respira!» – Simone sbotta – «Il suo petto si sta muovendo! Quest’uomo è ancora vivo.»

«What about the gun? Che cosa dovremmo fare con quella pistola?»

Percepisco un breve traffichio metallico, seguito dalla voce dell’uomo alla mia destra:

«Quattro persone sedute a questo tavolo e un solo proiettile nel caricatore. Perché solo uno?»

«Vogliono che decidiamo chi fra noi merita di morire. Ci rendono i liberi artefici del nostro destino.»

«But how? Come si fa?»

«Lasciar scegliere la sorte, per una fine equa e democratica, oppure trovare la soluzione di comune accordo. Non esiste altra possibilità.»

«Comune accordo?! Con quale criterio puoi giudicare quanto un’altra persona meriti di sopravvivere?»

Intuisco una grande irrequietudine nelle movenze furiose e irregolari di Simone, nei soffi che gli decapitano le parole prima di essere partorite, prima che noi possiamo udirle e scandalizzarci. Oppure provare sollievo. La sua danza inquieta prosegue, finché la vergogna e la morale evaporano in una frase:

«Uccidiamo lui.»

«We can’t… Non possiamo farlo!»

«È la scelta migliore. Questo tizio è praticamente già morto» – ribatte lui, immediatamente.

«Potrebbe ancora salvarsi.»

«Come? L’unico medico vivo in questa stanza è legato a una sedia. Ed è cieco.»

Mi sento inutile. Sono terrorizzato.

«O lui o noi» – continua – «I veri responsabili della sua morte non saremmo noi, ma chi lo ha ferito, magari perfino torturato, e abbandonato qui senza cure.»

«Che differenza fa?» – ritorno a interloquire – «La scelta sarebbe pur sempre la nostra. Pensi che la tua vita valga più della sua, solo perché lui potrebbe essere già spacciato?»

«Lorenzo, tu preferiresti rischiare, piuttosto che prendere la decisione più intelligente?»

«Intelligente o diabolica?»

«Quale sarebbe il giusto modo, allora?» – mi chiede.

«Soppesare le nostre colpe. Perché dovrebbe pagare lui, se i peccati di chi gli sta a fianco sono più gravi?»

«E chi ti dice che non sia proprio tu quello che ne ha commessi di più gravi?» – la donna mi attacca.

«Se dovessi essere io, saprò di essere stato punito per un buon motivo. Saprò di aver risparmiato la vita di chi ha sbagliato meno di me.»

«Ma questo è impossibile. Solo Dio potrà valutare i nostri errori!»

Una risata isterica mi sfugge.

«Dio? E dove si troverebbe ora il tuo Dio, Audrey? Non c’è nessun Dio quaggiù. Al massimo, fra le urla e i colpi di mitra che senti all’esterno. Ma dubito che possa essere tanto coraggioso da assistere alle crudeltà che stanno avendo luogo in questo Paese depravato, perfino lui. Se davvero esistesse, sono sicuro che il sommo Creatore si starebbe nascondendo come chiunque altro!» – inveisco – «Il sacrificio di uno di noi quattro avrà senso solo in un modo: se sarà la nostra giustezza a decretare il diritto di vivere.»

«Io non ho commesso nessun crimine che valga una tale condanna! Non merito di essere qui. E poi… » – rinasce il piagnucolio della giornalista – «Se io mi sacrificassi, punirei ingiustamente una creatura innocente: il mio bambino.»

«Stai impazzendo, Lorenzo! Vuoi convincerci di essere dei carnefici, quando in realtà siamo le vittime dei nostri rapitori. Il tuo è uno stupido tentativo di invertire i ruoli, forse per rassegnarti alla tua fine, oppure per trovarne un senso… » – obietta l’altro.

«Chi mi assicura che tu non sia un delinquente? Un assassino? Chi mi garantisce che ora non prenderai quella pistola carica e farai fuoco su un povero cieco, su una donna incinta, o su quel corpo che a fatica respira?» – ora sono io ad attaccare. Ho paura – «Anziché lottare per sopravvivere, ascolta la tua coscienza! Tu, come tutti i presenti, che cosa hai fatto per essere qui?»

«Trovare le nostre colpe? Quelle dei cadaveri che ci hanno coricato a fianco? Che cosa vorresti fare, Lorenzo? Frugare nelle loro tasche? Scavare nella loro anima?»

«Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini, e vi troverò una qualche cosa sufficiente a farlo impiccare.» – le mie parole strisciano lente nella cantina, grattando i rantolii del quarto sconosciuto, i lamenti della giornalista e l’arroganza dell’uomo.

