Racconto di Andrea Mitri

(Prima pubblicazione – 30 aprile 2021)

 

 

La promessa originaria la feci la mattina che mia madre se ne andò via di casa con il gommista della Goodyear, da cui aveva fatto l’inversione delle gomme due settimane prima. Avevo undici anni e solennemente giurai a me stesso che non mi sarei mai acquistato un’auto.

Mio padre invece acquistò per la prima volta una bottiglia di vodka, si ubriacò e uscì nel freddo della notte a tagliare gli pneumatici di tutte le automobili parcheggiate nella strada; non valutando che così facendo, avrebbe fatto un favore al suo rivale in amore. Finì in carcere, per quattro giorni, e quando ne uscì, la prima cosa che fu costretto a fare, fu quella di andare direttamente alla banca a stipulare il mutuo per i risarcimenti: mutuo che di fatto, lo avrebbe legato al suo lavoro di insegnante precario per i successivi quindici anni, distruggendone sul nascere il sogno di diventare uno degli sceneggiatori di Tornatore.

Sette anni dopo, quella promessa la rinnovai, ampliandola.

Il giorno in cui mio padre ritrovò l’amore tra le braccia di una poliziotta del terzo distretto, io giurai a me stesso che sarei diventato un delinquente (anche se non ero interessato al genere) e già che c’ero, aggiornai la promessa iniziale aggiungendo la regola “non usare mai la macchina per fuggire dal luogo del delitto”.

È così che è nato il mito dell’inafferrabile rapinatore a piedi, il ragazzo agile con il passamontagna che entra nei minimarket del padovano puntando la pistola afferra l’incasso e fa perdere le sue tracce nei vicoli circostanti nel giro di pochi minuti; facendo ammattire la polizia di mezzo Veneto.

Sono inafferrabile, perché ho sempre studiato i miei assalti nei minimi dettagli.

Segno con dei gessi Maimeri, di colore ogni volta diverso, le vie di fuga prossime all’edificio in cui ha sede il mini market, privilegiando i percorsi poco battuti dalle persone in giro per compere, le scalinate in discesa e i vicoli a scarsa illuminazione. Pochi colpi, a distanza di tempo lungo e variabile, assolutamente non necessari al sostentamento della mia banale e tranquilla vita di liceale dell’ultimo anno del Carlo Goldoni; la quale supporto invece economicamente dando ripetizioni di inglese e spagnolo agli studenti del primo anno.

A chi crede che l’adrenalina vada a mille in quei momenti, voglio dire che nel mio caso non succede. Tutto avviene molto tranquillamente, forse perché conservo sempre quella lucidità e quella freddezza che mi hanno regalato il soprannome di “Gelo” nella cerchia delle mie compagne di classe, ragazze a cui mai ho dato, anche per un attimo, parvenza di interesse amoroso.

Non ho mai permesso che qualcosa andasse storto, che l’imprevisto si frapponesse anche solo per un attimo tra me e la realizzazione di una rapina. Ho sempre valutato con attenzione anche la miriade di telecamere di sicurezza che stanno rendendo insecretabile la nostra vita di tutti i giorni e variato i travestimenti durante i sopralluoghi, di modo che nessun zelante ispettore potesse notare una presenza assidua di qualcuno nelle vicinanze del minimarket, qualche giorno prima del colpo. Ho impostato la mia vita sul controllo, sul rifiuto dell’imprevedibile e sul mantenimento delle promesse.

Ma da qualche parte, nascosto nelle pieghe della nostra adattabilità alla vita, esiste un piccolo spazio, quasi un taglio, in cui la vita stessa riesce, nei momenti più impensati, a iniettare il veleno della sua forza superiore.

Perché di veleno mi sembra che si tratti.

A me succede alle 16.45 di oggi pomeriggio, in questo momento, mentre punto la pistola contro la cassiera bionda e le intimo di versare i soldi nella busta di carta della Calzoleria Gianassi che ho appena recuperato in un bidone della spazzatura qui vicino. Non la vedo e non la sento, la signora anziana con il cappotto beige che a fatica sta rimettendo gli spiccioli dentro il suo consunto portamonete verde. Non la vedo e non la sento, le sono passato davanti senza osservarla nel momento in cui sono entrato.

Non la vedo e non la sento, fino a quando non mi giro e i suoi occhi incrociano i miei.

Allora la vedo e la sento.

«Te gà i stesi oci de tua mama», mi dice avvicinandosi al mio viso.

E mi tira un ceffone che a me sembra solo la prima carezza dopo tanto tempo.