Racconto di Danila Delaiti

(Prima pubblicazione – 22 gennaio 2020)

 

Tutto era come lo ricordava, anche se il piccolo borgo era stato totalmente ristrutturato.

Le case di pietra erano state riportate al loro antico splendore, ed ora brillavano coperte di brina gelata, creando giochi di luce tra il verde delle foglie e il cielo, in parte nuvoloso quel giorno.

I filari della pregiata uva locale che anche suo nonno aveva coltivato si stagliavano più a valle con il colore autunnale delle foglie, rosse e dorate.

Ricordò in un attimo le scorribande per le stradine del paese con gli amici, le castagnate in autunno, il profumo della marmellata che cuoceva sulle stufe.

Si incamminò lungo lo sterrato che dalla chiesa si arrampicava verso la grande casa dei nonni, isolata dalle altre, circondata dal parco.

Un poco affannata la raggiunse.

Quelle era forse l’unica casa che era rimasta intatta.

Un profumo fortissimo quasi la stordì: il cancello ormai arrugginito, un po’ storto, era quasi tutto coperto dal caprifoglio rampicante che lei stessa aveva piantato. Era ancora chiuso dal grande lucchetto che ricordava.

Le si strinse il cuore, riportandole alla mente un pesante passato.

Dietro quel cancello aveva lasciato, tanti anni prima, tutto quello che era stato il suo vissuto di bambina e poi di ragazza.

Nel suo immaginario, nei tanti anni trascorsi lontano da lì, aveva sempre pensato (o forse sperato?) che tutto fosse crollato, sparito.

Una lacrima le bagnò il volto. Ricordò il giorno della sua partenza. La lettera di Marco stretta nella mano, stropicciata dall’ansia, i nonni che in silenzio assistevano alla furiosa lite con i suoi genitori, le sue ultime parole, gridate “Io parto, io lo raggiungo, voi non potete fermarmi in nessun modo”.

Aveva cercato in ogni modo di salvare l’armonia familiare, lasciando partire Marco da solo, sperando di riuscire a far cambiare idea ai suoi genitori che si opponevano al suo allontanamento da casa, di poter quindi serenamente partire e raggiungerlo. 

Dopo un po’ di mesi lui le scrisse che nell’ospedale pediatrico di quel paesino sperduto dell’Africa, si era subito ambientato, che quello che faceva lo gratificava del tutto, che quei bimbi gli avevano rubato il cuore e le chiedeva di raggiungerlo.

Naturalmente i suoi genitori si erano nuovamente opposti in ogni modo, ma non erano riusciti a trattenerla.

Ed era partita. 

E laggiù aveva trovato davvero il suo posto nel mondo.

Un lavoro duro ed impegnativo, che lasciava ben poco spazio per se stessi, ma talmente gratificante da riempire cuore e mente. Mai si era pentita della sua scelta. Mai. 

Ma spesso aveva pensato a quei monti, ai fiori di campo, alle mucche al pascolo, al profumo delle bucce di mandarino essiccate sulla stufa.

Alla nonna che sferruzzava sulla poltrona vicino alla finestra, a sua madre che leggeva seduta sotto il grande albero davanti al portone d’ingresso e al padre che in silenzio usciva presto il mattino e silenzioso rientrava tardi la sera.

Il silenzio. Regnava sempre in quella grande casa, impregnava i muri e i cuori. Non si scambiavano opinioni, non si raccontavano fatti o storie, non si rideva, non si sorrideva, soltanto rigore e silenzio.

Non si capacitava di come lei potesse essere così diversa dai suoi genitori, solare, disponibile, curiosa, sempre tesa ad imparare ed osare.

Se ne era dunque andata all’alba del giorno dopo.

Non era più tornata a casa. Scriveva regolarmente senza ottenere risposta. Ma le lettere non vennero mai respinte. Qualcuno certamente le aveva conservate, e nei giorni seguenti le avrebbe cercate. Poteva immaginare dove: nel cassetto segreto della scrivania di sua madre.

Arrivò poi la lettera del notaio, alla morte dei genitori.

La casa era a sua disposizione.

Partì solo l’anno dopo, dopo la morte del suo adorato Marco.

Non aveva più nessuno in Africa, non aveva più nessuno neppure nel piccolo paese tra i monti.

Provò a spingere il cancello e il lucchetto arrugginito cadde a terra. 

Ancora pochi passi e la grande casa di pietra fu completamente davanti ai suoi occhi.

Triste e buia nella luce del tramonto.

L’albero era diventato enorme, il prato coperto da foglie secche.

Si avvicinò ad una finestra e occhieggiò all’interno. Troppo buio. 

Aprì la porta con facilità. La persona che aveva incaricato di dare una ripulita aveva fatto egregiamente il suo lavoro, oliando anche la serratura.

Anche l’energia elettrica era stata ripristinata.

Li ha destra c’era l’interruttore, lo ricordava benissimo. Accese.

Tutto come allora. Anche il porta frutta di ceramica a centro tavola, seppur vuoto.

Aleggiava un odore di cera d’api: i mobili erano stati spolverati e lucidati.

Così come amava fare sua madre.

Scostò una sedia dal lungo tavolo e si sedette, passando le mani sul legno scuro e consumato

Mille ricordi si affollarono nella sua mente, le passavano davanti immagini che credeva dimenticate.

Sorrise, dimenticando definitivamente i rancori con la famiglia.

Le sue radici non erano mai state recise del tutto

Era giusto essere tornata.