«Cosa significa?» – la reazione alla mia destra.

«È una citazione attribuita al Cardinale di Richelieu. Anche se è difficile da ammettere, ogni essere umano ha delle colpe da espiare. Nessuno, guardando nel profondo della propria esistenza, potrà mai riconoscerne la perfezione morale. Ogni individuo quaggiù merita, o ha meritato, una penitenza per qualche motivo. Sia chi è stato ucciso, sia chi è ancora in vita.»

«Allora chi? Come si sa chi ha le colpe meno gravi?»

«Quando è venuta l’ora di decidere, tu, Simone, non ti sei fatto nessuno scrupolo a scagliare la prima pietra. Non hai avuto la minima esitazione.» – la donna interviene.

«Che cosa intendi, Audrey?»

«Se al posto di quell’uomo ci fossi stato tu? Se la persona incatenata a quella sedia, ferita a morte, fosse stata tua madre? Tuo fratello? E se, invece, mi fossi trovata io lì, una donna incinta, avresti ucciso entrambi? Avresti risparmiato mio figlio?»

«Dove vuoi arrivare?»

«Lorenzo ha ragione. Il meno giusto dei quattro non merita di sopravvivere.»

«Io ho cercato di salvare anche la vostra vita! E voi adesso mi stareste ripagando così?!»

«Avresti sparato a un uomo senza nemmeno sapere il suo nome. Avresti avuto sulla coscienza, e noi con te, un individuo di cui non avremmo nemmeno riconosciuto il volto sulla lapide. Un cadavere senza identità, né dignità.»

«Io sarei il colpevole? Tu hai mentito fin dall’inizio! Hai detto di essere una turista, quando invece sei stata mandata dal governo nemico per spiarci! Dovresti essere impiccata per questo, e invece vorresti mandare alla gogna me. Tu cosa ne pensi, Lorenzo?»

«Hai guardato in faccia l’uomo che volevi uccidere? Sai chi è?» – la mia risposta.

La sedia alla mia destra cigola, la ferraglia che lo imprigiona pare tendersi e grattare il pavimento. Imploro la giornalista di raccontarmi la scena, sussurrandole.

«Sta cercando di togliere la maschera al quarto uomo.»

«Voglio vedere il suo viso!» – conferma lui.

«Ti prego, Audrey, continua a descrivermi ciò che succede.»

«Si sta allungando per afferrarla… »

«Non riesco ad allungarmi abbastanza!» – ascolto il digrignare dello sforzo – «Ecco, forse ce l’ho fatta… » – un sospiro soddisfatto.

«La maschera sembra legata con uno spago alla nuca. Ora, sta scoprendo il viso.»

«Vai avanti! Voglio sapere chi è!» – la supplico ancora.

«Dal mento gocciola un misto di bava e sangue, la bocca sembra ferita. Gli zigomi sono scavati; sembra affamato, come noi.»

«Com’è la sua pelle?»

«La pelle è chiarissima, ma il pallore è macchiato da lividi e altre ferite violacee. Il naso è… Non ce la faccio, I’m sorry… Questo è troppo per me.»

«Avanti, ti scongiuro! Il suo naso… »

«Il suo naso è fratturato, piegato da un lato.»

«I suoi occhi?»

«Sono scuri e immobili, quasi senza vita. Fissano Simone. Adesso, la maschera è tolta quasi del tutto.»

Colgo una neonata disperazione nell’uomo al mio fianco. Il vagito del pentimento si propaga fra i suoi singhiozzi sguaiati. Che succede?

«Sfilagliela completamente! Audrey, tu dimmi come sono i suoi capelli!» – l’ennesima mia richiesta.

«Oh my god! No, I can’t… »

«Che c’è?! Che cosa vedi?»

«Please! Basta!»

«Che cosa vedi, Audrey! Dimmelo! Ho bisogno di sapere!»

«Il suo capo è stato rasato con violenza. Ha dei graffi sparsi ovunque. E sulla fronte…» – i lamenti di Simone, come guaiti di un randagio malmenato, disturbano il mio orecchio – «Sulla fronte è stata incisa una figura. Ancora sanguina, devono averlo fatto da poco.»

«Una figura?»

«È un simbolo… »

«Ecco perché siamo qui.» – l’altro è arrivato a una conclusione, a me però ancora oscura, nascosta in quella patina gialla che è l’unico mondo visibile ai miei occhi malati.

