Racconto di Giorgio Dallabona

(Prima pubblicazione – 1 gennaio 2020)

Quando conobbi Gianfranco Robbins lui era una di quelle persone che ti scolpiscono la mente, senza avere bisogno né di marmo né di scalpello.
Alto, molto più della norma, non soffriva di alopecia o calvizie incipiente ma, al contrario, regolava la criniera in maniera esemplare e non la spalmava di tinture, nemmeno a 62 anni.

Era un individuo magro ma non esile, saldo ma non ingessato, imponente ma non allampanato.
Aveva due occhi azzurri farciti e languidi, bocca sottile e naso equilibrato, poche rughe e tutte piazzate orizzontalmente sulla fronte, in modo da non stonargli ma,

semmai, di accrescere la sua impressione di riflessività e carisma.
I vestiti erano impeccabili: cashmere e tweed, con un foulard azzurro nella tasca sinistra della giacca. Non potevo fare a meno di chiedermi cosa ci facesse una persona del genere nella sala d’attesa del centro di salute mentale.

Ricordo che cominciammo a parlare dei bambini, perché lui mi mostrò la foto su una rivista di un bell’infante, pasciuto e sorridente.
“Bello, vero? Io ho un’autentica passione per i fanciulli.
Ho due piccole, anzi ormai grandi: Lorena ed Ester.”

Io gli risposi con cortesia. Non rientrava nelle mie competenze il reparto pediatrico dei ricordi di un individuo, e nei miei primi quarant’anni non avevo avuto modo di fornire la luce a dei frugoletti; quindi, dopo il primo attimo di gentilezza me ne restavo zitto.

Lui continuò a parlare alzando le mani e Io non potei fare a meno di incantarmi su quelle dita, incongruamente macchiate di nicotina, e quei due polsi, solcati da imponenti cicatrici.
Non ci riflettei troppo su, e presi a deviare il discorso portandolo sui nostri rispettivi psichiatri, e i farmaci che assumevamo. Era un terreno più familiare rispetto a marmocchi e lattanti e, chissà perché, mi dava più tranquillità che non sentirlo sproloquiare di pappette e omogeneizzati.
Semplicemente non mi sembrava congruo per un uomo di sessantadue anni, quale si era rivelato nella sua espansività.

Tutto qui. L’attesa si protrasse a lungo, e avemmo modo di percorrere tutta una serie di argomenti in lungo e in largo. Fuori dalle finestre cominciava a incombere la lunga sera invernale e qualche fiocco rado appariva fra i riflessi delle luci artificiali.  Poi, fui finalmente chiamato dal mio psichiatra, un gran pettegolo ritardatario, ed entrai nello studio, salutando il signor Gianfranco Robbins con una lunga stretta di mano.

“Pensi a lasciare un figlio alle sue spalle, è importante.”
Mi sussurrò prima di separarsi.
“Si sentirà meno solo”.
Io annuì, quasi commosso, e mi infilai nella stanzetta.

Mi sedetti mentre lo psichiatra Visconti lo aveva già fatto, e stava con il volto puntato sull’oscurità, fuori dal vetro dell’ampia finestra.
Tossì per attirare la sua attenzione, ma in lui pareva essersi eclissato il buontempone e querulo.
Quando lo sentì parlare possedeva un timbro di voce che sembrava appena affiorata dall’oltretomba.

“Conosce Robbins?”. Mi chiese.
“C’ho parlato appena adesso.” Risposi sbadigliando.

“Per la prima volta”. Aggiunsi non so per quale ragione.
“Un tipo particolare.” Mormorò lui, quasi seguendo il flusso di proprie riflessioni recondite:
“Un tempo sua moglie gli aveva portato via le bambine, e lui andò a riprendersele.

Percorse 400 chilometri fra Bratislava e l’Italia. poi strangolò le bambine e le gettò nel Po, giusto prima di tagliarsi le vene con una…. Specie di temperino affilato.
Diceva che non sarebbero potute stare senza di lui, sa com’è, diceva di amarle davvero tanto. Poi a lui hanno salvato la pelle, e si è fatto 13 anni di galera.”

La luce della lampadina era spenta e lo rimase per almeno dieci minuti, mentre Io e Visconti continuavamo ad osservare i fiocchi farsi più fitti e ricoprire il tetto del palazzo di fronte.

Poi il mio psichiatra burlone scattò in piedi e schiacciò l’interruttore mentre il vecchio sorriso gli affiorava alla bocca.
“Allora, torniamo a Noi…. Dove eravamo rimasti?”