Racconto di Mario Rigli

(Seconda pubblicazione – 10 maggio 2021)

 

 

Erano omai trenta o quaranta giorni che stavo rinchiuso in casa e non ne potevo più. Mi sentivo bene, e le scorte erano ancora abbondanti, frigorifero e congelatore pieni. In fondo non mi mancava nulla, nulla di importante, ma sembrava mi mancasse l’aria. Potevo anche lavorare da casa dal pc, il telelavoro per me, tecnico informatico, era normale. Ma non ne potevo più.
La zona rossa veniva ampliata tutti i giorni, i giorni di quarantena da quattordici erano diventati prima ventotto, poi tre mesi. Mi mancavano a bestia le serate in pizzeria con gli amici ed i colleghi di lavoro, le mie camminate lungo l’Adda, il sole sul viso, le visite a Milano. Eh già, ogni tanto visitavo la città, il duomo, la pinacoteca di Brera, la Galleria d’arte Moderna, il Cenacolo del mio conterraneo. Visitavo tutte le mostre d’arte come facevo un tempo a Firenze.
Firenze e il Valdarno mi mancavano di brutto. Ormai erano una quindicina di anni che mi ero trasferito in Lombardia. Da noi, allora, non esisteva, il tipo di lavoro che andavo cercando.
L’avevo trovato a Lodi, ma ero andato ad abitare nella provincia, più economico, ma soprattutto era un motivo di “amore onomatopeico”, di “assonnaza amorosa”, meglio ancora di “rima nelle radici”.
Io ero nato ed abitavo a Terranuova Bracciolini, nel Valdarno Aretino, cittadina famosa oltre che per l’umanista Poggio, anche per il grande pittore del 400 Fra’ Diamante e per Concino Concini, il maresciallo d’Ancre. Amavo il mio paese come più non si può ed è per questo che appena ho saputo dell’esistenza di un comune dal nome Terranova Passerini mi ci sono fiondato subito e lì ho cercato casa. L’appartamento era piccolo e modesto ma potevo continuare a chiamarmi “terranovese”, anche da noi si diceva così, senza la u.
Un’altra coincidenza era il secondo nome, Bracciolini e Passerini, aggiunti nello stesso periodo: nel 1862 Bracciolini, nel 1863 Passerini.
Non era una “terra murata” come Terranuova, Castelfranco o San Giovanni, anche perchè credo che Arnolfo di Cambio non sia mai stato nel Lodigiano, ma non era male lo stesso.
Mi mancavano il Ciuffenna e l’Arno e soprattutto il Pratomagno, ma l’Adda era vicinissimo e le montagne non molto lontane.
In questi anni ero tornato rarissime volte in Toscana, per Natale, per Pasqua e soprattutto per pochi giorni. Avevo perso i contatti con tutti i miei amici di un tempo, li vedevo su FB nel gruppo “Sei Terranuovese se…”. qualche volta li sentivo per telefono, a volte su Wattsapp.
I miei genitori ed i miei fratelli li vedevo però tutti i giorni su Skype. Babbo e mamma non erano più giovanissimi, ma ancora in gamba ed abitavano sempre nella casa colonica di Poggio Orlandi, la collina che dominava Terranuova, quella vera.
Forse era venuto il momento di andare trovarli: genitori, fratelli, parenti ed amici.
…………..

Non ne potevo più di questo cazzo di coronavirus, per me era poco più che una influenza. Aveva suscitato molto clamore però, troppo. Ma in fondo era accaduto altre volte. Vi ricordate l’Asiatica, l’Aviaria, il Colera, la Mucca Pazza? Il problema e che non mi potevo muovere. Terranova Passerini era nel centro esatto della zona rossa. E’ vero, tutti parlavano di Codogno, nessuno di Terranova e anche questo mi dava un po’ noia. Sarebbe stato come se fosse successo qualcosa nell’intero Valdarno tutti avessero scritto di Montevarchi e nessuno di Terranuova, la mia.
Eravamo prigionieri però, nessuno poteva avvicinarsi o allontanarsi dalla zona rossa. Posti di blocco ovunque. Carcere e multe per chi infrangeva il divieto.
Avevo deciso. Sarei tornato in Toscana. Sapevo bene come fare. Non mi avrebbero intercettato sicuramente. Preparai uno zaino con poche cose e qualche panino, inforcai la mia moto da cross. Percorrendo strade sterrate di campo, dribblando ogni posto di blocco, arrivai a Lodi. Nel parcheggio della mia ditta presi la macchina aziendale di cui avevo le chiavi, lasciai il Telepass di dotazione su un muretto e misi sul cruscotto il mio personale.
Il navigatore, ma già lo sapevo, mi disse 320 chilometri, tre ore il tempo previsto. Mi diressi quasi felice verso il mio Valdarno.

……….

-Avete sentito, ragazzi? –
Forse ragazzi per dei quarantenni era esagerato, ma ci chiamavamo sempre così nel mio paese fra amici, fino settant’anni e forse più.
Sette o otto persone, nel gazebo davanti al bar centrale stavano sorseggiando il caffè del pomeriggio.
– Sentito cosa? –
– I’ Seba è scappato dalla zona rossa! sentito ora alla radio –
– Cazzo! e ora che si fa? –
– Non possiamo permettere che ci impesti tutti, che impesti i nostri figli e i nostri genitori –
– Sono anni che non lo vediamo ed ora torna con la peste come regalo –
– No, dobbiamo convincerlo a tornarsene indietro, i carabinieri lo metterebbero in quarantena a Poggio Orlandi, ma chi lo tiene quello? –
No, dobbiamo mettergli paura, un fifa nera, che gli faccia fare il viaggio di ritorno, poi ritornerà quando tutto è finito, se un giorno tutto finirà –
……..

