Racconto di Maria Letizia Pecoraro

(Seconda pubblicazione – 27 settembre 2019)

 

Nascere a sud comporta una mutazione genetica irreversibile. Essa resta latente tutto il tempo in cui il cucciolo d’uomo, u vagnone, satellita nelle orbite concentriche della famiglia, del rione, del paesello bello. Nulla lascia supporre che il DNA del salentino diverga in qualche modo da quello del “polentino”.

mostrano uguali reazioni a sollecitazioni uguali, piangono a intervalli regolari, danno segni di sovraeccitazione nelle ore deputate al sonno, sviluppano un’insospettata capacità di argomentare in presenza di adulti estranei e giudicanti, tanto da regalare al genitore accompagnante un senso di scoramento e sconfitta. Unico segno che, in qualche modo, caratterizza e differenzia tra loro i piccoli italici è la melodia che accompagna l’eloquio: quando parlano cantano ognuno con la propria cadenza, appresa sciacquando i pannetti ciascuno nel proprio fiumiciattolo.

Poi arriva il momento in cui il cuccioletto, ormai divenuto maggiorenne ma pur sempre u vagnone, lascia l’ovile per tentare nuove e più proficue avventure. Il raggio d’azione si dilata in modo inversamente proporzionale al grado di pigrizia, camuffata da attaccamento alle radici e agli affetti.

È in questi anni che si compie la diaspora: intere generazioni vengono imprestate ad altre piazze, altri bar; pavimenti e muri stranieri si ritrovano a raccogliere e rilanciare cambi d’abito e briciole residue di pasti consumati bypassando le consuetudini arcaiche e i dettami delle tabelle nutrizionali.

Per dirla in breve, u vagnone s’è diplomato e va all’università a farsi qualcuno.

Ed eccolo emergere, allora, quel piolo della scala che diverge, quella piccola stortura nell’allineamento geometrico del DNA del salentino, che tratteggia in modo inequivocabile ed inesorabilmente, ogni nascituro dell’estremo tacco dello stivale.

Da un momento all’altro, probabilmente già nell’atto stesso di chiudere le valigie gonfie di speranze e frise, l’Italia si fa scala, una lunga e articolata scala che ciascun cucciolo rappresenta in proprio; c’è chi la disegna a chiocciola, chi in legno nodoso, chi ancora ne fa ampi gradoni in marmo lucido.

Fatto sta che il “nato a sud” comincia a “salire” e a “scendere”, percorrendo in su e in giù quel tratto benedetto che collega la casa vera alla casa che studia per diventarlo.

Che la distanza sia di 50 km o che sia di 1200, u vagnone, acchiappando al volo la festa comandata ma anche quella suggerita, “scende” a casa per poi “salire”, a studiare, a lavorare, a vivere per sempre. Lui, dal nido, “sale”, lasciando a questo verbo innocuo il compito di declinare la fatica di alzare il piede da quella zolla di terra tumara, che avviluppa il passo e risale lungo la linea della spina dorsale, laddove si incanala nel midollo fonte di vita, e arriva ad annidarsi dentro l’anima, sicché  ogni saluto è uno strappo alle carni, ogni profumo salutato appare come l’ultimo respiro esalato prima della fucilata del plotone d’esecuzione, che di solito coincide con il fischio del capotreno o con l’ingresso al gate di un aeroporto che pare una frontiera.

C’è da domandarsi, dunque, il perché di una tale artificiosa rappresentazione delle distanze. Sarà per caso che, nascendo a sud del mondo, si mette in conto di dover faticare un pizzico in più? Sarà che i panni di cui hanno foderato le nostre culle erano intrisi di una malìa, che incatena perfino il più recalcitrante ad un amore appassionato per la propria terra? Un amore folle e qualche volta insensato, che come un incantesimo, guida la mano alla ricerca di segni – il caffè Quarta, le sagne torte, le rape, scovati in quella boutique gastronomica, su, ai pioli alti di quella scala; un accento familiare colto dentro mille favelle, in una metropolitana affollata…

Se mi pongo fuori dalla salentinità che mi pervade ed esco un attimo dalle mie vocali troppo aperte e dalle vibrazioni prodotte dalle esse che diventano zeta, non appena si allenta il severo autocontrollo, se provo a guardare a noi, fuori da noi, vedo che siamo abitati da un altrove coltivato dentro, alimentato dalle nostre feconde radici greche, reso lussureggiante da temperature torride e inverni senza spina dorsale; coltivato attorno a tavole imbandite oltre l’immaginario, nella convinzione che un corpo ben nutrito ami, pensi, studi meglio e con maggior passione.

E avere un altrove così regala sorrisi frequenti e lacrime facili, voglia di andarsene in un per sempre che finisce appena dietro l’angolo; un altrove così costringe a tornare, magari talvolta o a cadenza regolare oppure solo per tornare a morire, come gli animali selvatici che dicono addio alla vita rincantucciandosi nei pressi della tana.

Siamo un popolo antico, arcaico a volte, siamo propensi a prendere il mare grande del viaggio – siamo circondati per due terzi d’acqua; saliamo e scendiamo la scala della vita, con l’indolenza di chi si muove piano, tanto sa di arrivare comunque, ansimando di fatica per salire e scendendo in un battibaleno per ristorare il corpo e lo spirito al fuoco sacro di un amore carnale.

Ecco perché, io credo, da Lecce o da Aosta, si scende a casa e, finita la cuccagna, si sale.

Viva l’Italia fatta a scale.