«Descrivimi il simbolo!»

«Stai zitta! Non glielo dire o ti sparo!» – Simone scatta rabbiosamente.

«Ha preso la pistola?!»

«Sì. Me la sta puntando contro.» – la voce femminile trema, come la mia.

«Che cosa succede, Simone?» – provo a mantenere la calma- «Non eravamo tutti innocenti, quaggiù?»

«Taci!» – immagino che, mentre mi urla, egli abbia diretto la canna dell’arma verso di me – «Dato che voi non avete il coraggio, prenderò io la decisione.»

Il mio orecchio insegue i movimenti del braccio armato, ma non distingue chi sia il bersaglio fra me, Audrey e il corpo ferito.

«Aspetta!» – ammansire la bestia, in preda al panico, non è semplice – «Non fare cose di cui ti potresti pentire!»

«Voglio solo rivedere la luce, riavere la mia libertà, anche se ciò comporta un sacrificio.»

«Sparare a uno di noi potrebbe non essere l’unica via di uscita!» – ci riprovo.

«E quale sarebbe l’alternativa? Morire di fame?»

Simone ha ragione. Qualcuno dovrà togliersi la vita per liberare gli altri.

«Spara a me, allora.» – gli ordino.

«What?! No, Lorenzo! Se aspettiamo, qualcuno potrebbe venire a liberarci.»

«Chi lo farebbe? Ascolta il fragore della guerra, al di là di queste mura» – da quando abbiamo ripreso conoscenza nel buio, la Terra non ha quasi mai smesso di essere percossa da rumori raccapriccianti -. «A chi interesserebbe la nostra vita, ora che quella di chiunque altro sembra in pericolo?»

«Perché tu?» – mi chiede lui.

«I miei peccati sono peggiori dei vostri.» – ribatto.

«Quali sono i tuoi peccati?»

«Ho giudicato la vita di altre persone, condannandole a morte.»

«Chi hai condannato, Lorenzo?»

«Claudio Calabresi, Giovanna Bemporad, Paolo Coen… »

«Chi sono queste persone?» – m’interrompe la giornalista.

«Lasciami finire l’elenco delle mie vittime…» – la zittisco, prima di continuare – «Marco Besso, Simone Böhm, ed infine Audrey Pinter

«Come fai a sapere il mio cognome?!» – lo stupore della donna – «E a chi appartengono gli altri?»

«La risposta è semplice: basta guardarti attorno.»

«Sei stato tu a rinchiuderci qui? A ordinare l’uccisione dei cadaveri stesi in questa cantina? Perché?!»

«Audrey, qual è il disegno inciso sulla fronte del quarto uomo seduto a questo tavolo?»

«È una stella di Davide.»

Simone ringhia: «Non è possibile… Io ti ammazzo! Sei uno schifoso fascista!»

«Dimmi, cara, perché hai detto di aver già sentito la voce di Simone, molte volte?»

«Io, non so… » – lei esita.

«Te lo dico io, cospiratrice. Tu non sei una giornalista, sei l’informatrice sul territorio italiano dei servizi segreti inglesi. Pensavano che avremmo avuto pietà di te solo perché sei incinta? Arrivata da pochi giorni a Milano, avevi ricevuto l’ordine di sorvegliare le azioni dell’uomo che ora sta per premere il grilletto e mettere fine alla mia esistenza: Simone Böhm, il grande nemico del regime, il quale stava programmando la fuga di decine di altri sporchi ebrei come lui. Non è così? Per tua sfortuna, però, Böhm ti ha venduto a noi.»

«È vero, Simone? Is that you

«Mi dispiace… » – la parlata dell’ebreo è annacquata dal rimorso.

«Quel pusillanime traditore di Böhm si era accorto di te, dei tuoi movimenti ambigui attorno alla comunità ebraica di Milano, e aveva pensato che, denunciandoti, si sarebbe guadagnato la nostra misericordia. Sperava che in cambio del suo favore, come patto d’onore, noi risparmiassimo la sua famiglia. E così facendo, l’idiota ha denunciato anche se stesso. Che stupidità… credere che un’ideologia possa sgretolarsi in una stretta di mano!»

«Quindi, chi sei tu?» – l’ebreo vuole conoscere l’identità del suo carnefice.

«Sono un misero dottore, affetto da una gravissima cecità, il quale ha scelto di offrire la propria anima al regime. Lo stesso che farete voi, con la differenza che io l’ho voluto.»

«Io non mi arrenderò alla vostra follia!»