Era ormai nei dintorni di Firenze Sud. Si poteva già sintonizzare su Radio Emme, la radio del suo paese.
– Ultime notizie: Sebastiano Righi è fuggito dalla zona rossa del Lodigiano, probabilmente sta dirigendosi in Valdarno, istituiti posti di blocco. –
– Cazzo stanno parlando di me! –
Era tanto che non si sentiva chiamare Sebastiano, al nord lo chiamavano tutti Sebastian, senza la o finale, e in Valdarno I’ Seba era più che sufficiente. Doveva chiedere ai suoi vecchi come mai avevano scelto quel cazzo di nome.
– Ed ora che faccio? –
Sorpassò il casello di Incisa e poi quello di Valdarno, il suo. L’uscita dopo era Arezzo, diversi chilometri dopo, decise di arrivre fino a là. Inforcò la corsia telepass a velocità sostenuta. La sbarra si alzò, nessun blocco c’era ad aspettarlo.
Quanto era bella la “sette ponti” da Arezzo a Valdarno! Che emozione passare sopra il Ponte della Gioconda! Erano anni che non succedeva! Arrivò al Paese di Licio Gelli, Castiglion Fibocchi. Tutto calmo. Decise di procedere fino a San Giustino. Parcheggiò la macchina davanti alla farmacia e al bar. Vide un motorino incustodito. Lo prese, scusandosi dentro, con il proprietario, chiunque fosse, lo avrebbe riportato prima possibile. Non fece la provinciale naturalmente,deviò per Campogialli e poi per la Traiana e la Cicogna. Quando rientrò nella provinciale sotto Ganghereto, fece solo qualche chilometro e deviò lungo l’argine del Ciuffenna. Era vicino a casa.

………

– Stiamo pronti, ormai deve stare per arrivare –
Il gruppetto di “ragazzi” erano acquattati dietro gli alberi lungo la salita che portava a Poggio Orlandi. Erano irriconoscibili. Mascherine chirurgiche in faccia, guanti mono uso e pannucce celestine da infermiere. Cappelli in testa. Ma soprattutto ognuno aveva una balestra.
Esisteva nel paese un circolo di balestrieri e loro erano tutti iscritti.
– Mi raccomando – disse chi sembrava il capo del gruppo – dobbiamo mettergli una paura cane, tirate a mezzo metro di distanza dal corpo, attenti a non colpirlo, ma mirate più vicino possibile. Siamo tutti esperti, possiamo colpire una moneta a 10 metri, quindi vicino, ma attenzione! –
….
Sebastiano dette gas al motorino e iniziò la salita verso la sua casa sulla collina.
– E chi sono questi imbecilli –
gli si era parato davanti un gruppetto minaccioso vestiti da chirurghi con delle balestre
– Che cazzo vogliono?, se credono di farmi paura si sbagliano di grosso –
…..
lo disarcionarono dal motorino, gli tolsero gli indumenti lasciandolo a torso nudo, solo con i suoi jeans strappati alla moda. Lo legarono ad una quercia.
Sentiva la corteccia ruvida sulla schiena, aveva freddo, ma non aveva paura. Erano tiratori esperti, lui stesso era stato un tempo iscritto ai balestrieri, probabilmente erano suoi amici, ma non li riconosceva, bardati com’erano e poi stavano zitti, tranne il capo che ogni tanto urlava: -devi tornartene a casa, la tua casa è la zona rossa, non questa! –
Sentiva le frecce sibilare a pochi centimetri, poi come al rallenty vide uno che pestò una grossa pietra nascosta dall’erba. Perse l’equilibrio proprio mentre stava scoccando. La freccia si conficcò nel collo e un fiotto di sangue come zampillo di fontana sgorgò dlla giugulare. Il suo sguardo doveva essere sbalordito, ma stranamente non provava dolore, sentiva che stava morendo.
……..
– Che cazzo hai fatto? – urlò il capobranco.
-Sono inciampato! –
– Sta morendo, evitiamo di farlo soffrire, mirate al corpo –
……..
Sebastiano sentiva la vecchia signora che lo avvolgeva. Pensò a Fabrizio, “stava morendo a stento ingoiando l’ultima voce, tirava calci al vento, mentre sfumava la luce”.
Sentì una freccia al fegato, una sul braccio, all’inguine sopra i jeans, allo stomaco.
Con gli occhi appannati vide uno del gruppo, gli era caduta la mascherina. Era il suo compagno di banco delle elementari, stava piangendo. Al momento del tiro alzò la balestra, la freccia si disperse fra le fronde sopra la sua testa.
– Fatti in là – sentì appena urlare il capo che stava mirando. La freccia gli spaccò il cuore e fu tutto buio.
……
Quando lo trovarono, con il sangue rappreso e coagulato su tutto il corpo, aveva il capo reclinato sul petto, una corona di rovi sulla testa, ma era sorridente e sembrava quasi felice.