Racconto di Vanni Gianluigi Bettega

(Quindicesima pubblicazione)

 

Ai tempi aveva avuto una Guzzi 250, l’ultima sua moto fu una Lodola, però me lo ricordo col suo Zigolo grigio, Aveva uno stile diverso da suo cognato il Bepi. Quest’ultimo, anch’esso con la Lodola, aveva un comportamento da gentiluomo, guidava con stile professionale cercando i cavalli in basso come li conoscesse ad uno ad uno. Li aveva cercati nella Sala Prova della Moto Guzzi, dove lavorava: son buoni tutti a cercare i cavalli in alto- mi diceva- son quelli in basso che contano! Coerentemente non tirava le marce, partiva con lo stile tipico dei poliziotti, avviava la moto stando in sella, inseriva la prima e con un colpo di culo faceva toccar terra alla ruota che a sua volta faceva schizzare avanti la moto chiudendo il cavalletto. Solo dopo aver inserito la quarta si infilava i guanti. S’cepin, lo chiamavano così per distinguerlo dall’altro Giuseppe cioè Bepi suo cognato, amava la velocità, infilava la curva della cappelletta in quarta piena, piccolo di statura spostava il culo sulla moto di qua o di là a secondo della bisogna un pelo di controsterzo e la moto si inclinava fin quasi a toccare con le pedane. Godeva fama di uno che sa andare forte, molto forte. Dopo essere stato caporeparto alla Redaelli nell’ombrelleria, si mise in proprio, dapprima in un rustico dietro al castello dove mio padre amico suo mi ci portò per farmi vedere com’è una officina: ricordo qualcuno che usando una mola faceva scintille e il giorno seguente, a scuola, disegnai papà davanti a una mola che faceva scintille, immaginando che il suo lavoro fosse qualcosa del genere! Successivamente attrezzò tutto il pianterreno di casa e pure il seminterrato per la fabbricazione di ombrelloni: l’azienda si chiamava “ombrellonificio Plinio “, dabbasso l’officina, lì si tagliavano i tubi di alluminio, si montavano gli snodi e si eseguivano tutte le operazioni sul metallo, perché si trattava di ombrelloni di qualità, il fusto e lo snodo in alluminio, le stecche in acciaio zincato. Al pianoterra la sartoria dove si tagliavano e cucivano gli spicchi e, talvolta, si riparavano gli ombrelloni danneggiati. Con le tele di scarto Tato ed io costruivamo immense tendopoli! Spesso si recava lui stesso dai clienti per le consegne, dapprima con la 600 multipla, successivamente con un pulmino della Wolkswagen. Con la multipla una volta ci portò a Lecco per vedere Fausto Coppi, oltre me e papà c’erano tre altre persone, non ricordo chi fossero, ricordo però che rimasi deluso perché riuscii a vedere Coppi per un infinitesimo di secondo! Col WW, arrivato papà alla pensione di invalidità, gli chiedeva spesso di accompagnarlo a far consegne, di solito Rimini o Riccione; durò poco, papà , colpito da un infarto venne a mancare. Mancò moltissimo a me e ai miei fratelli ma pure a lui che rimaneva senza compagnia.

Un giorno, credo fossimo nel 1969, ci incontrammo casualmente in piazza:

– Vuoi venire con me?

-Dove mi porti?

-A Padova, si va a Padova e dintorni.

Il tempo di avvisare la zia, cambiarmi e via, si parte.

Non c’era la radio sul pulmino, chiacchierammo quindi parecchio: mi raccontò della guerra, lui era imbarcato sulla Vittorio Veneto, era sul ponte della nave quella notte nel porto di Taranto quando vide una bomba sganciata da un aereo, centrare il fumaiolo della Littorio facendo molti morti, oltre ai danni materiali. Era addetto alla sala macchine, aveva il terrore della chiusura delle paratie, in tal caso teneva a portata di mano una pesante mazzuola di piombo, da darsi in testa e farla finita in quell’eventualità.

Arrivammo quindi a Padova, una breve visita alla basilica del Santo, poi a cena, in albergo con un cliente. Il mattino successivo, saliti in macchina, si parte per Montagnana, il paese sta sui colli Euganei, lontano da altri centri abitati. Una bella fortificazione cinge l’abitato, in qualche tratto il muro è rovinato. All’interno delle mura fan stringere il cuore i bei palazzi andati in rovina, forse troppo costosi da mantenere: troviamo l’interlocutore all’interno di uno di questi palazzi. Mentre S’cepin discute con questo suo fornitore mi guardo intorno: i rovi sono entrati dalle porte e le galline starnazzano sul bel pavimento palladiano. Mi affascina ed angustia al tempo stesso la situazione penosa in cui si trovano queste bellissime costruzioni.

Sulla via del ritorno mi appisolavo fantasticando su quanto sarebbe stato bello il paese se si fossero restaurati quei palazzi: evidentemente erano la cosa che più mi aveva colpito.

Passata una quindicina di anni, ormai sposato e con una figlia un giorno mi torna in mente quel viaggio; ne parlo con Flaviana infervorando la descrizione di quanto mi aveva colpito: lei, contagiata e incuriosita, abbocca – quando ci andiamo? – Fu così che con la nostra nuovissima Citroen Visa 650cc, affidata Serena alla nonna, si parte per i colli Euganei. Arrivati a destinazione, troviamo subito la pensioncina che avevamo contattato e prenotato, si trova all’esterno delle mura; noto subito che le mura sono ben messe, è ora di pranzo, visiteremo la cittadina nel pomeriggio. Entriamo e ci troviamo quasi subito in piazza del Duomo: la piazza è enorme, pulitissima e ben tenuta, intorno ci sono alcuni eleganti caffè, i palazzi sì, ci sono ma di macerie nemmeno l’ombra: a pianterreno dimorano banche ed esercizi commerciali; Flaviana mi guarda stranita, io sono sorpreso e piacevolmente stordito, quando torniamo alla pensione ne parliamo con la signora: sì, ci dice è stato tutto restaurato, si è costituito un pool di banche che ha provveduto a finanziare l’impresa.

Tornando a casa, guidavo felice: in fondo hanno realizzato un mio sogno senza che io lo sapessi!

Vanni