«L’hai già fatto, Simone: hai cercato di stringere un patto con noi, consegnandoci una vita – anzi,due – per proteggere i tuoi cari.»

«Se ora sparassi, però, saresti tu stesso una vittima!»

«Avanti, fallo! Non mi interessa più nulla. Ho svolto umilmente il mio compito. Voi, invece, siete come topi in trappola!»

«Basta!»

Il proiettile esplode, scagliando dei riflessi metallici nelle urla dei presenti. Un rantolo si accende come scintilla, spegnendosi immediatamente. Mi sento trasportato da un urto sordo. Un corpo crolla in avanti, sbattendo. Non è il mio. Quando l’adrenalina si dissipa, tasto il mio petto. Non sono ferito: Simone mi ha risparmiato. Chi è la vittima?

«A chi hai sparato, ebreo?» – il mio grido rimbomba.

Audrey trasalisce. È viva.

«Chi è la vittima, donna?»

Lei ansima. L’espirazione si fa sempre più profonda.

«Sì è suicidato.» – finalmente ricevo la sua voce – «Ha puntato la pistola alla propria tempia e ha fatto fuoco.»

«L’ebreo infame è scappato! Codardo!»

«Mi fai schifo, bastardo fascista.»

Gocce colpiscono il mio zigomo sinistro. La spia inglese deve avermi sputato.

«Lui è riuscito a farla franca. Forse avrà anche già raggiunto il suo Dio, ammesso che questi lo ammetta nel suo regno. Ammesso che Yahweh esista davvero. Invece, per te, Audrey,e lo scarto umano accanto a te, non c’è più speranza: voi non potete più fuggire da nessuna parte.»

Le sue braccia impazziscono in un nuovo tentativo di liberarsi dalle catene.

«Portatela via!» – grido ai militari fuori dalla cantina, in attesa di miei ordini. Otto stivali marciano immediatamente dal varco. Immagino un plotone di soldatini ordinati e senza espressione, come statuette ubbidienti. Rimango in ascolto mentre rimuovono la salma morente del tizio e strattonano la giornalista verso l’uscita. Vedo la figura di lei, come la mia mente riesce a partorirla, digrignare i denti e masticare maledizioni contro di me, verso la dittatura e l’Italia intera che ha tacitamente permesso simili brutalità. Mi fermo e le parlo, per l’ultima volta:

«Spero che anche tu abbia un Dio ad attenderti alle porte dell’Inferno, Audrey. Altrimenti, fossi in te, inizierei a crederci da questo momento.»

Ormai, Audrey Pinter non è più un essere umano, bensì nient’altro che un contenitore: il regime si occuperà di estrarre le informazioni necessarie, e poi la brucerà assieme ad altri oggetti inutili, come si fa con un faldone di documenti appassiti. La tortureranno fino a toglierle l’anima, e se non vorrà tradire i servizi segreti per cui lavora, faranno lo stesso con qualcun altro. Due mani robuste mi sollevano con delicatezza e mi portano alla luce. Adesso posso finalmente sentire i suoni nitidi del terrore, della fuga. Il sangue italiano si sta ripulendo, spargendone di altro nelle strade che ora attraverso, sorretto dalle due forti braccia. Immagino rabbini, zingari, e altri escrementi, come scarafaggi, rintanarsi negli angoli più sozzi e bui della città.

È il 14 dicembre 1938. Il Manifesto della razza è stato reso pubblico esattamente cinque mesi fa, e il suo contenuto annunciato il 18 settembre 1938 a Trieste, dal Duce Benito Mussolini. Da allora, il regime ha trovato modi concreti per perseguire il popolo ebraico fra i confini della nostra grande nazione. Chi mi ha ordinato di commettere questi atti di pura crudeltà, un giorno, mi disse che anche gli innocenti hanno delle colpe, perfino peggiori delle nostre. L’importante è trovarle.

In realtà, non ci ho mai creduto. Sono solo un misero cieco, col bisogno di sentirsi protetto, forte con i potenti, ma pur sempre fragile e stanco. La mia finzione è necessaria per sopravvivere: in tempi come questi, qualsiasi motivo potrebbe giustificare l’eliminazione di un individuo; specialmente un debole come me.

Bastano sei righe, scritte dal più onesto degli uomini, e il mondo rischierà sempre di trovarvi qualcosa sufficiente a farlo impiccare.

_

https://www.ibs.it/accordo-stridente-ebook-riccardo-cervero/e/9788833170831